Vendere l’anima (in Ucraina)

da Il Corriere della Sera

Vendere l’anima (in Ucraina)

di Paolo Mieli | 13 febbraio 2025
Dopo la telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin, di dignitoso c’è assai poco. Il Presidente degli Stati Uniti appare deciso ad infierire contro Volodymyr Zelensky trattato come un postulante da tenere fuori dalla porta
Per carità, lasciamo stare la Conferenza di Monaco. Quel summit di fine settembre del 1938, che consegnò la Cecoslovacchia a Adolf Hitler in cambio di una «pace» alquanto illusoria, ebbe quantomeno una sua dignità. È possibile che personaggi del calibro di Édouard Daladier e Neville Chamberlain non fossero del tutto consapevoli dell’errore che stavano compiendo. Lo stesso Benito Mussolini cercò di ritagliarsi un ruolo distinto da quello di Hitler.
Adesso invece, a seguito della telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin, di dignitoso c’è assai poco. Il Presidente degli Stati Uniti appare deciso ad infierire contro Volodymyr Zelensky trattato come un postulante da tenere fuori dalla porta. E che, quando verrà il momento, dovrà pagare, per l’aiuto ricevuto, un lauto compenso in «terre rare». Poi verrà cacciato in malo modo.
Per gli europei sarà leggermente diverso. Considerati chiacchieroni e inconcludenti, per di più accusati di essersi pomposamente accodati a Joe Biden, verranno comprati, al momento opportuno, con qualche dazio in meno. Magari ci sarà qualche «terra rara» anche per qualcuno di loro. Qualora se ne avverta il bisogno. Ma forse non sarà necessario neanche quello.
Al momento gli statisti d’Europa chiedono solo di essere fatti accomodare al tavolo delle trattative. Verranno accontentati, a giochi ben definiti, con qualche strapuntino aggiunto in extremis. Ma in modo da sottolineare bene la loro irrilevanza.
Del resto, sono anni che blaterano di «esercito europeo» senza fare un solo passo avanti per dar vita a qualcosa del genere. Si sono riempiti la bocca di parole altisonanti ma poi hanno regolarmente gareggiato con Biden nel consegnare in ritardo gli aiuti all’Ucraina.
Sono stati generosi di «missioni» a Kiev ma al dunque hanno sempre cercato pretesti per non pagare la dovuta quota in tutto ciò che riguarda gli armamenti. E adesso appaiono terrorizzati alla sola idea di doversi sostituire agli americani nel sostegno a Kiev. Soprattutto quando si accenna a una forza di interposizione per un confine lungo oltre mille chilometri. Forza di interposizione per la quale Washington ha già annunciato che non manderà neanche un soldato. Ed è probabile che, visti i precedenti, quel contingente militare, prima o poi, sarà costretto ad impegnarsi in combattimenti.
