Saper attendere nella vigilanza

L’EDITORIALE
di don Giorgio

Saper attendere nella vigilanza

Siamo alla fine dell’Avvento liturgico, periodo fugace (anche se per noi di rito ambrosiano dura sei settimane), tanto più se la testa l’abbiamo immersa nella sabbia. Il tempo passa sulla testa degli idioti conficcata nella vacuità: di coloro che si fanno consumare dal tempo come crònos, lasciando dietro nemmeno un po’ di polvere come ricordo.
Per chi pensa, e il credente dovrebbe avere la mente più lucida, è sempre Avvento: tempo di attesa, che però è già Eterno presente. Ma l’Eterno presente attende di essere sempre più presente nella coscienza di ogni essere umano.
Siamo sempre in Avvento, in uno stato di attesa: già il giorno dopo la data del 25 dicembre, tanto più che è subito pronta un’altra immersione nel mondo della vacuità.
Cito alcune riflessioni di Dietrich Bonhoeffer (da “Voglio vivere questi giorni con voi”).
«Festeggiare l’Avvento significa saper attendere: attendere è un’arte che il nostro tempo impaziente ha dimenticato. Esso vuole staccare il frutto maturo non appena germoglia; ma gli occhi ingordi vengono soltanto illusi, perché un frutto apparentemente così prezioso è dentro ancora verde, e mani prive di rispetto gettano via senza gratitudine ciò che li ha delusi. Chi non conosce la beatitudine acerba dell’attendere, cioè il mancare di qualcosa nella speranza, non potrà mai gustare la benedizione intera dell’adempimento… Nel mondo dobbiamo attendere le cose più grandi, più profonde, più delicate, e questo non avviene in modo tempestoso, ma secondo la legge divina della germinazione, della crescita e dello sviluppo. Comprendete l’ora della tempesta e del naufragio, è l’ora della inaudita prossimità di Dio, non della sua lontananza. Là dove tutte le altre sicurezze si infrangono e crollano e tutti i puntelli che reggevano la nostra esistenza sono rovinati uno dopo altro, là dove abbiamo dovuto imparare a rinunciare, proprio là si realizza questa prossimità di Dio, perché Dio sta per intervenire, vuol essere per noi sostegno e certezza. Egli distrugge, lascia che abbia luogo il naufragio, nel destino e nella colpa; ma in ogni naufragio ci ributta su di Lui. Questo ci vuole mostrare: quando tu lasci andare tutto, quando perdi e abbandoni ogni tua sicurezza, ecco, allora sei libero per Dio e totalmente sicuro in Lui. Che solo ci sia dato di comprendere con retto discernimento le tempeste della tribolazione e della tentazione, le tempeste d’alto mare della nostra vita! In esse Dio è vicino, non lontano, il nostro Dio è in croce. La croce è il segno in cui la falsa sicurezza viene sottoposta a giudizio e viene ristabilita la fede in Dio».
L’attesa del Divino che germoglia e cresce è nella interiorità dell’essere più puro, e oggi l’ostacolo più duro all’attesa interiore è quella alienazione prodotta da un regime totalizzante che assume diversi nomi.
Riporto un brano di un articolo, che ho letto in questi giorni. Titolo: “Frammenti di idee ricostruttive: il primato dell’interiorità”, scritto da Michele Nicoletti, editoriale della Rivista “Il margine” n.9/1994.
L’eclissi dello spazio interiore
Il rischio più forte a cui le moderne società di massa sono esposte è quello della scomparsa dell’interiorità umana. Non è questo un rischio nuovo, se è vero che viene denunciato fin dall’inizio dell’erompere della società industriale e soprattutto del diffondersi dei mezzi di informazione, dal giornale in poi. È sufficiente riandare alle pagine di Kierkegaard contro l’onnipotenza della “folla”, del “pubblico” che divora ogni cosa e fa scomparire il “singolo” e la sua interiorità, o a quelle di Tocqueville sul rischio di massificazione presente nelle nascenti democrazie, che avrebbe potuto segnare la fine dell’indipendenza dell’individuo. Quelle pagine, frettolosamente liquidate come espressione di un pensiero aristocratico e reazionario incapace di cogliere il nuovo che avanzava, dovevano venir riscoperte come tragicamente attuali negli anni Venti e Trenta, gli anni del sorgere dei totalitarismi. Di quei sistemi, cioè, che annientavano l’individuo nel Tutto dello Stato e soprattutto che si impadronivano della sua sfera interiore attraverso sofisticati mezzi di propaganda e l’uso del terrore. Ai regimi totalitari non era sufficiente l’obbedienza esteriore dei cittadini, volevano la loro anima.
