Le ragioni del nervosismo. Con Draghi ai vertici della Ue Meloni ha solo da perdere
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13 Dicembre 2023
Le ragioni del nervosismo.
Con Draghi ai vertici della Ue Meloni
ha solo da perdere
di Angela Mauro
Dietro l’attacco scomposto all’ex premier, poi mezzo rimangiato, c’è un preciso timore, anzi due: essere costretta a abiurare i principi sovranisti o essere commissariata a Bruxelles. Un’opzione lose/lose per Giorgia
“Quello che dicevo ieri sulla foto, è lungi da essere un attacco a Mario Draghi, tutti sanno quel che penso della fermezza di Draghi sull’Ucraina”, ma “c’è stata un’Italia che in passato ha ritenuto che il suo ruolo fosse quello di vedere cosa facevano Germania e Francia per poi infilarsi in una fotografia. Io penso che la politica estera sia una cosa un tantino più ampia”. Anche in aula al Senato, nella replica al dibattito sul Consiglio europeo che inizia oggi a Bruxelles, Giorgia Meloni cerca di esorcizzare il fantasma che potrebbe scombinarle i piani dopo le europee: Mario Draghi.
Non è un mistero che negli ultimi tre mesi il nome dell’ex premier abbia ricominciato a girare nelle stanze della diplomazia europea, in sostanza da quando Ursula von der Leyen gli ha assegnato il compito di preparare un report sulla competitività del mercato interno. Da allora Draghi è entrato nella serie A dei ‘papabili’ per una prossima carica apicale nelle istituzioni dell’Ue dopo le europee di giugno. Di più: l’ex banchiere è stato messo in posizione per essere chiamato in servizio se serve. Per fare un paragone italiano: un po’ come fece l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con Mario Monti, nominandolo senatore a vita pochi mesi prima di affidargli il governo in seguito alle dimissioni di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi. L’incarico che la presidente della Commissione Europea ha affidato a Draghi ne ufficializza la carica di ‘riserva’ di una Unione che non solo ha evidente e urgente bisogno di rilancio, ma che potrebbe trovarsi ad avere a che fare con un nuovo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca alla fine del 2024. Un’eventualità che potrebbe essere il colpo di grazia non solo per l’Alleanza Atlantica, ma anche per l’Ue.
Insomma, sondaggi alla mano, è possibile che dopo le europee di giugno i 27 leader europei si ritrovino a dover gestire un quadro geopolitico ancora più fosco dell’attuale, tanto da dover mettere da parte le loro velleità e volontà, gli istinti di conservazione degli interessi nazionali che finora hanno indebolito sempre più l’Unione Europea. Potrebbe scattare la necessità di dover operare una scelta definitiva: conservare e rilanciare l’Ue, obiettivo per il quale una personalità di peso internazionale come Draghi sarebbe come il supereroe delle missioni difficili; oppure arrendersi alla nuova ondata del trumpismo, con gli Stati Uniti che si ritirano dallo scenario globale e pensano solo ai loro interessi minacciando l’Ue con nuovi dazi, la Cina che si sfrega le mani per potersi ‘mangiare’ il mercato unico in un boccone e chissà quali sarebbero i piani espansionistici di Putin, se anche militari o solamente in scia con la nuova strategia predatoria del Dragone.
Se questo è lo scenario, diverse fonti europee indicano Draghi come possibile presidente del Consiglio europeo, carica che in questa legislatura è stata ricoperta da Charles Michel, amico personale di Emmanuel Macron, oltre che esponente della stessa famiglia politica liberale Renew Europe. Più presidente del Consiglio europeo che della Commissione europea, ruolo per il quale von der Leyen continua a essere la candidata più forte, nonostante i malumori tra i socialisti per il suo sostegno a Israele in queste settimane di offensiva a Gaza. Negli ambienti europei, nessuno riesce a immaginare una Commissione con una guida che non sia tedesca, in questa fase storica. Soprattutto: se si tratta di dare un ruolo a Draghi, è necessario che l’appetito della Germania per le cariche apicali sia soddisfatto in maniera appropriata, segnalano alcune fonti Ue. Da qui, la forza di von der Leyen, malgrado la presidente resti in corsa anche per il ruolo di segretario generale della Nato nel dopo Stoltenberg, carica che nella prospettiva in un bis di Trump alla Casa Bianca perderebbe appeal.
