14 dicembre 2014: Quinta di Avvento
Is 11,1-10; Eb 7,14-17.22.25; Gv 1,19-27a.15c.27b-28
Il primo e il secondo brano della Messa parlano di un “germoglio”. Il profeta Isaia scrive: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici». L’autore della Lettera agli Ebrei scrive: «È noto che il Signore nostro è germogliato dalla tribù di Giuda».
Partiamo dal brano di Isaia. È una tra le pagine più celebri. Forse si tratta di un canto di intronizzazione di Ezechia, nuovo re di Giuda (parte meridionale della Palestina): siamo nell’VIII secolo a.C. Ezechia è un sovrano giusto, in cui il profeta ripone tutte le sue speranze. Ma Isaia vede in lui un ideale perfetto di sovranità: un’immagine di quello che sarà il re sognato, tale da incarnare tutte le attese del popolo. In breve, le parole di Isaia assumono un valore messianico: le virtù di Ezechia preannunciano l’atteso Messia, che, nel tempo stabilito da Dio, verrà a guidare il popolo eletto.
«Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse». Che cosa significa? Anzitutto, ricordiamo che l’immagine del germoglio è spesso usata nella Bibbia per indicare il sorgere di una nuova realtà. Pensate ai germogli primaverili. Isaia accosta il germoglio al tronco di Iesse, che è il padre di Davide. Ecco allora il significato: dal tronco inaridito, simbolo dei peccati e delle infedeltà della dinastia davidica, spunta un germoglio, segno gratuito e inatteso di vita e rappresentazione di un re, che è un dono divino. Il simbolo del germoglio diverrà, così, un termine per indicare il Messia stesso. Negli scritti del profeta Zaccaria, “germoglio” diventa uno dei nomi del Messia.
Ma come sarà questo germoglio, ovvero il futuro Messia? La pianta e il germoglio attirano il vento. In ebraico c’è uno stesso termine per indicare sia il vento che lo spirito, ed è “ruach”. Il vento sta per spirito, perché è qualcosa di interiore, di divino. Lo spirito di Dio si poserà dunque sul germoglio, ovvero sul Messia atteso. Uno spirito abbondante (per quattro volte viene ripetuto la parola “spirito”) che riguarderà tre coppie di doni per il governo del popolo: sapienza e intelligenza (o discernimento), consiglio e fortezza, conoscenza e timore del Signore (con l’aggiunta della pietà diventeranno i sette doni dello Spirito santo nella tradizione cristiana).
Non mi soffermo su questi doni: dico solo che, se chi detiene una qualsiasi responsabilità di potere, sia nel campo civile che religioso, avesse almeno qualcosa di questi doni dello Spirito, la società sarebbe un po’ diversa. Pensate anche solo ai primi due doni: sapienza e intelligenza, ovvero capacità di discernere ciò che è bene da ciò che male, ciò che è giusto da ciò che ingiusto. Invece che augurarci che i futuri nostri governanti siano in grado di darci pane e lavoro, pregassimo che su di loro discenda almeno un raggio di saggezza e di intelligenza, avremmo anche il pane e il lavoro, oltre ad una vita qualitativamente migliore. È quanto poi dice il profeta Isaia, descrivendo un’era paradisiaca, ricorrendo a immagini di animali ostili tra loro, i selvatici e i domestici, che però ora si compongono in un’armonia festosa. Anche il nemico dell’uomo, il serpente che ha sedotto Adamo ed Eva, (vedi Genesi capitolo 3), giuoca sereno con il bambino, che è forse una nuova allusione al tema dell’Emmanuele. Su tutto si stende un’atmosfera di pace e di gioia. Non è questo che ci auguriamo all’arrivo di un nuovo Natale?
Ci viene spontaneo pensare: sarebbe troppo bello! Eppure questo è il sogno di Dio, un sogno che Egli vuole realizzare. Chissà quando?
L’autore anonimo della Lettera agli Ebrei scrive che Gesù “è germogliato da Giuda”, ovvero da Davide, e non dalla tribù di Levi, a indicare chiaramente la novità del sacerdozio di Cristo, che non è in linea con il sacerdozio levitico ebraico, ma, casomai, secondo l’”ordine di Melchisedeh”.
