Sordi, neonato feroce

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Sordi, neonato feroce

Alberto Anile
Cento anni fa nasceva Federico Fellini. Ma questo 2020 segna anche un altro anniversario a tre cifre: quello di Alberto Sordi, nato a Roma il 15 giugno 1920. Amici fin dai tempi difficili della guerra, poi complici nelle prime e non sempre fortunate scorribande sul grande schermo, si può dire che Fellini e Sordi abbiano condiviso lo stesso sguardo critico e al tempo stesso curioso, da “osservatori partecipanti”, su quello strano oggetto chiamato Italia. Lo hanno fatto con modi ed esiti diversi: Fellini diventando un pilastro della storia del cinema mondiale; Sordi, più modestamente, di quella nazionale. Entrambi, e in particolare Sordi, sono stati forse più amati (e odiati) che realmente studiati: una carenza alla quale Alberto Anile, critico e storico del cinema, ha provato a porre rimedio con il suo Alberto Sordi (CSC-Edizioni Sabinae, 2020). Il testo che segue è tratto dal decimo capitolo del libro, dedicato appunto al rapporto fra l’attore romano e il regista riminese: lo pubblichiamo per gentile concessione dell’autore e degli editori Felice Laudadio (CSC-Cineteca Nazionale) e Simone Casavecchia (Edizioni Sabinae), ai quali va il nostro ringraziamento.
Alberto è cento; gli altri sono, al massimo, dieci.
(Federico Fellini, 1966)
La storia di Alberto e Federico è soprattutto quella dell’amicizia di due coetanei, nati entrambi nel 1920. Fellini disse di averlo visto per la prima volta a teatro, poco dopo essersi trasferito da Rimini. L’anno era molto probabilmente il 1938, lo spettacolo Ma in campagna è un’altra… rosa, della compagnia Riccioli-Primavera. «Mi ricordo», disse a Grazia Livi, «che in una certa scena, fra le comparse vestite da soldati pagliacceschi, ce n’era uno che strafaceva, lasciava cadere la spada, ma era molto buffo, aveva delle cadenze da clown vero… Dopo, insieme a un amico, andai dietro le quinte e prima d’arrivare ai camerini mi fermai in palcoscenico, dove le comparse appendevano i vestiti fra le corde e i chiodi, e tutt’a un tratto riconobbi quel clown. Stava lì col suo faccione lunare, con lo sguardo frastornato. Mi fermai e gli dissi: “Sei bravo! Mi sei piaciuto molto!” Lui mi ringraziò ridendo con occhi sgranati, da matto» (G. Livi, Alberto Sordi, Longanesi 1967).
Subito amici, negli anni cupi e avventurosi della guerra Alberto e Federico furono compagni di scorribande sessuali, fra i casini e le ballerine dei varietà, complici di scherzi, soci nei primi incontri professionali: portano la firma di Fellini co-sceneggiatore alcuni dei primissimi film di Sordi, Chi l’ha visto?, Il Passatore, Il delitto di Giovanni Episcopo. Perennemente affamati, scroccavano insieme qualche pasto caldo nella latteria di via Frattina. Mentre Sordi si barcamenava fra spettacoli e banda presidiaria, Fellini riuscì a farsi riformare ma secondo Alberto non aveva davvero una buona cera: «Era deperito, non mangiava mai, magrissimo, non si reggeva sulle gambe, pareva un cane randagio; Giulietta l’ha invitato nella sua casa borghese ben tenuta e ordinata, l’ha nutrito ad agnolotti, insomma si sono sposati» (Sordi in L. Tornabuoni, Io, lo sceicco bianco, in F. Fellini, Lo Sceicco Bianco, Garzanti 1960).
