Omelie 2015 di don Giorgio: Quarta Domenica di Quaresima

15 marzo 2015: Quarta di Quaresima
Es 33,7-11a; 1Ts 4,1b-12; Gv 9,1-38b
Nel primo brano della Messa, tolto dal libro dell’Esodo, si parla di una Tenda particolare, detta Tenda del Convegno: la prima dimora mobile di Dio. Il primo Tempio in muratura sarà costruito dal re Salomone nel X secolo a.C, raso poi al suolo nel 586 a.C. dal re babilonese Nabucodonosor. Il secondo Tempio verrà ricostruito ex novo, dopo l’esilio babilonese, da Zorobabele, e inaugurato nel 525 a.C. Quello che noi diciamo il Tempio di Erode, in realtà non era un terzo Tempio, ma sempre il Tempio di Zorobabele, fatto ampliare da Erode il Grande: i lavori inizieranno verso il 19 a.C., e termineranno nel 64 d.C. Pensate: sei anni dopo, nel 70 d.C., sarà distrutto definitivamente dall’esercito romano  agli ordini di Tito.
Tornando alla Tenda del Convegno, vorrei farvi notare una cosa interessante. Trattandosi di una tenda, faceva parte della storia di un accampamento. Accamparsi non significa di per sé prendere dimora fissa. Anche Dio si era adattato alla vita nomade del suo popolo. Come dimora aveva preso una tenda, un po’ speciale, ma sempre tenda. Soprattutto durante l’Esodo, dopo l’uscita dall’Egitto, la Tenda del Convegno si montava e si smontava in continuazione, come qualsiasi altra tenda dell’accampamento, verso la terra promessa. Dio accompagnava di passo in passo il suo popolo.
A me sembra di vedere in questo continuo spostamento della Tenda del Convegno un aspetto molto suggestivo. Dio non è immobile, Dio non ama fermarsi o prendere dimora in un posto fisso. Già il Tempio di Salomone e quello di Zorobabele avevano creato grossi problemi di culto. Gli ebrei erano arrivati al punto di invocare: “Il tempio di Gerusalemme! Il tempio di Gerusalemme!”, prendendo il tempio in muratura come se fosse più sacro di Jahvè. Giuravano sul Tempio come se fosse Dio stesso. Perché Cristo se la prenderà  con il Tempio? Il Tempio e la Legge erano diventati intoccabili, a danno della dignità della persona umana. Non dimentichiamo la rivelazione alla donna samaritana: per adorare Dio non è necessario il tempio, né quello giudaico né quello samaritano. Dio si onora in spirito e verità.
Anche la Chiesa, nella sua storia millenaria, ha corso questo rischio, ed è ricaduta nello stesso difetto degli ebrei. Nessun luogo di culto potrà contenere la maestà e l’infinità di Dio. Ancora oggi crediamo che, costruendo grandi cattedrali, possiamo catturare l’immensità di Dio.
Scrive l’autore dell’Esodo: il Signore «parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico». “Faccia a faccia”, che significa? Vuol dire: senza veli, senza maschere, senza diaframmi. Pensate alla religione con le sue pretese di imporre il proprio dio: su questo dio si è costruito tutto un mondo religioso, con le sue pratiche di preghiere, di digiuni, di penitenze, con una sua morale e una sua dottrina dogmatica, fisse come un tempio in muratura.
“Faccia a faccia!”. È quanto succede nel nostro interiore, là dove Dio è l’essere infinito. Ma la mistica fa ancora paura alla Chiesa, che preferisce dominare le anime, mettendo su Dio una certa maschera, ovvero uno strato di veli.