La liquidazione dei totalitarismi è stata tuttavia un po’ troppo frettolosa e non ci si è accorti che la colonizzazione dell’interiorità, la sua espropriazione dall’esterno, non era solo il frutto di demoniaci sistemi ideologici e politici, ma era anche il prodotto di un determinato sviluppo sociale, culturale ed economico, che noi conosciamo come società di massa. Ci si è illusi così che il pericolo totalitario fosse definitivamente sconfitto con il crollo dei rispettivi regimi, e non ci sì è accorti che nuove forme minacciavano l’individuo. Solo voci sembravano cogliere che la dinamica era più ampia della semplice parabola politica esteriore. Le voci critiche nei confronti dello sviluppo o della società dei consumi venivano inglobate in una cultura di una nuova socialità, più che di difesa dell’interiorità (si pensi al ‘68), oppure in una rivendicazione di libertà radicali (si pensi al ‘77), o ancora si attestavano su posizioni regressive di nostalgia di un mondo perduto o di semplice condanna moralistica. Quasi nessuno riusciva ad elaborare una cultura politica e giuridica che mettesse al centro la tutela dell’interiorità.
Nel giro così di pochi anni, in forza della diffusione dei mezzi di comunicazione e soprattutto della televisione commerciale nel nostro paese, si è arrivati al rischio di eliminazione dello spazio dell’interiorità. Questo il problema. L’assenza di interiorità è infatti problema antico che ogni cultura ha dovuto affrontare, in quanto è sempre presente nell’uomo la tentazione di vivere dispersi nelle cose esteriori, E infatti è antico quanto l’uomo l’invito a “rientrare in se stessi”. Il problema in certo senso “nuovo” è l’eliminazione dello spazio dell’interiorità per cui non c’è più un “dentro” e un “fuori”, un “interiore” ed “esteriore”, un “privato” e un “pubblico”. È inutile dire alla gente di “rientrare in se stessi” se non c’è più un “dentro”.
La grande colonizzazione dell’anima e la sua spettacolarizzazione
Lo spazio dell’interiorità non è certo rispettato e custodito dalle dinamiche economiche: ogni messaggio pubblicitario è anzi costruito come manipolazione sapiente delle motivazioni interiori di ogni persona, con particolare attenzione alle persone più indifese, i bambini, i poveri di mezzi e cultura. L’interiorità viene così interamente colonizzata per fini speculativi. I mezzi di informazione accentuano poi questa corsa alla devastazione dell’intimità mettendo in mostra (cioè appunto “esteriorizzando”) ogni elemento dell’interiorità umana: affetti familiari, sentimenti, convinzioni morali e religiose profonde, e tutto il resto. Si dice che sia in nome del diritto all’informazione. Niente di più falso. II diritto all’informazione, sacrosanto, riguarda la sfera pubblica e tutti i comportamenti pubblici, non certo la sfera interiore che deve invece essere rigorosamente tutelata. Si dice che è per esercitare una fondamentale funzione di controllo nei confronti dei potenti. Discutibilissimo. Non solo per il fatto che l’interiorità va rispettata in ogni caso, ma anche perché lo sviluppo dell’informazione nelle nostre società dimostra che l’invadenza dei mezzi di informazione nei confronti della sfera privata si è accompagnata spesso a una loro compiacevole cecità nei confronti dei comportamenti pubblici, In realtà la ricerca di ciò che è privato, intimo, nascosto è legata non ad una logica di informazione, ma ad una logica commerciale: si deve vendere la notizia e vende di più il mettere a nudo che non il fermarsi rispettosi sulla soglia. Ora lo spogliare l’altro della sua intimità non è solo una operazione che soddisfa determinati istinti morbosi, ma è anche una operazione che risponde a istinto di potere; conoscere ciò che è più intimo dell’altro, i suoi sentimenti, i suoi affetti, i suoi punti deboli significa averlo in pugno, dominarlo. La tutela della sfera interiore è anche un’azione di salvaguardia dell’indipendenza personale. La persona spogliata della sua intimità è più facilmente resa schiava. In ciò la logica dell’informazione è asservita alla logica commerciale e spesso deve scontare l’incultura e l’assenza di etica professionale dei suoi operatori o la pressione delle aziende di riferimento. Tutto ciò ha trasformato troppi giornalisti in cacciatori senza scrupoli di prede che non son più notizie, ma confessioni, segreti carpiti, stati d’animo e così via. Purtroppo questi fenomeni travolgono lo stesso mondo culturale e religioso. Anche in questi settori troviamo la stessa erosione dello spazio dell’interiorità a favore dell’esteriorizzazione di ciò che un tempo apparteneva alla sfera intima della persona. Si pensi a ciò che avviene per l’esperienza religiosa: da un lato si tende a negare all’esperienza religiosa il carattere “pubblico” di alcuni suoi atti, nel concreto la dimensione sociale e istituzionale della chiesa, dall’altra sì tende a mostrare in pubblico – e a farne spettacolo – gli aspetti più legati al “sentire” religioso, un tempo custoditi gelosamente nel segreto.