Ovviamente questo discorso non riguarda i leader dei Paesi che confinano con la Russia o che temono di essere investiti dall’onda putiniana. Onda che, Nato o non Nato, puntualmente troverà il modo di investire l’Europa del Nord. Loro sì che si rendono conto di quel che accadrà di qui a qualche anno. Alcuni perché non hanno dimenticato le passate esperienze di quando la Russia si presentava sotto le bandiere dell’Urss. Bizzarro che a fare da cavallo di Troia adesso non saranno i partiti neocomunisti ridotti al lume di candela ma quelli di estrema destra o addirittura neonazisti. E i leader della sinistra moderata si guarderanno bene da alzare la voce per paura di veder compromesso il loro futuro da qualche colpo di fiocina proveniente dal mondo «pacifista» ben piazzato alle loro spalle.
Per quel che riguarda l’Italia si distingue da questo clima di resa generalizzata il capo dello Stato Sergio Mattarella. Lo fa ogni volta che può e (dopo le offese che per questo ha dovuto subire) la storia gliene darà atto. Altri, che gli furono a suo tempo compagni di strada, da qualche mese si sono distratti, si occupano d’altro. La sinistra «responsabile», con qualche eccezione, pronuncia parole vuote per i motivi di cui si è detto. Sui giornali si è avvertito qualche allarme nell’editoriale di Paolo Valentino pubblicato ieri su queste pagine. E, gradita sorpresa, là dove non ce lo aspettavamo, su «Avvenire», il giornale dei vescovi, a firma di Giorgio Ferrari.
A destra si assiste ad una gustosa gara a mettersi in luce con i sottopancia di Trump. In molti raccontano di aver ricevuto complimenti dall’amministrazione statunitense per la loro capacità di tenere il piede in due scarpe. Ma autentici «titoli di nobiltà» li avrebbero solo gli eredi di Silvio Berlusconi per la indimenticabile allocuzione filo putiniana del cavaliere pronunciata a Napoli davanti a «Cicciotto a Marechiaro» (20 maggio 2022). E avrebbero «titoli» i compagni di avventura di Matteo Salvini per il suo prolungato «entra e esci» dall’ambasciata russa ai tempi in cui a villa Abamelek regnava Sergey Razov. Forse li avrebbe anche l’ex Presidente della Rai Marcello Foa, appena designato nel cda della Scala.
Oltre, naturalmente, a Giuseppe Conte ben collocato, dalla fine dello scorso decennio, a metà strada tra Trump e Putin (anche se ha da farsi perdonare qualche voto del M5S in Parlamento a favore delle armi a Zelensky).
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da Il Corriere della Sera
9 febbraio 2025

