
da Il Corriere della Sera
14 gennaio 2025
Furio Colombo, la scoperta dell’America
dopo la fabbrica di Olivetti
di Aldo Cazzullo
Il giornalista è morto il 14 gennaio a Roma. Amico di Umberto Eco, fu un «liberal» anticomunista aperto al nuovo
Furio Colombo è scomparso a 94 anni. Giornalista, fu parlamentare in tre legislature. Una vita spesa tra l’Italia e gli Stati Uniti. A lui si deve l’istituzione del Giorno della Memoria. I funerali il 15 gennaio a Roma
Diceva l’Avvocato Agnelli che Furio Colombo aveva fatto molte cose, e le aveva fatte tutte bene. Giornalista, dirigente Olivetti, scrittore, capo dei programmi culturali della Rai, direttore dell’Istituto italiano di cultura a New York, presidente della Fiat Usa, deputato dell’Ulivo. Quando lo fecero direttore dell’«Unità», molti tra noi sorrisero; eppure fece bene anche il direttore dell’ «Unità».
Non l’ho mai visto di cattivo umore, lo ricordo sempre con il sorriso. Era arrivato — lucidissimo — a 94 anni alla Churchill, senza fare sport, sedendosi a tavola e ordinando prosciutto, mozzarella di bufala, vino. Eppure, l’allure di uomo di mondo, dal successo internazionale, davanti a cui si aprivano tutte le porte, nascondeva un uomo tormentato, complesso, sfaccettato.
Ad esempio il giovane Furio, di famiglia e di cultura ebraica, difensore della prima e dell’ultima ora di Israele, si era formato nell’Azione cattolica, braccio giovanile di una Chiesa militante, preconciliare, dove si cantavano canzoni per Pio XII: «Siamo araldi della fede, siamo arditi della croce/ a un tuo cenno, alla tua voce, un esercito all’altar». Lì aveva incontrato l’amico della vita, Umberto Eco.
Furio e Umberto entrano insieme in Rai, e insieme vanno ad abitare a Milano. Conoscono Goffredo Parise e Valentino Bompiani. Vanno a fare Capodanno a Parigi, Furio si fidanza ma il mattino dopo Umberto lo trova imbronciato a spasso lungo la Senna con la famiglia di lei, compreso il fratellino che lo marca stretto. Furio ha ventitré anni, ed è grassoccio; Eco, magrissimo. Le parti si invertiranno. Colombo viene mandato a Torino, a fare una trasmissione per ragazzi, Orizzonte. Prepara i testi che leggerà un giovane scelto per il suo bell’aspetto: Gianni Vattimo. Poi Furio va a Roma, a lavorare al primo telegiornale, diretto da Vittorio Veltroni.
Il primo gennaio 1957, giorno del suo ventiseiesimo compleanno, ha un appuntamento a Ivrea con Adriano Olivetti, che lo vuole con sé. Prende una camera in albergo accanto a quella di Paolo Volponi. Primo incarico, due mesi alla catena di montaggio, a produrre la calcolatrice Divisumma. Furio intrattiene gli operai raccontando i romanzi di Charles Dickens e Herman Melville; loro in cambio raccolgono i numerini che a volte lascia cadere, e completano il lavoro al posto suo. Poi un mese alle presse, dove si stampa la lamiera per le macchine da scrivere. Quindi tre mesi all’agenzia di vendita a Milano: porta a porta in negozi e piccole aziende, a vendere calcolatrici e mobili per ufficio.
Finito il tirocinio, Olivetti lo mette alla selezione del personale, accanto a Ottiero Ottieri, che sta scrivendo Donnarumma all’assalto, il romanzo dell’Italia del miracolo economico. Si cercano matematici e filosofi per costruire il primo computer, sotto la guida di Mario Tchou, geniale scienziato di origine cinese, che morirà in un misterioso incidente stradale.
Olivetti chiede a Furio di scegliere: o la costruzione del partito che ha in mente, o l’America, dove ha comprato la Underwood, una fabbrica di macchine da scrivere con 25 mila dipendenti. Lui sceglie l’America. Appena arrivato a New York, passa la notte a passeggiare nel bosco dei grattacieli. Vicini di casa, Arthur Miller e Marilyn Monroe. Poi lascia l’azienda per il giornalismo, intervista Che Guevara e Frank Sinatra, racconta la rivolta dei ghetti neri e gli assassinii di Martin Luther King e Bob Kennedy.
La sua è la generazione che ha come primo ricordo il fascismo, ha attraversato la guerra, ha respirato l’aria della ricostruzione, ha studiato seriamente alla scuola dei Bobbio e dei Galante Garrone, in una Torino dura e viva, e ha costruito le basi culturali dell’Italia del boom, quella vitale e superficiale del film Il sorpasso. Il suo grande scoop giornalistico fu l’ultima intervista a Pier Paolo Pasolini, che prima di andare a morire gli dettò anche il titolo: «Siamo tutti in pericolo». Fu Colombo, insieme con Oriana Fallaci, ad aprire la pista politica del suo omicidio, incredibilmente e ridicolmente attribuito al solo Pino Pelosi.
Nel 1996 entrò alla Camera vincendo un collegio uninominale di Torino, che univa quartieri popolari alle case dei ricchi in collina. Lui era a suo agio in entrambi i posti. Parlava dialetto piemontese con la stessa disinvoltura con cui padroneggiava l’inglese, anzi l’americano, con cui aveva conquistato la sua bellissima moglie, Alice. Aveva curiose passioni. Gli edicolanti: li conosceva tutti, era molto contrario alla vendita dei quotidiani nei supermercati, sosteneva che l’edicola fosse un presidio della democrazia. E gli zingari. Il suo comitato elettorale era sempre pieno di zingari, accolti all’inizio con timore dai volontari; ma Furio Colombo era da sempre un difensore di rom e sinti, lavorava per integrarli, passava loro piccole somme perché non andassero a rubare.
Era un vero liberal all’americana, deciso anticomunista. Per questo parve strano quando andò a dirigere «l’Unità», che fece benissimo, con un fascione rosso che strillava la frase del giorno, spesso qualche enormità dei berlusconiani più zelanti. Da giornale di partito divenne il giornale dei girotondi, facendo penare non poco il povero Piero Fassino. Considerava il suo capolavoro di deputato l’istituzione del Giorno della Memoria, per ricordare la deportazione degli ebrei e anche gli internati militari in Germania; ma sosteneva la necessità di custodire allo stesso modo la memoria degli infoibati e degli esuli dalmati, istriani, giuliani.
Muore con Furio Colombo una certa Italia che non c’è più, preparata, aperta, sorridente, per cui la cultura non era un privilegio ma una ricchezza da condividere. Gli si perdonava volentieri il vezzo della vanità, perché era una persona buona, di tratto elegante e di animo gentile.
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