14 luglio 2024: VIII DOPO PENTECOSTE
Gdc 2,6-17; 1Ts 2,1-2.4-12; Mc 10,35-45
Fin da piccolo mi dicevano che Gesù parlava sì rivolgendosi alla folla dei suoi tempi, ma che il suo pensiero andava oltre, come se avesse davanti a sé tutta la gente di ogni epoca. Perciò, mi dicevano, quando leggi un brano del Vangelo è come se Gesù in questo momento si rivolgesse anche a te. E ciò mi consolava, e mi preoccupava.
In altre parole, la Parola di Dio è eterna, e perciò si incarna in ogni istante della storia, ma sempre come Logos eterno, perciò è tale da sconvolgere ogni potere e ogni struttura civile ed ecclesiastica che vorrebbero sostituirsi a Dio, ma basterebbe leggere la storia di un passato più o meno recente per sapere come Dio, così è scritto nel Magnificat, quasi si diverta a rovesciare i potenti dai troni e a rimandare i ricchi a mani vuote.
Lo dico sempre, invitando a riflettere anche sulla storia dei nostri piccoli paesi. Pongo sempre questa domanda: dove sono le famiglie che anni fa, senza risalire a tempi troppo lontani, che perché benestanti facevano il galletto incutendo una sacra oscena venerazione tra i poveri, costretti a chinare la testa per un pezzo di pane da guadagnare con tanto sudore di sangue, e quando nel pollaio c’erano più galletti era una lotta tra loro per salire sul gradino più alto? In paese, comandava il trio diventato proverbiale: il parroco, il sindaco e il farmacista. Ora, dove sono? In una tomba forse ricoperta da sterpame. Neppure un ricordo, neppure una targa. E quando vedo che ancora oggi c’è qualcuno senza memoria che vorrebbe espandere il proprio ego al di là dei limiti stabiliti non solo dal buon senso e dalla prudenza, ma dalla stessa giustizia, allora mi verrebbe da urlare: “Miserabile, cadrai anche tu con la pancia a terra ingoiando tanta sabbia sterile, tanto più che sono finiti i tempi in cui i miseri erano costretti a obbedire per necessità, o perché educati a un sacro rispetto per le autorità da parte di una chiesa che toglieva ogni senso di pudore.
Soffermiamoci sul terzo brano. Subito vi inviterei a immaginare anche solo per qualche secondo lo stato d’animo dell’apostolo ed evangelista Giovanni, mentre nella sua casa di Efeso, oramai anziano, ricordava quella sua richiesta fatta a Gesù, insieme al fratello Giacomo: «Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Ho letto in proposito questo commento: «Sono quei ricordi che vorremmo rimuovere dal nostro bagaglio, ci piacerebbe cancellarli facilmente dalla memoria perché quando riaffiorano ci fanno sprofondare nella vergogna: ma come abbiamo potuto chiedere una cosa del genere? Cosa avevamo in testa? Eppure la loro esperienza dietro a Gesù doveva passare di lì, perché è una questione antropologica che ci riguarda: noi siamo così, vogliamo avere il controllo, vogliamo dominare, vogliamo essere superiori agli altri. Ora non so cosa avessero capito di Gesù i nostri due, anche perché già al capitolo 9 quando a Cafarnao il Maestro era rientrato in casa di Pietro e aveva domandato ai suoi: “Ma di che cosa stavate discutendo lungo la strada?”, non ebbero il coraggio di dirgli che stavano discutendo su chi tra loro fosse il più grande, il più importante!».
Continua a commentare: «Cambiano i scenari, ma si ha sempre a che fare con questa condizione umana che non risparmia nessuno, nemmeno i discepoli più intimi. Il modello che i due discepoli hanno in testa è quello che la storia ha sempre raccontato per il quale la gloria propria di chi a partire dai satrapi ai faraoni, dagli imperatori e re fino ai vari Führer, duci, colonnelli… ha sempre dominato e oppresso schiacciando e umiliando. La gloria è quella cosa lì che ti vuole vedere emergere sugli altri, dominare, sfruttare…».