Trump e Putin, dal G20 di Amburgo 

al vertice di Helsinki: la relazione speciale 

tra due ego smisurati

di Paolo Valentino
Durante il primo mandato, dal 2017 al 2020, Trump incontrò 5 volte Putin ed ebbe con lui 9 telefonate. Oggi potrebbe far rivivere lo «spirito di Yalta» e negoziare una pace sopra la testa dell’Ucraina
Quando con altri giovani colleghi arrivammo a Mosca nel 1990, ci accorgemmo che la cosiddetta «cremlinologia» aveva fatto il suo tempo. Nel caos creativo della «glasnost», serviva ormai a poco l’arcano esercizio di leggere attraverso segnali marginali cosa succedesse dentro il potere sovietico: una strana critica sulla Pravda, uno scambio di posizioni sulla balconata del Mausoleo di Lenin, un nome in più o in meno nella receiving line di un ospite straniero. «Prima non sapevamo nulla e capivamo tutto, ora sappiamo tutto e non capiamo nulla», ironizzava il grande Demetrio Volcic. Oggi il nuovo arcano è la «Trumpologia», campo nel quale una folta schiera di esperti o sedicenti tali si cimenta nella «vera interpretazione» di cosa ci sia dietro il vortice di dichiarazioni contraddittorie, nomine, misure e minacce del nuovo presidente americano. Ma, parafrasando Volcic, l’impressione è che questa volta «non sappiamo nulla e non capiamo nulla». Tant’è.
Scatena una valanga di commenti e alimenta ogni scenario, l’annuncio di Trump, che al New York Post ha detto di aver «parlato della guerra» al telefono con Vladimir Putin, chiamata che il Cremlino non conferma né smentisce. Saranno i prossimi giorni e settimane a dirci quale seguito avrà questo primo approccio. Quello che però oggi si può fare è cercare di capire la natura del rapporto tra Trump e Putin, sulla base di cosa è successo in passato.
I numeri, in primo luogo. Durante il primo mandato, dal 2017 al 2020, Trump incontrò 5 volte Putin ed ebbe con lui 9 telefonate. Su quegli anni pesarono le voci mai dimostrate che Trump era stato «compromesso» dai servizi russi: storie non sostanziate su investimenti dubbiosi in Florida, improbabili video di sue imprese erotiche in un hotel di Mosca, presunti contatti di ogni tipo tra la sua campagna e l’intelligence del Cremlino. Certo, la Russia interferì con i suoi troll nelle elezioni del 2016 (ha continuato a farlo) e ci furono contatti preventivi, politicamente inopportuni, tra l’entourage del presidente-eletto e l’ambasciatore russo negli Usa. Ma nelle 448 pagine del suo rapporto, neppure l’ex capo dell’Fbi, Robert Mueller, riuscì a provare collusioni.
È vero, tuttavia, che Trump instaurò una relazione molto speciale con Putin, tenendola anche piuttosto segreta e giocoforza sospetta. La prima volta si videro al G20 di Amburgo nel 2017: subito dopo un faccia a faccia senza collaboratori, il presidente americano si fece consegnare le note del suo interprete, ordinandogli di non rivelare ad alcuno quello che aveva sentito. Quella sera stessa, alla cena ufficiale, Trump a un certo punto lasciò il posto a tavola assegnatogli, prese una sedia e si piazzò accanto a Putin, conversando con lui senza che alcun funzionario del suo staff fosse presente.
Il terzo incontro avvenne lo stesso anno a novembre in Vietnam, a margine di un vertice Asia-Pacifico.
Il vertice più celebre resta quello russo-americano di Helsinki, nel 2018, dove parlarono a lungo senza testimoni e alla fine Trump smentì l’Fbi, dicendo di credere a Putin, che nei colloqui aveva negato ogni interferenza nelle presidenziali del 2016.
La nuova vittoria di Trump mette il turbo alla politica personalistica nei rapporti internazionali, soprattutto in quelli tra Mosca e Washington. Il terreno di gioco è l’Ucraina. Putin non ha risparmiato elogi a Trump, prima e dopo il 5 novembre, dicendo addirittura che, «se l’elezione del 2020 non gli fosse stata rubata», la guerra non sarebbe mai iniziata. Il suo sogno è un accordo a due sulla testa di Zelensky, con la riduzione dell’Ucraina a Stato vassallo e neutrale, facendo in qualche modo rivivere lo «spirito di Yalta», quando Stalin e Roosevelt si divisero l’Europa, e riconoscendo alla Russia un ruolo di grande potenza, la sua vera ossessione e missione.
Ora, è vero che Trump è reso vulnerabile dal suo narcisismo ed è ansioso di passare alla Storia come il grande «deal maker» geopolitico, degno un giorno del Nobel per la Pace. Ma c’è anche la possibilità che Putin, anche lui dall’ego molto fragile, si senta troppo sicuro, sopravvaluti la propria posizione e finisca per irritare il suo volubile interlocutore. Utile, in proposito, è ricordare il consiglio che un giovane Donald Trump, durante un party a Long Island nel 1989, diede al diplomatico americano Richard Burt, appena nominato capo dei negoziatori americani alla trattativa Start: «Lei metta a suo agio i sovietici, parli d’altro. Poi, quando si sono rilassati, tiri fuori il negoziato e dica loro di andare a farsi fottere». Lo farà, ora che è presidente?
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da AVVENIRE
Nuovi equilibri.