Gesù è un Messia originale in tutto: esce da ogni schema religioso. Vorrei sempre ricordare che Melchisedeh era un re-sacerdote pagano, privo di ogni legame, diciamo un rappresentante del sacerdozio cosmico. Così sarà il sacerdozio di Cristo, la cui missione non consisterà nel rattoppare un po’ la religione ebraica, e tanto meno nell’inventare una nuova religione, ma nello stabilire un’alleanza con l’Umanità intera. Neppure noi cattolici dobbiamo fare di Cristo qualcosa di nostro. Se è vero che il Natale è una festa “cristiana”, è anche vero che non è una festa tipicamente religiosa o tipicamente cattolica, in senso stretto. Cristo non è nostro: Cristo è di tutti, appartiene all’Umanità.
Il brano del Vangelo riporta la testimonianza di Giovanni il Battista che, alla domanda esplicita dei sacerdoti e dei leviti, inviati dai farisei: “Tu, chi sei?”, risponde: “Io non sono il Cristo… Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete dritta la via del Signore”.
Giovanni, dunque, chiarisce ogni equivoco: lui non è il Messia, ma è soltanto una voce che grida perché la gente si prepari alla venuta del Salvatore. Anche Giovanni non poteva prevedere ciò che avrebbe fatto il cugino Gesù. Forse pensava che il Cristo avrebbe incarnato lo spirito di Elia o di qualche altro profeta dell’Antico Testamento.
Forse anche Giovanni è andato oltre il fatto di essere solo e nient’altro che una voce. Nessuno vuol essere uno strumento puramente meccanico. Anche Giovanni ci ha messo del suo. Ma ha perfettamente capito qual era la sua missione.
Essere voce significa fare spazio, perché chi sta per venire faccia tutto quello che ritiene giusto fare. Essere voce significa preparare libera la strada, senza porre alcuna condizione a chi verrà.
L’atteso è sempre inatteso, ovvero l’imprevisto, è una tale novità da lasciarci meravigliati. L’atteso va oltre i nostri desideri, le nostre speranze, i nostri sogni. Certo, aspettiamo qualcuno perché ne abbiamo bisogno: siamo al colmo della disperazione, siamo al limite di sopravvivenza, ci sentiamo perduti. Ma, a differenza di quando noi votiamo per le amministrative o per le politiche, non siamo noi a candidare chi sarà il Messia. Dobbiamo dare incondizionata credibilità al piano di salvezza di Dio, che si realizza nella storia.
Attenzione! La cosa più pericolosa è quando essere voce significa sostituirsi a qualcuno. Non sono io la voce di Dio o di Gesù Cristo. Neppure la Chiesa lo è. Con quale facilità diciamo: “Questo è il volere di Dio!”.
Il nostro compito di credenti e la missione della Chiesa non consistono nel sostituirsi a Dio. Noi siamo chiamati semplicemente a preparare la strada alla venuta di Dio, lasciando a Dio la libertà di venire come Lui vuole.
Preparare la strada significa educare all’essenziale. Ecco dove sta il nostro compito. Un compito veramente difficile. Per educare all’essenziale occorre far capire la differenza tra ciò che è superfluo e ciò che è essenziale.
C’è una tale commistione che prendiamo tutto come se fosse essenziale. Giovanni cita le parole di Isaia: “Sono voce di uno che grida nel deserto”. C’è qualcosa di più essenziale di un deserto?
Infine, le parole di Giovanni: “In mezzo sta a voi sta uno che voi non conoscete”, più che un rimprovero le leggerei come un invito ad assumere un atteggiamento di attenzione. Cristo non può essere mai del tutto conosciuto. Guai se lo fosse! Vorrebbe dire che non sarebbe più la nostra Sorpresa quotidiana. Il Cristo storico è il Venuto, ma il Cristo della fede è il Veniente, Colui che è l’Imprevedibile, il non del tutto conosciuto. I cristiani che dicono: “Io conosco chi è Cristo”, sono pericolosi, fondamentalisti. l seguaci del Cristo Veniente sono coloro che non smettono mai di cercarlo. Il Cristo dogmatico è l’Anti-Cristo della Fede.
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