Aggiungo di mio: si possono anche capire, ma sempre da condannare, mezze cartucce di donne in politica che alzano i tacchetti per farsi grandi, cambiano vestiti ad ogni ora uno più lussuoso dell’altro per coprire una nudità di essere, sbeffeggiando nemici e amici traditori, insofferenti ad ogni confronto con il meglio che è solo nel campo speculativo che a sua volta non sta alla pari di palloni gonfiati di imbecillità vendute e promosse come parti di saggezza.
Ma come sopportare pastori di anime che si fingono dimessi quasi tapini nel senso evangelico, ma che in realtà sono tapini volgarmente parlando, perché schiavi di un ego trottola impazzita?
E se non basta il brano del Vangelo, ecco la prima lettura. Continua il commento: «Ormai entrati nella terra promessa, morto Giosuè si scatenano le divisioni, le lacerazioni e le lotte di potere all’interno delle tribù d’Israele. Siamo alle prese con quel periodo storico che va dall’ingresso nella terra di Canaan (seconda metà del XIII sec. a.C.) fino all’epoca dell’istituzione della monarchia (a cavallo tra l’XI e il XII sec. a.C.): sono due secoli tra i più oscuri e indecifrabili. Complicati per l’impatto con la civiltà cananea che rimise in discussione tutta una mentalità, una cultura. In questo contesto si impongono le figure di alcuni personaggi che vengono chiamati “giudici” che non hanno granché a che fare con i nostri magistrati. Sono figure carismatiche che in un tempo di crisi irrompono sulla scena per orientare, guidare e sostenere la loro gente. La Bibbia ebraica li considera libri profetici perché per quanto lucidissima sia la percezione di avere a che fare con un periodo decadente e travolto dalle ambizioni, eppure avvengono cose e si avvertono segnali inconfondibili che possono solo venire da Dio. Questo è appunto il messaggio profetico: là dove il popolo si trova pienamente travolto dalla crisi, incapace di alzare lo sguardo, pieno di contraddizioni c’è sempre da scoprire l’appuntamento meraviglioso con lo Spirito di Dio che si esprime nella sua novità creatrice. Ed è quello che Gesù immette nel cuore di discepoli: si può fare diversamente, si può essere altrimenti. Rileggiamo ciò che dice Gesù: “Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”».
E Gesù è un modello del “non è così”, ovvero: nessuno deve mettersi in alto a comandare, ma ognuno è un servitore di quell’Unico Bene Necessario, che è anche il nostro unico bene.
Giovanni aveva poi capito la lezione, quando mise per iscritto il quarto Vangelo, immergendo in una luce gloriosa la Croce di Cristo.
Uno spettacolo inaudito: il Signore seduto su un trono scomodo, quanto è scomoda una croce, con accanto due delinquenti! Questa è la gloria di Gesù.
Gesù ci dice con la sua vita come si rompe la logica oppresso-oppressore, forte-debole: mettendosi al servizio. Forse è più intenso e meno equivoco il sostantivo greco “diaconia”. La diaconia non è la servitù, ovvero la condizione di diseguaglianza sociale, economica, culturale che rende inferiori e quindi alimenta ancora l’ingiustizia. La diaconia non è un termine solo ecclesiastico. La diaconia evangelica, strumento di liberazione, è fondamento di un atteggiamento civile e democratico, di convivenza umana rispettosa e dignitosa.
Provate a pensare: ancora oggi termini come ministro e ministero derivano dal latino minister che significa appunto “servizio”, perché dovrebbero (qui il condizionale è d’obbligo) essere al servizio del bene comune, al servizio soprattutto dei più deboli, di chi fa più fatica.
Ed è curioso notare come il termine “ministro” abbia il suo contrario etimologico nel termine “maestro” dal latino magister (magis, maggiore). Se il ministro è il minus, minore, il maestro è il magis, maggiore. Quando i discepoli si rivolgono a Gesù dicendogli: “Maestro!”, Lui risponde: sono un diacono, non sono venuto per farmi servire, ma per servire! Se avesse parlato latino avrebbe detto: “sono un ministro”, cioè mi metto al servizio. Gesù è maestro nel momento in cui è ministro, vale a dire servo, diacono.
In altre parole, solo chi si mette a servire può insegnare. Solo dal “minus”, ministro, si può diventare “magis”, maestro.
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