Trump-Putin: quei negoziati di pace

sull’Ucraina senza Europa

Giorgio Ferrari
giovedì 13 febbraio 2025
Terre nuove per Mosca, terre rare per Washington: è la logica mercantilistica del “do ut des”. E l’Unione Europea sta alla finestra
La notizia, posto che davvero porti alle conseguenze che tutti auspichiamo, è dolce-amara. Donald Trump e Vladimir Putin hanno concordato di dare avvio ai negoziati di pace sull’Ucraina per chiudere al più presto la buia pagina di lutti e di orrore che da tre anni – da quando Mosca ha invaso l’Ucraina con il pretesto di un’Operazione Speciale – ha insanguinato l’Europa.
«Ho appena avuto una lunga e altamente produttiva telefonata con il presidente russo Vladimir Putin. Abbiamo discusso di Ucraina, Medio Oriente, energia, intelligenza artificiale, il potere del dollaro e vari altri argomenti»: lo ha scritto Donald Trump annunciando la telefonata avuta con il presidente russo Putin, confermata anche dal portavoce del Cremlino Peskov, che ha parlato di una conversazione durata circa un’ora e mezza.
Dopo centinaia di migliaia di morti, di maldestre offensive e controffensive, di cinici sacrifici di carne da cannone, di giovani mandati a morire per assicurarsi rapinose e transitorie conquiste di fazzoletti di terra, di logoranti guerre di trincea, di vite spezzate e di vite in fuga, di gioventù falciate dalla dissennatezza di una guerra che nessuno dei due contendenti poteva vincere, di miliardi di dollari e di rubli spesi nel foraggiare la più turpe delle filiere commerciali – quella degli armamenti – di sanzioni-boomerang che hanno impoverito tutti senza fiaccare più di tanto il bersaglio delle sanzioni stesse (la Russia), di esodi biblici di popoli in cerca di un luogo sicuro, ecco che i due grandi signori della guerra, i Warlord Trump e Putin finalmente decidono di intendersi. Parleranno di negoziati, di pace, di nuovi assetti. Dietro i quali si nasconde – ma neppure tanto – il bottino che entrambi già intravedono: terre nuove per la Santa Madre Russia (Donetsk, Lukansk, Mariupol), terre rare – intese come i preziosi gioielli della tecnologia futura, litio, berillio, lantanio, cerio, neodimio e idrocarburi per Washington: 500 miliardi di controvalore, quanto basta per pareggiare i conti e far fruttare quei 174 miliardi di dollari finora spesi dall’America per sostenere Kiev.
Do ut des, secondo la logica mercantilistica di Trump. Do ut des, secondo il neo-imperialismo putiniano, che in cambio della pace proseguirà quel land grabbing (accaparramento di terre) iniziato con l’Anschluss della Crimea del 2014 e prima ancora con la Georgia nel 2008. Ma se accordo di pace verrà, se tacerà il cannone, il grido del Papa – un grido antico, che già s’innalzava all’alba dell’invasione – non sarà stato vano.
Dolce-amara, dunque, la telefonata tra Putin e Trump. L’amarezza, non occorre dirlo, alberga nella totale assenza dell’Europa, nella sua documentata irrilevanza, nella plateale esclusione – la stessa riservata per ora a Volodymyr Zelensky – dalle trattative di pace. Come brutalmente (ma in questo, nella totale assenza di fair play diplomatico Putin e The Donald si somigliano e s’intendono alla perfezione) ha osservato non più tardi di due giorni fa lo stesso zar in un’intervista alla tv di Stato: «Trump ripristinerà rapidamente l’ordine fra le élite europee, e queste rapidamente si metteranno ai piedi del padrone e scodinzoleranno dolcemente».
Forse non sarà così: Francia, Spagna e Germania subito avvertono: «Non ci sarà alcun accordo senza il coinvolgimento di Kiev e dei suoi partner europei». Ma qualcuno già chiama opportunamente “crepuscolo transatlantico” questo cruciale cambio di passo nelle relazioni fra le due sponde dell’oceano. L’importante è che l’Europa se ne renda conto, che il sonno dogmatico nel quale era assopita fino ieri si trasformi nella consapevolezza che occorrono visioni e modalità nuove per dialogare con l’amico americano. Sempre che sia ancora un amico.
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da Il Corriere della Sera

L’ora più buia dell’Ucraina: 

Putin vuole uno Stato vassallo,

neutrale e disarmato. 

