Il viaggio (gratis) in treno tra i maranza da Carnate a Milano. Vestiti taroccati, sputi, marijuana e la musica a palla nei vagoni: «Sono pieno di benza»

dal Corriere della Sera
10 aprile 2025

Il viaggio (gratis) in treno tra i maranza 

da Carnate a Milano. Vestiti taroccati, sputi, marijuana 

e la musica a palla nei vagoni: «Sono pieno di benza»

di Andrea Galli
Il racconto di una generazione inizia dalle stazioni di periferia dell’hinterland milanese, punto di ritrovo dei giovani diretti nel cuore della metropoli. Il degrado, la rabbia, le vessazioni dei pendolari. E, dietro, le famiglie disgregate
La stazione ferroviaria è quella di Carnate, un paese di ottomila abitanti nella Brianza monzese, sulla linea del profondo, profondissimo disagio Milano-Bergamo, la croce suprema per i pendolari, la categoria più vessata e insieme più paziente di Lombardia, anzi, che cosa scriviamo mai, d’Italia.
Disagio: anche adesso, di domenica a ridosso delle 18, quando l’aria è mite, il clima rilassato, il traffico ovunque scarso strada oppure binari che siano, il treno da Porta Garibaldi per Ponte San Pietro tiene già dieci minuti di ritardo.
Dieci minuti.
Ma santo cielo, di fatto è appena partito, siamo a Carnate, non in Friuli. E mica ha dovuto scalare montagne. Proseguiamo.
Il sottopasso della stazione termina in coincidenza del binario 7; trentadue gradini coperti da una tettoia lercia, e circondati da biciclette legate col catenaccio alla ringhiera, permettono d’uscire in superficie sul doppio parcheggio asfalto-erba, di fronte a un ampio e ombreggiato parco con le giovani badanti ucraine che fanno le parole crociate per impratichirsi nell’italiano.
Una signora africana arriva di fretta, avrà un treno da prendere, sta parlando agli auricolari in videochiamata, d’improvviso si guarda intorno poi s’accuccia sempre conversando in videochiamata, si spoglia un po’ e fa pipì su di uno scalino sempre in videochiamata beninteso, la gente la schiva e schiva saltellando la pozza nel mentre formatasi, più d’uno ride di disgusto, altri le guardano le nudità provando a fotografare da lontano col telefonino; pleonastico rilevare che non siamo qui per lei bensì per uno di loro.
Ed eccolo, il maranza.
Scarpe sneakers Nike Dunk, tuta acetata Puma nera e verde stretta; mentre la signora discendeva i gradini costui, un ragazzino smilzo, occhiali da sole e capelli rasati sui lati coi riccioli di color nero inchiostro sopra, li saliva annunciandosi con uno sputo fragoroso, anzi meglio scrivere che si annunciava scatarrando, tanto la nostra è una lingua in continua evoluzione, non c’è problema.
Per esempio, a livello ufficiale la lingua italiana ora ospita anche il sostantivo «maranza».