Non ci è difficile ora agganciarci al brano del Vangelo. È il segno-opera del cieco nato. Alla parola “segno” ho aggiunto “opera”. A parte il fatto che Giovanni non usa mai la parola “miracolo” come l’intendiamo noi, cioè come un fatto strepitoso a se stante, c’è anche da dire che, mentre fino al capitolo quarto l’evangelista usa la parola “segno, dal capitolo quinto in poi usa la parola “opera”. Qual è la differenza? Mentre di per sé i “segni” presentano Gesù come il Messia atteso, suscitando tra la gente una prima parziale adesione alla sua persona; le “opere” invece presentano Gesù come il Figlio dell’uomo, in un clima di tensione. La gente non lo capisce, in parte lo rifiuta. Anche l’”opera” narrata nel capitolo 9, ovvero il miracolo del cieco dalla nascita che ricupera la vista, si svolge in un contesto polemico (vedi la reazione dei farisei) o di assoluta estraneità (pensate alla gente e ai parenti che, per paura dei farisei, non vogliono prendere posizione).
È lecito chiederci: come Giovanni e la sua comunità hanno ricostruito il fatto? Sì, “ricostruito”,  nel senso di riletto e reinterpretato con quella maturità di fede che fa leggere i fatti e i detti di Gesù, oltre la pura cronaca. Come dietro all’episodio della samaritana troviamo una comunità profetica vivace, così dietro al racconto di oggi troviamo una comunità cristiana che riflette e medita, s’interroga e inizia anche ad andare in crisi: in crisi di identità.
Non mi soffermo sui numerosi particolari, che sarebbero anche interessanti da evidenziare. Vorrei invece soffermarmi sullo svolgimento letterario del racconto che rivela, di proposito, un duplice cammino: un cammino che procede e un cammino che recede, un cammino che progredisce e un cammino che regredisce. La cosa interessante è che i due cammini avvengono contemporaneamente: nell’atteggiamento dei farisei e nell’atteggiamento del cieco guarito. I due atteggiamenti vanno quasi di pari passo, ma in senso inverso: mentre i farisei man mano si allontanano dalla luce, ovvero diventano ciechi, al contrario il cieco va verso la luce, quella divina. Giovanni è stato veramente un artista nel presentare questo duplice cammino, uno a ritroso e l’altro in avanti, mentre Gesù sembra quasi assente dalla scena. In tutta la narrazione, infatti, lo troviamo all’inizio, quando ridà la vista al cieco, e alla fine, quando incontra il cieco guarito, anch’egli buttato fuori dalla sinagoga, ovvero dalla comunità. Ed è qui che, “fuori”, quel cieco riacquista l’altra vista, quella della fede. “Fuori”, ovvero là dove non c’è più la struttura della religione, ovvero dove sono crollati i veli.
Il cieco guarito finalmente “vede” anche Gesù, ovvero “vede” la salvezza, quel Gesù che aveva lasciato la religione ebraica per farsi vedere “faccia a faccia”, come Mosè nella Tenda del Convegno.
La Tenda del  Convegno, dice l’Esodo, era piantata “fuori” dell’accampamento. Come mai? Il Signore voleva forse stare fuori, lontano dalle altre tende normali della sua gente? Anche a noi sembra che quando le chiese sono fuori paese, siano come luoghi appartati, privilegiati, estranei alla vita della gente. Credo che qui ci sia da riflettere. Dio ama stare con la sua gente, ma nello stesso tempo ne sta sempre fuori, non per estraniarsi, ma perché sa che fuori, solo fuori, non si corre il rischio di essere strumentalizzati, in balia delle pretese religiose. Solo fuori, noi possiamo incontrare il vero Dio, il vero Cristo. Fuori dagli schemi, fuori dalle strutture, fuori dagli inganni di una religione, sempre pronta, come ai tempi di Cristo, a usare la legge per rendere schiavo l’essere umano.
Certo, volere o no, viviamo dentro una società, viviamo in una struttura religiosa, ma dobbiamo mantenere il nostro spirito, sempre “fuori”. È lo spirito che dà la vera libertà, quel sentirci liberi di muoverci spiritualmente come vogliamo, dietro le ispirazioni dello Spirito divino. La storia del cieco guarito è la storia della libertà dello spirito, che vede al di là delle capacità visive dei nostri occhi fisici, al di là dei nostri pregiudizi, che sono la vera cecità dell’umanità.

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