E Trump legittima l’aggressione militare

di Lorenzo Cremonesi
Il pericolo per la sovranità del Paese: Mosca vuole uno Stato vassallo, con Kiev neutrale e disarmata. Zelensky: 100 mila uomini per il contingente di pace
L’ora più buia dell’Ucraina non è più quella dell’invasione russa tre anni fa, ma arriva adesso: è stata superata in gravità dal cementarsi del rapporto privilegiato tra Trump e Putin, destinato a costringere Zelensky nell’angolo. L’incubo peggiore per Kiev è diventato realtà. La nuova amministrazione americana di fatto con le sue mosse legittima l’aggressione militare russa in nome della divisione del mondo tra i Paesi più forti (sebbene le forze armate russe abbiano dimostrato lacune enormi) e gli europei ben poco potranno fare per riequilibrare la situazione. La posizione del presidente ucraino è ormai difficilissima: ammette apertamente che senza l’aiuto militare Usa la guerra sarà persa e però capisce anche a a questo punto Trump non intende più continuare la politica di Biden in sostegno a oltranza allo sforzo bellico di Kiev.
«Un giorno l’Ucraina potrebbe anche essere russa», ha detto apertamente Trump tre giorni fa. Zelensky reagisce con impossibili equilibrismi nella speranza che alla Casa Bianca qualcuno spieghi prima o poi al presidente che Putin va combattuto, non assecondato. Così, definisce «molto buone» le sue ultime tre conversazioni telefoniche con Trump e ripete la richiesta affinché Ucraina e Stati Uniti coordinino in anticipo le loro posizioni per poi avviare una trattativa concreta con Mosca; però ammette anche che «non è stato simpatico» che Trump due giorni fa abbia dato il via ai contatti diplomatici parlando per prima con Putin. E visitando ieri una centrale nucleare vicino al confine con la Polonia ha aggiunto: «Come Paese indipendente non possiamo accettare qualsiasi accordo che ci riguardi. L’ho detto chiaramente ai nostri partner. Ogni negoziato bilaterale senza l’Ucraina, che coinvolga l’Ucraina, non sarà approvato».
In realtà, Zelensky ha già rinunciato da tempo a ottenere indietro tutti i territori occupati dai russi e adesso lavora soprattutto per difendere la sovranità del suo Paese. Il punto centrale della sua posizione venne elaborato già dopo il fallimento dei negoziati di Istanbul nella primavera 2022 e poi affinato l’autunno dello stesso anno in seguito al referendum farlocco imposto da Putin nelle quattro province ucraine occupate dal suo esercito. «Il pericolo più grave per noi sono le condizioni russe sulla nostra neutralità e il nostro disarmo quasi totale.
Nel concreto, Putin si arroga il diritto di imporci le alleanze, decide la nostra posizione nel mondo, che secondo lui deve rientrare nell’orbita russa e soprattutto ci priva delle difese militari. Il che significa ridurci alla condizione di Stato vassallo, esattamente come il regime della Bielorussia», spiegano alte fonti nell’ufficio presidenziale a Kiev.
Nelle prossime ore i rappresentanti ucraini rilanceranno questi argomenti alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco. Lo stesso Zelensky insisterà sulla necessità della presenza di almeno 100.000 soldati del contingente di pace da schierare lungo i confini contesi con la Russia. E il suo ministro della Difesa, Rustem Umerov, insisterà sul ruolo già attivo della Nato nell’addestramento e nel sostegno alle truppe ucraine. Nel frattempo, gli sviluppi internazionali stanno riaprendo il dibattito politico interno all’Ucraina e vanno ad impattare sul principio dell’unità nazionale contro il nemico esterno, che aveva contribuito a compattare la resistenza armata.
Con un decreto presidenziale Zelensky ha imposto dure sanzioni contro cinque oligarchi e politici accusati di frode, corruzione e danni alle finanze pubbliche nel momento dell’emergenza nazionale. Tra loro si trovano l’imprenditore Ihor Kolomoiskyi, il banchiere Hennadi Boholiubov e soprattutto Petro Poroshenko. L’ex presidente e oligarca è uno dei maggiori oppositori di Zelensky che accettò di sottoscrivere il patto di sostegno indiscusso all’esecutivo per facilitare il reclutamento delle forze nazionali. Tutt’ora Poroshenko resta contrario a indire le elezioni per garantire la continuità del governo. E non a caso ieri proprio Putin, con l’evidente scopo di destabilizzare il nemico e delegittimare Zelensky, si è detto pronto a offrire «asilo politico» a Poroshenko in Russia.

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