Terrore a bordo

Quello che sputava è giustappunto un maranza; Carnate, che attraverso i viaggi sui bus dei paesi intorno come Brugarolo, una frazione di Merate, e Osnago, convoglia in stazione altri maranza di provincia, è uno dei principali punti di raduno e di smistamento verso Milano e i grattacieli di Gae Aulenti, la location privilegiata per i selfie e i video immessi su Instagram e TikTok.
Si aggiunga: è pure la location di risse e azioni predatorie che sono iniziate tra le medesime stazioni e i medesimi treni. In ordine sparso, come riportano le cronache e altresì come ci han raccontato i pendolari diretti spettatori, a bordo ci sono biglietti non pagati e pretese di viaggiare gratis, minacce di morte ai controllori, aggressioni ai medesimi, danneggiamento dei sedili, occupazioni di intere carrozze facendo sloggiare gli altri passeggeri pena calci e pugni, sigarette fumate a bordo, marijuana fumata a bordo, cessi devastati, finestrini riempiti di scritte con lo spray, molestie sessuali, furto di telefonini, agguati da bullismo con prevaricazioni d’ogni sorta, concerti con le casse portatili che sparano la musica dei cellulari, vagoni trasformati nel palco centrale di una discoteca, si balla, si urla, si suda, ci si denuda, si fa i maranza.
Per la Treccani, maranza è un giovane che fa parte di comitive, dagli atteggiamenti sguaiati, uno che attacca briga, uno che veste appariscente.
Poche le ragazzine.
Frequente, nel comune pensare, l’associazione maranza-nordafricano, ma in generale, e basta domandarlo a un adolescente, il maranza non è per forza un marocchino o un tunisino o un egiziano, in quanto è quel che per le generazioni precedenti era il tamarro cioè un casinaro a prescindere dalla nazionalità e dal continente, un essere volgare, a volte delinquentello, a volte più che delinquente ma criminale vero, esperto, recidivo, rabbioso, pericoloso, già pregiudicato che non ha fifa di poliziotti e carabinieri, anzi li sfida con lo sguardo e le parole e la gestualità.
Specie di sabato, specie di domenica, quando il popolo dei maranza, la generazione dei maranza, la folla dei maranza, il mondo dei maranza, la Lombardia dei maranza, muove verso la metropoli chiamandosi manco più con i nomi, ormai sono considerati lunghi anche i diminutivi, la messaggistica dei cellulari ha insegnato che il comandamento è accorciare, accelerare, e pertanto sentiamo che si chiamano fra di loro «09», «011», «07», numeri che stanno per il finale degli anni di nascita, il 2009, il 2011, il 2007. Tutto molto semplice, alla fine.

Nuovi idoli

I maranza. Li abbiamo pedinati, ci abbiamo parlato, per curiosità antropologica e sociale. E qui inizia questo viaggio a puntate del Corriere. Ma prima bisogna cambiare geografia e salire sulla mappa verso Calolziocorte.
Del resto a Calòlz, in dialetto lecchese, ci sono i posti di Zaccaria Mouhib alias «Baby Gang», idolo musicale anche se, ci ha detto il ragazzino in tuta acetata Puma, oggi vanno da matti i rapper Papa V (Leone Vinciguerra da Pieve Emanuele, hinterland di Milano) e Nerissima Serpe (Matteo Di Falco da Siziano, provincia pavese).
Insieme, questi due cantano testi dalle seguenti strofe: «Prendo droghe, non le medicine»; «C’è la luna piena, io sono pieno di benza»; «Queste tr… mandano kiss»; «Nel letto ho una romena con la fragola e la panna, e ci potrei fare un figlio ma faccio una sbo… e basta».

La persecuzione

La stazione di Calòlz riassume la teoria della finestra rotta, un classico della criminologia: la presenza di un arredo urbano degradato, vandalizzato, «ispira» ulteriori azioni di disordine e illegalità o quantomeno abbassa le remore nel replicarle.
Un cartello annuncia che è sparita la biglietteria, ci si arrangi con le macchinette; un altro cartello annuncia che non funziona l’ascensore, qualcuno ha infranto il vetro della porta d’accesso.
Due maranza cazzeggiano davanti al tunnel dei binari e fermano le persone di sesso femminile: «Quanto sei bella», «Dove vai da sola», «Che bel c… che hai», «Ti tocco le tet…», «Andiamo a fare un giro».
Una persecuzione. Ma non hanno proprio nulla da fare sicché proseguono a oltranza.
Poi farà buio e se ne andranno via. Magari.
Compaiono altri due maranza muniti di un monopattino elettrico; roba, spiegano, da «mezzo kappa a testa» («K», in gergo, sta per mille euro). «Costano però 2 K, attento, ma c’è un giro giusto per averli a meno. Chiedi ai cinesi a Sesto San Giovanni dove riparano le bici dei rider, quelle elettriche, quelle elaborate come una moto, vanno da far paura».

