Perché bisogna cambiare la legge Bossi-Fini, punto per punto

Stampa, Altraeconomia, Ero Straniero

Perché bisogna cambiare la legge Bossi-Fini,

punto per punto

di GIANLUCA MERCURI
Nel dibattito sull’immigrazione (ri)acceso dalla strage di Cutro (26 febbraio, 79 morti accertati, di cui 33 bambini), ha fatto ingresso all’improvviso un vecchio fantasma, o meglio un totem politico su cui il centrodestra italiano ha costruito una parte importante della sua identità: la legge Bossi-Fini. Ormai se ne parlava così poco — nonostante l’onnipresenza della questione nel discorso politico e nelle campagne elettorali — da dar l’idea che fosse superata in senso stretto: da altre norme, e non solo dagli eventi. Finché, dopo Cutro, a riesumarla è stato un politico influente, forse il più influente di tutti dopo la premier: il suo stretto consigliere Alfredo Mantovano. Ma la riesumazione è servita al sottosegretario alla presidenza del Consiglio per dire che il prossimo passo deve essere una sepoltura definitiva, un ridisegno complessivo della legislazione sui migranti che consegni la Bossi-Fini alla storia. Subito dopo, il parere di Mantovano ha avuto la convalida — simbolica, ma proprio per questo di rilievo — di Gianfranco Fini, che non solo è uno dei padri della legge, ma sempre più si propone come uno dei padri nobili del melonismo, le cui sortite vanno dunque annotate per capire la possibile evoluzione della destra italiana, su impulso implicito della sua indiscussa leader.
Proviamo dunque a capire la questione, punto per punto:
  • Cos’è la legge Bossi-Fini? È la legge numero 189 del 2002, che dal 30 luglio di quell’anno regola l’immigrazione in Italia. Prende il nome dai due politici che erano in quella fase i principali alleati di Silvio Berlusconi nel suo secondo governo, uno leader di Alleanza nazionale e vicepresidente del Consiglio, l’altro leader della Lega (allora «Lega Nord» e non «Lega per Salvini premier» come si chiama adesso) e ministro per le Riforme: che fossero loro a firmarla dà l’idea della valenza simbolica che il centrodestra diede fin dall’inizio al provvedimento. Il che fa capire a sua volta sia la portata del tentativo in atto per cambiarla, sia quella delle resistenze già espresse o prevedibili, in particolare da parte leghista. La legge sostituì la Turco-Napolitano del 1998, e anche questo è simbolico: la legge della destra sui migranti al posto di quella della sinistra.
  • Cosa prevede la Bossi-Fini? I punti principali erano — sono — questi:
1) Espulsioni con accompagnamento alla frontiera: l’immigrato irregolare — cioè senza permesso di soggiorno e documento d’identità valido — deve essere espulso per via amministrativa e accompagnato alla frontiera. Se non ha documento valido finisce in un Centro di detenzione, quelli che con la Turco-Napolitano, che li istituì, si chiamavano Centri di permanenza temporanea e di assistenza (Cpta) e poi divennero Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e ora sono i Cpr (Centri di permanenza per i rimpatri).
2) Permesso di soggiorno legato a un lavoro effettivo. È la norma che, secondo la maggior parte degli osservatori, rappresenta la tara maggiore della Bossi-Fini, quella a cui si deve il fallimento delle politiche migratorie italiane in questi vent’anni. L’immigrato può entrare solo se ha già un contratto di lavoro, da cui dipende il rilascio del permesso di soggiorno fino a due anni. È un meccanismo che non ha avuto riscontri con la realtà: un datore di lavoro dovrebbe assumere uno sconosciuto.
3) Respingimenti in acque extraterritoriali e reato di favoreggiamento L’obiettivo era evitare lo sbarco in Italia dei migranti, facendoli identificare direttamente in mare dalle forze dell’ordine per verificare chi avesse diritto all’asilo e chi avesse bisogno di cure, respingendo subito gli altri grazie ad accordi bilaterali con i Paesi d’origine. La massa migratoria ha ovviamente eluso questa rete di controlli, i cui buchi, in una realtà come il mare, sono inevitabilmente larghi. Quanto al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, viene punito con pene fino a tre anni e multe da 15 mila euro per ogni migrante sbarcato. È la norma che negli anni successivi è stata usata per cercare di fermare l’attività di soccorso delle Ong.