Va da sé che con Draghi la presidenza del Consiglio europeo assumerebbe una valenza più politica, un paradosso visto che l’ex banchiere è di fatto un ‘tecnico’. Di fatto, sarebbe lontana anni luce dal ruolo debole di rappresentanza e semplice raccordo tra gli Stati che ha garantito Michel. Sarebbe una presidenza più ‘pesante’, decisa apposta per rilanciare l’Unione, frutto della scelta consapevole dei leader di mettere da parte i propri egoismi nazionali per lavorare a un disegno più grande: comune. Troppo ambizioso, a tratti utopistico? Può darsi. Di certo è complicato, ma davanti alla prospettiva di farla finita, è possibile che si scelga di rilanciare per non ritrovarsi soli, divisi veramente in 27 Stati a cercare di non soccombere di fronte alle sfide globali.
È il ragionamento che tre anni e mezzo fa ha portato al Next Generation Eu, sforzo di rilancio europeo deciso quando sembrava che la pandemia potesse sbranarci tutti, mossa che allora scombinò le tendenze rigoriste dei tedeschi, tanto è vero che all’inizio Angela Merkel era contraria e poi capì. La prospettiva trumpiana potrebbe produrre un miracolo del genere. Ma se questo accadesse, una prima ‘vittima’ politica sarebbe proprio Meloni. Da qui forse il nervosismo della premier che, replicando alle accuse dell’opposizione in Parlamento sulle sue affiliazioni politiche con Orban, ha tirato in ballo la foto di Draghi, Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz in treno verso Kiev per rivendicare invece la sua scelta di “parlare con tutti” e non solo con Parigi e Berlino.
“Per alcuni la politica estera è stata farsi foto con Francia e Germania quando non si portava a casa niente”, era la frase. La premier ha puntualizzato che si trattava di un attacco al Pd, ma denunciare la mancanza di risultati europei per l’Italia di Draghi chiama in causa evidentemente anche lo stesso ex premier.
Pur leader dell’opposizione a Draghi quando l’ex banchiere era a Palazzo Chigi, Meloni non aveva mai mostrato tanta acredine nei confronti del suo predecessore. Perché lo aveva relegato nel passato della politica italiana o europea. Ma se l’ex governatore fosse richiamato in servizio per ‘emergenza continentale’, i piani sovranisti di Meloni sull’Ue potrebbero uscirne scombussolati. È noto il punto di vista di Draghi sulla necessità di riformare l’Unione Europea per rafforzarne le istituzioni e metterle nella condizione di gestire gli assalti delle superpotenze di oriente e occidente. È altrettanto nota l’idea di Meloni e della sua famiglia politica dei Conservatori e riformisti europei di ufficializzare l’Unione come somma di 27 Stati membri, con maggiori competenze nazionali a scapito di quelle comunitarie. Per fare un esempio pratico: alla plenaria dell’Europarlamento a Strasburgo a novembre, Conservatori e Riformisti hanno votato contro la proposta di riforma dei Trattati, insieme i sovranisti di Identità e democrazia.
Draghi alla guida di un’istituzione dell’Ue come il Consiglio europeo costringerebbe Meloni a rivedere i suoi piani, col rischio di perdere una parte dell’elettorato ed entrare ancor più in contraddizione con le sue origini politiche. L’alternativa di fare da contraltare non esiste: sarebbe decisamente controproducente. Del resto è già successo che la leader di Fratelli d’Italia sia entrata in contraddizione con se stessa. Per citare un altro esempio recente: l’accordo firmato con l’Albania sui migranti. La premier si è sempre detta contraria all’idea della solidarietà tra gli Stati membri sull’immigrazione, per non disturbare gli alleati nazionalisti dell’est dell’Ue, ma ora che non riesce a mandare avanti le intese con i paesi nord-africani, a cominciare dalla Tunisia, è costretta a chiedere aiuto a chi ci sta, in questo caso Edi Rama, premier di un paese che non è nemmeno nell’Ue.