Papà a Casablanca

I due attraversano sui binari, il treno è quasi in stazione. Portano scarpe Nike; le tute hanno le scritte Gucci; sotto la tuta, uno ha maglia del Milan. Qual è il programma della giornata? «Boh». Fate avanti e indietro, rientrate stasera? «Boh».
Ci consigliano un altro cantante, Niky Savage (Nicholas Alfieri da Napoli); stante il meteo incerto, e parimenti incerto il tempo della lontananza da casa, vestono magliette termiche come quelle Kipsta, la marca low cost della Decathlon, e l’unica non taroccata nell’outfit dei maranza.
S’era detto prima: Calòlz, Baby Gang. Nelle case popolari di via Giuseppe Di Vittorio, il trapper pluripregiudicato ha girato video musicali con le solite armi sbandierate. Il quartiere sorge a ridosso della strada provinciale dei piccoli laghi, la SP639 che conduce ai sottovalutati bacini di Pusiano e Annone, meta dei tuffi estivi dei maranza, o meglio anche in primavera appena l’acqua si scalda, e amati fra i tanti dal pittore Giovanni Segantini.
Zaccaria Mouhib, un maranza per antonomasia, figlio di una coppia del Marocco presto finita in frantumi con la separazione e il ritorno del papà a Casablanca, interpreta il disgraziato modello dell’annuncio d’una esistenza balorda che ritroviamo anche nelle recenti inchieste contro le baby gang: la manifestazione in età precoce, fin da bambini, dei disturbi della condotta, spesso un’anticipazione di comportamenti delinquenziali come marinare la scuola, dormire fuori casa già prima dei 13 anni, tenere scarsi sensi di colpa.
Sul marciapiede di via Di Vittorio, a Calolziocorte, giace la confezione di un colossale petardo, l’han fatto esplodere l’altra sera, chiediamo ma nessuno sa dirci cosa si festeggiava, nel caso in cui si festeggiasse, forse è stato soltanto il gusto di spaventare chi intorno guardava la televisione, lavava i denti, sistemava il cuscino del letto del figlio, faceva cose normali.
(1. Continua)
agalli@corriere.it
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dal Corriere della Sera
13 aprile 2025

I maranza e la sindrome del cocco di mamma: 

«Mentre mi sta cercando la Digos, sono a St. Moritz»

di Andrea Galli
Da Monza a Saronno, continua il viaggio del «Corriere» tra gli adolescenti che la Treccani definisce «gruppi di strada chiassosi, con la tendenza ad attaccar briga, dal modo di vestire appariscente e dal linguaggio volgare». Le strofe del rapper Paky
Son tutti qui, i maranza. Come al solito. Una distesa di borselli portati ormai quasi ad altezza della gola, nemmeno più ad altezza del petto, e per la cronaca trattasi di merce taroccata; nonché di piumini smanicati, pure taroccati; di crocefissi, altresì taroccati, idem come sopra.
Però stavolta i maranza se ne stanno zitti, buoni buoni, e hanno comprato il biglietto del treno evitando di muoversi gratis e non comprando le bottiglie di birra e superalcolici da esibire fino alla meta finale, ovvero Porta Garibaldi a Milano, per raggiungere a passo svelto, urlando nei tunnel sotterranei cori da stadio, l’adiacente piazza Gae Aulenti, i riflessi del sole sulle finestre dei grattacieli, i selfie e i video da mettere su Instagram e TikTok.
Insomma i maranza si comportano all’esatto contrario rinunciando in aggiunta all’aggressività verbale contro qualsiasi persona di sesso femminile. Bambine, donne, anziane.
Proprio così. Pazzesco. Davvero. Anestetizzati.
Ma grazie mille, per forza: quest’oggi, sabato 8 aprile 2025, quando siamo intorno alle 13, la stazione ferroviaria di Monza — in più punti scassata, sottoposta a cantieri, ma ultra-videosorvegliata ammesso beninteso che le telecamere funzionino a dovere e non siano state posizionate come mero effetto dissuasore, del resto capita di frequente anche fuori dalle stazioni, per esempio a Milano —, la stazione ferroviaria di Monza è percorsa da decine di poliziotti e carabinieri; costoro attendono i tifosi del Como per la partita di calcio della serie A col Monza.
Il che, in questo viaggio a puntate del Corriere fra i maranza, ci dà un’idea.