  • Cosa ha detto Mantovano? Intervistato sabato dalla Stampa, l’esponente di Fratelli d’Italia — che vent’anni fa, da sottosegretario all’Interno, contribuì parecchio al testo della Bossi-Fini — ha detto che «ormai è diventata una legge-arlecchino. Bisognerà fare qualcosa di nuovo, ma con calma e in maniera articolata». Il fattore tempo è stato rimarcato attentamente da Mantovano: «Un conto è un decreto urgente, altro è rimettere mano alla intera legge sull’immigrazione che ormai ha fatto il suo tempo, è stata rattoppata non so quante volte, ci sono gli articoli bis, ter, quater». Come dire che il principale collaboratore della premier ha messo in conto un dibattito non facile all’interno della coalizione. Quanto a Fini, ha dato ragione a Mantovano con queste parole: «La legge va cambiata perché è mutata profondamente l’origine del fenomeno migratorio. Esso ha oggi dimensioni globali ed è sempre più correlato al dovere morale, oltre che all’obbligo internazionale, di garantire diritto di asilo a chi fugge da guerre, rischi di genocidio, catastrofi naturali, violazioni di massa dei diritti fondamentali dell’uomo». Toni e accenti ben diversi da quelli ricorrenti nella destra italiana in questi anni.
  • Cosa non funziona della Bossi-Fini? Il dato macroscopico è il simulacro dell’incontro a distanza tra la domanda di un datore di lavoro italiano e l’offerta di un lavoratore straniero che sta all’estero e che quel datore non ha mai incontrato. Questa finzione si trascina fino a oggi, fino all’ultimo decreto flussi, varato a fine dicembre dal governo Meloni, che prevede la «verifica preliminare», da parte del datore di lavoro. Di che si tratta? Dell’obbligo per il datore di lavoro che presenti domanda di assunzione di un lavoratore straniero di dimostrare di avere anzitutto cercato un lavoratore italiano e di non averlo trovato. È una norma che obbliga il datore a una lunga trafila burocratica prima del clic day, previsto per il 27 marzo. Da qui, la finzione. Così riassunta da Domenico Affinito e Milena Gabanelli nell’ultimo Dataroom: «Ora, quale datore di lavoro assume una persona che non ha mai visto e senza nemmeno sapere quando potrà arrivare? È evidente che si tratta di un irregolare già in Italia: e il “decreto flussi” così concepito è solo una regolarizzazione mascherata».
  • Quali sono le ipotesi di riforma? Dalla destra riformista alla Mantovano non sono state ancora precisate. Ma non è un azzardo ipotizzare che non saranno troppo dissimili da quelle che avanzano da anni le associazioni più coinvolte nel settore, e che necessariamente gravitano attorno alla sinistra e al cattolicesimo sociale. La proposta più specifica e articolata è quella della campagna «Ero straniero», promossa tra gli altri da Radicali Italiani, A Buon Diritto, ActionAid Italia, Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), Centro Astalli, Federazione Chiese Evangeliche, Oxfam, Acli e Arci. Si tratta di una vera proposta di legge di iniziativa popolare e, in sintesi, prevede:
1) Reintroduzione del sistema dello sponsor È il meccanismo «originariamente previsto dalla legge Turco-Napolitano, per l’inserimento nel mercato del lavoro del cittadino straniero su invito del datore di lavoro italiano». Spiegano i promotori: «Si tratta di una prestazione di garanzia per l’accesso da parte di singoli datori di lavoro che permettono al lavoratore straniero di venire in Italia, essere assunto e inserirsi nel mercato del lavoro, assicurando risorse finanziarie adeguate». Ma quale sarebbe la differenza con la «finzione» attuale? La più evidente è che «tale assunzione dovrebbe avvenire in qualsiasi momento, senza dover attendere che vengano stabiliti clic day e definiti settori determinati». È chiaro dunque che si tratta di non fare più finta che in Italia non siano presenti centinaia di migliaia di irregolari che in gran parte hanno già avuto un accesso «informale» al nostro mercato del lavoro. L’intento è evidente nel punto successivo.