L’aspetto inquietante di questo assalto all’interiorità, che deriva dall’eclissi del sentimento del rispetto e della discrezione, è che tale assalto non viene respinto dall’individuo, ma, nella maggior parte dei casi, viene sollecitato. Il pudore è scomparso e, se un tempo ci si preoccupava di difendere con le unghie e con i denti la propria vita privata e interiore dagli occhi degli altri, ora invece si darebbe qualsiasi cosa pur di ostenderla via satellite. Il politico ama farsi ritrarre nell’intimità della sua casa, con moglie e figli, parla dei propri sentimenti privati, utilizzandoli come strumenti di consenso. Cresce la gente comune che brama di portare in televisione i propri problemi personali, le liti tra moglie e marito, i conflitti con i figli. Molti fatti di violenza vengono compiuti al fine di poter “apparire” sui mezzi di informazione. Perfino gli uomini religiosi, un tempo così attenti a custodire il santuario dell’anima, rispondono con disinvoltura ai giornalisti su aspetti che riguardano la vita spirituale di singole persone. Se questa è la logica dominante, è facile capire come a poco servano i richiami a rientrare in se stessi: rientrare dove, se non c’è più un dentro perché tutto è fuori, se il dentro è solo un buco nero, tutto vuoto?
Interiorità e libertà
Non si può pensare che questa dinamica perversa abbia effetti solo sulla vita personale e sui costumi dei singoli, i suoi risvolti sociali e politici sono evidenti. Senza uno spazio per l’interiorità umana infatti non è solo a rischio ogni esperienza religiosa o artistica o filosofica, ma sono a rischio anche le relazioni sociali primarie, i rapporti familiari e di amicizia che possono reggere ed essere autentici solo se si fondano su una comunicazione singolare tra interiorità e non certo su di una comune ostensione pubblica di vuotezze. È a rischio il pensiero critico concepito come un pensare con la propria testa, come un dare significati autonomi alla vita e alle esperienze, e non solo come esecuzione di più o meno sofisticate operazioni cerebrali. È a rischio la formazione della volontà politica attraverso il ragionamento e il confronto: è giusto discutere sul problema dell’informazione di concentrazione e pluralismo, ma perché non parlare anche di come l’informazione contemporanea sta modificando alla radice la formazione della volontà politica, un tempo affidata al rapporto interpersonale, ed ora consegnata sempre più alla relazione tra individuo anonimo e televisione? E ancora: con la scomparsa dell’interiorità è a rischio la libertà, se questa non è intesa come semplice capacità di selezionare le offerte del mercato, ma come reale capacità di iniziativa, di dare inizio a qualche cosa e non semplicemente di portare a termine un comando. Senza lo spazio dell’interiorità in cui rifugiarci e maturare la ribellione, che cosa ci potrà sottrarre all’arbitrio del tiranno? Qui si vede l’ultimo esito “totalitario”, non necessariamente voluto da qualcuno, di una società che vedesse scomparire lo spazio dell’interiorità.
Ecco perché lo sforzo di costruzione di una nuova cultura politica difficilmente può evitare di confrontarsi su questo tema, col tema apparentemente così impolitico dell’interiorità. Senza la possibilità di una vita interiore è vuoto infatti parlare di libertà e di centralità della persona, e tutte le costruzioni che prescindano da questo elemento rischiano di essere pura ingegneria o architettonica astratta: progetti di case senza abitanti.
Non che si voglia dire che è la politica che può risolvere questo problema, al contrario essa può poco, forse quasi nulla, ma essa deve in ogni caso tenerne conto nel modo più serio e rigoroso. Può molto invece l’azione culturale e sociale, anche se l’abbraccio del sistema e dei suoi mezzi di produzione e informazione sembra soverchiante.
14 dicembre 2024
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