Non soltanto Nordafrica

Ma prima, la definizione: per la Treccani, maranza è un giovane appartenente a un gruppo di strada chiassoso; egli evidenzia atteggiamenti sguaiati, attacca briga, veste in modo appariscente, parla volgare.
Chi ignora il fenomeno, uno in verità dei ciclici fenomeni adolescenziali, che maturano di generazione in generazione e innescano le doverose riflessioni di psicoterapeuti e sociologi, e pensa che i maranza siano soltanto i nordafricani, marocchini, tunisini, libici oppure egiziani nulla cambia, e la convinzione piace assai a questi soggetti legittimando in loro certi pensieri discriminatori verso gli stranieri, fa niente se hanno cittadinanza italiana.
Errato, totalmente errato: il maranza non ha una specifica provenienza territoriale, non si basa sulle nazionalità di appartenenza: quella dei maranza è una sottocultura trasversale dal punto di vista geografico (e anche dilagante come, diciamo, trend).
Basta interrogare un adolescente e ve lo confermerà: il maranza è un cafone, porta fastidio e minacce, ha una sorta di fisiologica necessità di ancorarsi a una comitiva per sentirsi protetto, al sicuro, libero di agire con comportamenti illegali che forse, fosse in solitaria, eviterebbe.
Dopodiché, eccoci all’idea prima menzionata, e venuta osservando i poliziotti e i carabinieri in azione nella stazione di Monza.
Abbiamo interpellato fra Milano, Como, Varese e la stessa Monza, dirigenti di commissariati, marescialli di pattuglia, comandanti, ispettori, vicequestori.
Per capire, certo in linea di massima e nell’ovvio relativismo delle nostre esistenze e del nostro mondo, il comportamento dei genitori convocati per conoscere le idiozie e i reati compiuti dai figli.
Ebbene, la tendenza degli adulti è quella d’accusare gli altri. Subito all’inizio. Per levare ogni responsabilità all’erede. Se ha agito come ha agito, ecco, allora sarà stato provocato, doveva difendersi, è stato costretto, non aveva alternative, l’hanno minacciato di ritorsioni in caso di «disobbedienza», l’hanno bullizzato, oppure è colpa degli insegnanti, colpa dell’allenatore, colpa del prete della parrocchia, colpa del meteo impazzito, colpa della pandemia, colpa dei terrapiattisti, colpa degli svalvolati che affollano i mezzi di trasporto, le strade, le piazze; magari magari, colpa pure dei social network, di chi ha inventato i cellulari.