Lo sponsor principale dell’idea Draghi come leader europeo con una carica definita è Macron, che sogna così di recuperare popolarità, risalire la china dei sondaggi in drastico calo, continuare ad avere un alleato alla testa del Consiglio europeo dopo Michel, nonostante risultati elettorali che sono annunciati come a dir poco insoddisfacenti. Per Meloni la possibilità di urlare ‘no al tecnico’ alla guida dell’Ue non è data: ne va della credibilità che si sta costruendo a livello internazionale. A meno che non voglia schierarsi con Trump, a difendere da sola e senza Ue degli interessi nazionali che in questa modalità non hanno chance di imporsi contro Russia, Cina, India. Draghi alla testa dell’Ue è il bivio che interroga Meloni per prima, oltre che il resto dei leader europei che di certo non sarebbero contenti di abdicare verso il ‘tecnico’. Di certo, la premier, astro nascente della nuova destra, pagherebbe il prezzo più alto, anche in termini di immagine, condannata a stare all’ombra del suo predecessore.
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13 Dicembre 2023
Draghi buono, Draghi cattivo.
Come cambia Meloni a seconda del vento
di Alessandro De Angelis
Buono se bisogna trattare con Bruxelles, cattivo se bisogna conquistarla. La doppia irrisolta personalità della premier. Per non dire della damnatio memoriae da chi stette al governo con lui
Contrordine: “Non era un attacco a Draghi”, dice Giorgia Meloni nella sua replica a palazzo Madama. Per poi arrampicarsi sullo scatto incriminato come su uno specchio con le mani bagnate, perché “ho sempre apprezzato la sua fermezza sull’Ucraina, ma non si riduce a una foto”. E allora se ne deduce che altri erano i leader in posa, peccato che non se ne trovino tanti su un treno per Kiev con Olaf Scholz e Emmanuel Macron. Insomma, ci siamo capiti.
Se la politica fosse quella di una volta, fatta di parole pesate (e mai causali), di smentite artate, di retropensieri tattici, si potrebbe discettare a lungo di questa intemerata su Mario Draghi da parte di Giorgia Meloni e della sua successiva correzione. I retroscenisti sarebbero applicati a decrittare il “segnale”, il suo significato e le ragioni della retromarcia, magari come conseguenza di altri segnali arrivati nel frattempo. Altri tempi. Perché in verità è tutto più semplice: il buco, con quella voce autentica uscita dal senno sovranista e la toppa, messa in nome delle compatibilità con quel che Draghi rappresenta, più che una piroetta tattica raccontano di un evidente nervosismo (peraltro le capita spesso quando va a braccio). Si spiega anche piuttosto facilmente: sta arrivando il momento delle decisioni, e non è facile decidere come rinviare, ammesso che la vicenda del patto di stabilità si chiuda con un compromesso positivo e che spezzeremo le reni all’alleato teutonico, in cambio le nostre reni saranno gravate dal fardello del Mes e pure sull’immigrazione ci sono meno soldi (a proposito della genialata della logica “a pacchetto”).
Insomma, Meloni è semplicemente nervosa e, da che mondo è mondo, quando uno è nervoso a volte riesce trattenersi a volte, come si dice a Roma, “sbrocca”. Se poi il nervosismo si innesta su un doppio registro, politico ed esistenziale, patatrac. Tutto è un doppio registro, e non da oggi: Santiago Abascal ad Atreju e la manovra col loden, Viktor Orbán e Ursula von der Leyen, eccetera eccetera, sono i due volti della stessa Giorgia Meloni che, invece di guidare un coerente cambiamento di sé, ora è Mr Hyde ora è Dr Jekyll. E Draghi, per quel che rappresenta, è un perfetto detonatore delle contraddizioni: lei ne era fieramente all’opposizione e, se non fosse stata fieramente all’opposizione forse ora starebbe a leccarsi le ferite con Matteo Salvini; però Draghi (qualunque sarà il suo destino) è anche il simbolo di quei vincoli che la premier ha accettato in nome della credibilità internazionale. Eccita Mr Hyde che pensa alle urne, serve al Dr Jekyll che deve volare a Bruxelles.
E a proposito di detonatori e contraddizioni però va anche registrato, assieme all’oscillazione di lei che Draghi non l’ha sostenuto, una speculare, anche se meno rumorosa oscillazione di chi l’ha sostenuto e, invece di rivendicarlo, fa di tutto per far dimenticare il sostegno. È l’Italia, bellezza! E l’elenco va da Matteo Salvini che fa il vago (“Scusate, ero a lavorare al ministero”) fino ad Antonio Tajani (“La nostra candidata è Ursula”) ed Elly Schlein (“Draghi non è del Pse”), frasi indicative di una distanza rispetto a ciò che è stato, prima ancora che di un giudizio sull’eventualità di Draghi alla guida della Commissione europea. Tradotto: quell’agenda è stata bocciata dal paese, ci sono le elezioni, stiamo alla larga dal ricordo. Solita attitudine italica: l’uomo della necessità, che riesce a fare quel che può fare nel casino in cui si trova ad operare, prima diventa “l’uomo della provvidenza”, oltre ogni limite ed errore, poi arriva la damnatio memorie. Morale della favola: meno diventa un elemento del dibattito politico italiano, meglio è: per l’Italia e per Draghi.