2) Regolarizzazione su base individuale degli stranieri «radicati» Le associazioni promotrici propongono infatti «la regolarizzazione su base individuale degli stranieri che si trovino in situazione di soggiorno irregolare allorché sia dimostrabile l’esistenza in Italia di un’attività lavorativa, sul modello della Spagna e della Germania. Tale titolo di soggiorno dovrebbe prevedere una procedura sempre accessibile, su base individuale, e non legata a sanatorie: si può fare richiesta del permesso in qualsiasi momento se si è in possesso dei requisiti». La proposta non trascura però il cuore della questione migratoria: cioè gli stranieri che non sono già qui e vorrebbero venire legalmente, senza rischiare di affogare.
3) Introduzione di un permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di occupazione Ecco il canale legale che potrebbe fare concorrenza al traffico illegale. Il permesso sarebbe di 12 mesi e andrebbe rilasciato «a lavoratori e lavoratrici dei Paesi terzi per facilitare l’incontro con i datori di lavoro italiani e per consentire a quanti sono stati selezionati sulla base delle richieste di determinate figure professionali, di venire in Italia, svolgere i colloqui di lavoro e finalizzare l’assunzione».
Questa proposta è stata fatta propria dal Partito democratico e dal terzo polo. Anche questo è un indizio politicamente importante sulle nuove, possibili coordinate dell’opposizione: sui temi che contano, non è detto che l’asse Pd-5 Stelle sia quello prevalente, anche con l’elezione di Elly Schlein a segretaria democratica. Ma ovviamente contano soprattutto i movimenti nel centrodestra. Meloni non può certo lasciare la bandiera della «difesa dei confini» a Salvini e a Cutro ha tenuto a sottolinearlo. Ma è chiaro che Mantovano ha il mandato di esplorare le vie riformiste che la premier non può (ancora) intestarsi in prima persona. È il sottosegretario, non a caso, ad avere teorizzato la necessità di portare il decreto flussi dagli 83 mila posti attuali ai 500 mila di cui ha parlato nei giorni scorsi un altro meloniano di ferro, il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida. Questo filone — che è il filone che in questo momento regge l’Italia — sembra aver maturato la consapevolezza delle tare della legge Bossi-Fini, che ricapitoliamo in conclusione:
  • I numeri del fallimento In vent’anni ha regolarizzato, stagionali a parte, solo 800 mila lavoratori stranieri, ai quali vanno aggiunti i due milioni che hanno beneficiato delle sanatorie. Vuol dire che, da un punto di vista di destra, ha funzionato perché ha fatto arrivare pochi stranieri? Per niente: vuol dire che ne ha fatti arrivare clandestinamente molti di più, che ha agevolato il traffico illegale e che non risponde ai bisogni della società e dell’economia italiane.
  • La farsa dell’incontro tra sconosciuti Con la Bossi-Fini, l’unico modo per entrare legalmente in Italia è avere già un contratto di lavoro. Un’assurdità, come si è visto, perché presuppone l’incontro tra un datore e un lavoratore che non si conoscono.
  • La regolarizzazione impossibile Con questa legge, gli stranieri che lavorano già in Italia, ma in modo irregolare, possono regolarizzarsi solo sperando in sanatorie. Oppure con la simulazione del ritorno in patria, dell’attesa di essere richiamati da un datore che finga di non conoscerli già e dimostri di non avere italiani disponibili al loro posto, della trafila burocratica per i lavoratori e per chi li assume, della corsa surreale al clic day. I meccanismi proposti da «Ero straniero» consentirebbero invece l’emersione immediata di un «nero» che è parte integrante della vita di molte famiglie: un quarto dei lavoratori irregolari in Italia sono collaboratori domestici.
Insomma, buon lavoro a tutta la politica.

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