A St. Moritz

Ci dice un dirigente di commissariato, trent’anni di esperienza in mezzo alla dolente e dolorosa commedia umana, che comanda questa sindrome qui: «Intendo la sindrome del “cocco di mamma”. Magari da noi, convocato, il genitore si arrabbia e cazzia il figlio, fa un po’ di scena, annuncia castighi biblici, ma tanto poi, a casa, ricomincia ad adularlo, servirlo, riverirlo, evitargli di dirgli qualche volta “no”, sia mai, per carità, pure se ha sfregiato un amico». Non mancano i papà, cinquanta e sessantenni, che attaccano a piangere quando, insomma, dovrebbero reggere, gestire la situazione, far gli adulti. Macché. Frignano. Penosamente. Singhiozzano. Scene, dice uno di quelli che le vedono in diretta, che generano una mestizia massima, un senso di sconfitta.
Il rapper Paky (Vincenzo Mattera, da Napoli), che va parecchio fra i maranza, canta strofe del genere: «Non c’è tempo per uscir pulito / Mentre mi sta cercando la Digos / Sono a St. Moritz a fare il disco / alle Mauritius, ci faccio jujutsu / Aspetto arrivi il giorno del giudizio».
Lo si ascolta a Saronno, dove intanto ci siamo trasferiti — cittadina di 40mila abitanti in riqualificazione, meta di famiglie del ceto medio che non reggono il carovita di Milano; c’è un reale gran fermento, anche esistenziale, ma la stazione ferroviaria permane una pena: una specie di hotel delle anime sia laide sia perdute.

Nei boschi

Capita infatti di vedere, come adesso, uno sbandato che vaga coi jeans abbassati; Saronno, riferiscono gli investigatori, è frequentata dai «soldati» della droga assoldati nei boschi dello spaccio in provincia di Varese e, col problema di nuovo in aumento, nel parco delle Groane che tange paesi ugualmente eletti a buen retiro lontano dalla metropoli.
Tre maranza, quando mancano sette minuti alle 17, aspettano il treno per Milano.
Ascoltano quello là, Paky.
Dicono che faranno un salto in piazza del Duomo.
Fra di loro si chiamano «bro», cioè brother, fratello.
Indossano dei jeans skinny, aderenti.
Uno ha tatuata una testa di leone alla base della nuca. I tatuaggi, dicono, se li fanno al Lorenteggio, i costi sono ancora decenti.
Hanno in programma una cena dal McDonald’s della stazione Centrale. Se riescono, prendono l’ultimo treno per Saronno. Sennò amen. Domandiamo loro del tema dei coltelli. Alla nostra Sara Bettoni, il medico Stefania Cimbanassi, gran capa del Trauma team dell’ospedale Niguarda, ha raccontato: «A inizio degli anni Duemila le ferite penetranti da arma bianca rappresentavano il 2% mentre oggi sono il 18 per cento».

La città delle lame

Sì, Milano è la città delle lame: nel 2024 ci sono state 96 rapine tra minorenni coi coltelli. Sulle lame, i maranza non rispondono. Ne avranno una, o più d’una, nel borsello (marca Gucci, fake, ovvio)?
Su Saronno ci han dato un indirizzo. Ci abitano dei parenti, dei conoscenti, di maranza appena spediti nel carcere minorile del Beccaria dopo rapine in serie in metrò. L’indirizzo conduce alla periferia tra rotonde, la farmacia aperta giorno e notte, enormi ristoranti fast-food, antichi centri commerciali, palazzi in costruzione (pure tutta questa parte di Lombardia è sottoposta a massiccia speculazione edilizia).
Una signora marocchina non risponde al citofono, manda in avanscoperta un uomo che nel vialetto del basso condominio ci spedisce a quel paese non prima d’aver urlato che lavora ed è in regola.
La Padania razzista, i migranti, il faticare e il tenersi la fedina pulita come speranza di un lasciapassare, invocando accettazione senza pregiudizio.

Una teoria delle bande

C’è un saggio di due sociologi americani, Richard A. Cloward e Lloyd E. Ohlin, entrambi docenti a New York, sulle bande adolescenziali; tre i tipi di formazione evidenziati: 1) la banda criminale dedita al furto, all’estorsione e a ogni altra forma di appropriazione indebita; 2) la banda conflittuale che pratica la violenza come mezzo per procacciarsi maggiore influenza sociale; 3) la banda astensionista dedita agli alcolici e alla droga.
Vi si scorge parecchio della generazione maranza.
Il saggio di Richard A. Cloward e Lloyd E. Ohlin venne pubblicato nel 1960.
(2. Continua)
agalli@corriere.it

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