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Da AVVENIRE
13 dicembre 2023
Il personaggio.
Perché Draghi «imbarazza» destra e sinistra
Marco Iasevoli
L’attacco – con retromarcia – di Meloni e la freddezza di Schlein su eventuali incarichi europei sono due lati della stessa medaglia
Lo scivolone di Giorgia Meloni su Mario Draghi sorprende non soltanto per toni e contenuti, ma anche per la rapidità con cui la premier in carica, subito dopo aver pronunciato la frase infelice, ha “cercato” i cronisti per rettificare e correggere il tiro. Non solo: non sufficientemente rassicurata dalla retromarcia, ha anche cercato e ottenuto un colloquio con il suo predecessore per archiviare del tutto l’incidente. Il doppio registro – l’attacco dal sen fuggito e il repentino dietrofront – esprimono plasticamente l’ambivalenza che la figura di Mario Draghi continua ad assumere per la politica italiana. Da un lato resta la perenne tentazione di additarlo, specie in piena bagarre politica ed elettorale, come incarnazione di quella «tecnocrazia» che il bipopulismo all’italiana mette all’indice quando conviene. D’altro canto, però, permane la volontà di non minarne l’autorevolezza sulla scena europea e internazionale. Nello specifico, poi, per Meloni l’attacco a Draghi è controproducente anche per altri motivi: intanto perché i suoi due alleati hanno governato con lui e ne hanno condiviso le scelte, ma anche perché l’ex premier a Meloni ha garantito un avvio “sereno” del nuovo esecutivo sul fronte della lotta al Covid, dell’approvvigionamento energetico e degli equilibri di bilancio. È noto inoltre che la premier e il suo predecessore hanno scambi di opinioni non così rarefatti, sebbene non comunicati all’esterno.
Il fatto curioso è che il medesimo imbarazzo Mario Draghi lo crea a sinistra, a quel Pd che convintamente ne ha sostenuto l’azione di governo. Certo, era il Pd lettiano e non schleiniano. Eppure, la dinamica è simile a quella che si verifica a destra. Si tende a tutelare Draghi e anche a blindarlo quando la destra prova a metterlo in discussione, ma allo stesso tempo si sta ben attenti a non farsi associare al «super-banchiere». Persino quando si paventa l’idea che l’ex premier possa diventare presidente della Commissione o del Consiglio Ue, scenario che per i dem sarebbe tra i più rosei considerando l’attuale situazione politica italiana ed europea, la segretaria del Pd Elly Schlein si trincera nella prudenza tipica di chi ha paura di compromettersi troppo con un sostegno pubblico.
I motivi di questo «imbarazzo» che Draghi crea a destra e sinistra sono probabilmente imputabili alle dinamiche politiche contemporanee, sdraiate su slogan e proclami che già in premessa si sa essere irrealizzabili. E alla consapevolezza che però l’azione di governo – nazionale, europea e sovranazionale – richiede una dose di realismo e pragmatismo che l’ex capo della Bce, da tecnico, ha potuto quasi ostentare, non dovendo temere contraccolpi elettorali. Col senno del poi, è forse proprio questo «imbarazzo» dei partiti rispetto al profilo di Draghi ad averne ostacolato l’ascesa al Colle più alto.
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14 Dicembre 2023
Marchese del Grillo style.
La scanzonata doppiezza di Meloni
spiegata in due foto
di Luca Bianco
La premier incontra nella notte Macron e Scholz per sbloccare la trattativa sul Patto di stabilità, infischiandosi degli altri 24 stati europei. Solo due giorni prima aveva criticato Draghi per una foto molto simile. Ma si sa: a lei tutto è concesso
“Mi ha molto colpito – diceva Giorgia Meloni martedì alla Camera – che si sia fatto riferimento al grande gesto da statista del mio predecessore Draghi, alla foto in treno verso Kiev con Macron e Scholz”. La bordata a chi le ha consegnato la campanella a Palazzo Chigi nell’ottobre 2022 è durissima e scatena la rabbia di parte delle opposizioni. Un attacco a sorpresa, soprattutto se si pensa ai rapporti “cordiali” che la premier aveva sempre vantato di conservare con l’ex numero uno della Bce. Poco dopo, e anche ieri mattina in Senato, Meloni ritratta e cerca di risolverla accusando Partito Democratico e Giuseppe Conte sul Mes.
Ma pochissime ore dopo, sta qui l’incoerenza evidente della leader di Fdi, Meloni vola a Bruxelles e si incontra, nella notte, con il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz nel bar dell’hotel Amigo della capitale belga. L’atmosfera è informale, il tedesco è persino a maniche corte, si beve del vino francese. Qualcuno scatta una foto. Difficile non pensare al duro attacco lanciato da Meloni al suo predecessore poche ore prima: “Per alcuni – arringava in aula a Montecitorio – la politica estera è farsi una foto con Francia e Germania quando non si porta a casa niente. L’Europa non è tre ma a 27, bisogna parlare con tutti”. Ed eccola, mercoledì notte, a brindare non con i 27, ma con Macron e Scholz. Peccato che abbiano scattato quella foto. È la copia identica di quella scattata al suo predecessore con gli stessi omologhi.
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14 Dicembre 2023
Trattativa notturna. Meloni, Scholz e Macron
brindisi e risate al tavolo di un bar
di Ansa
Alla vigilia di un Consiglio europeo sui temi dell’allargamento all’Ucraina e del bilancio europeo i tre si vedono a Bruxelles. Sullo sfondo anche il grande nodo del Patto di stabilità. Mentre Palazzo Chigi fa sapere che si sta lavorando ad un bilaterale tra Meloni e Orban proprio a margine del vertice dei 27
Un lunghissimo incontro notturno, addolcito da vino rosso, brindisi e risate, nel bar di uno storico albergo di Bruxelles. La premier Giorgia Meloni e il presidente francese Emmanuel Macron sono tornati a vedersi a Bruxelles in un bilaterale alla vigilia di un Consiglio europeo cruciale sui temi dell’allargamento all’Ucraina e del bilancio europeo, con sullo sfondo il grande nodo del Patto di stabilità.
“È stata un’ottima discussione”, ha spiegato Macron al termine dell’incontro, iniziato a tarda sera dopo il vertice tra Ue e Balcani Occidentali, lontano dalle telecamere. Il bilaterale è avvenuto nel bar dell’hotel dove entrambi i leader pernottano e dove soggiorna anche Olaf Scholz. Il cancelliere tedesco era seduta nella stessa sala. Ha prima salutato Meloni e Macron, poi a lungo è stato seduto in un tavolo vicino, con il suo staff. Infine, unico in maglietta grigia a maniche corte nel gruppo dei leader, si è aggiunto al presidente francese e alla premier italiana. Dall’incontro fonti ufficiali non hanno fatto trapelare pressoché nulla. Ma, nonostante i volti distesi che si vedevano al tavolo, i temi da trattare erano caldissimi. Con l’Italia pronta quasi al tutto per tutto – tanto da evocare il veto – per evitare che sul nuovo Patto di stabilità prenda forma un compromesso considerato troppo punitivo per i Paesi ad elevato debito. Sul dossier della revisione del bilancio 2021-27 Roma e Parigi sono sul fronte opposto a quello della Germania e dei frugali, e chiedono che l’Ue metta a disposizione più risorse su migrazione e innovazione dell’industria, oltre che per il supporto all’Ucraina.
Kiev, plausibilmente, è stata parte dell’incontro, avvenuto sotto gli occhi di alcuni cronisti, dello staff della presidenza del Consiglio, del ministro per gli Affari Ue, il Sud, la Coesione e il Pnrr Raffaele Fitto e dei diplomatici di stanza presso le istituzioni europee. La riunione si è consumata infatti a poche ore dal summit Ue sui cui si preannuncia lo scontro tra l’Ungheria e gli altri 26 sull’apertura ai negoziati per l’ingresso di Kiev. Da fonti europee, a notte fonda, è filtrato un moderato ottimismo. Mentre fonti di Palazzo Chigi hanno spiegato che si sta lavorando ad un bilaterale tra Meloni e Orban proprio a margine del vertice dei 27.
Ascoltate cosa dice questa strozza,
che quando va in giro fa le sfilate di moda,
e qualcosa porta sempre a casa, ma a casa sua
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