Federico Fellini e Giulietta Masina celebrarono le nozze il 30 ottobre 1943, nell’appartamento di un prelato vicino di pianerottolo, con pochissimi invitati. Il loro viaggio di nozze consistette in un ingresso al teatro Galleria, allo spettacolo della compagnia di Fanfulla in cui Alberto faceva il presentatore. «Sordi era in scena», ha raccontato Moraldo Rossi, «li vide entrare, fermò lo spettacolo e disse, più o meno: “È arrivato un amico, si chiama Federico Fellini, è un umorista, collabora al Marc’Aurelio. Si è sposato con Giulietta Masina, una brava attrice che avete sentito alla radio nel personaggio di Pallina. Vi chiedo di aiutarmi a fargli un dono, che mi costa pure poco, vi chiedo un applauso. Regalo al mio amico Federico questo momento di festa comunicandolo a tutto il pubblico del teatro”» (A. Crespi, L’amico vitellone. Conversazione con Moraldo Rossi, in Sordi segreto, “Bianco e nero” n. 592, 2018).
Nelle lunghe passeggiate notturne di quegli anni Alberto e Federico parlavano e sognavano, profetizzandosi a vicenda un grande avvenire come regista, un futuro radioso come attore. E quando le rispettive carriere cominciarono a decollare fu normale cercare di lavorare insieme.
Il primo vero incontro avviene nel ’52. Dopo Mamma mia che impressione!, Sordi fa un provino per Lattuada che sta preparando Lo sceicco bianco, nel ruolo dello sposino protagonista, ma viene scartato. Quando Lattuada si ritira dal progetto è Alberto a incoraggiare Federico a prendere il timone, e Fellini impone l’attore alla produzione, stavolta nel ruolo del divo di fotoromanzi. Sordi scrive personalmente le proprie battute, improvvisando anche sotto i riflettori, e Fellini lo lascia fare, sicuro che l’amico sa bene dove andare a parare, attento solo ad attenuarne i toni quando comincia a strafare.
Alberto accetta le indicazioni del regista, e si fa docilmente imbottire il sedere di ovatta per sembrare più goffo. Fa solo qualche bizza prima di inerpicarsi sull’altalena sospesa a venti metri da terra, da dove nel film farà la sua prima apparizione: prima di salirci la fa provare a tutti quelli che nella troupe gli sembrano più pesanti di lui.
Il film all’epoca non viene capito. La prima proiezione va malissimo. «Era presente il vertice del sistema cinematografico: grandi produttori, grandi critici, registi qualificati. Alla fine fu il gelo. Tutti cercavano di svignarsela alla chetichella. Fellini era distrutto. Uscimmo nella notte e sedemmo l’uno accanto all’altro sul marciapiede. “Ma com’è, è proprio un disastro?” mi domandò Federico. “Federico, non devi chiederlo a me. Per me è bellissimo” (…). Aveva avuto la tentazione di cambiar mestiere. Quelli che contano nel cinema dicevano a mezza bocca che era negato alla regia, che doveva fare il giornalista, o il disegnatore per bambini» (Sordi in D. Campana, Mio padre: «Non diventerai mai un attore», “Il Giorno”, 5 marzo 1984).
Fellini riesce a risollevarsi dallo smacco, ma a Sordi va peggio: diventa la bestia nera di produttori e distributori, che al cinema non lo vogliono vedere neanche dipinto. Fellini insiste, s’impunta, lo pretende di nuovo nel cast del nuovo film I vitelloni. Contratta l’assenza del nome “Alberto Sordi” da manifesti e titoli di testa, e pur di averlo adatta ritmo e luoghi di lavorazione sulla tournée di Gran Baraonda, che Sordi deve portare fra Lazio e Toscana in compagnia con la Osiris.
Del film fa parte anche il celebre insulto ai lavoratori della strada, con gestaccio annesso, una scena sulla quale non si è mai saputo con esattezza se l’ispirazione venisse dall’interprete, dal regista o da un vecchio sketch di Aldo Fabrizi. Sordi comunque la rivendicava come farina del proprio sacco: «Mi era successo una volta che, uscendo in una macchina scoperta da via Frattina dove c’era una sala di doppiaggio, passai davanti a un paio di operai che lavoravano con il martello pneumatico. Gli gridai: “State a giocà, eh? Perché non lavorate un po’?” e me ne andai sgommando. A piazza Mignanelli c’era un ingorgo e, fermo, vidi dallo specchietto gli operai che mi erano corsi appresso. Riuscii a ripartire appena in tempo» (M.P. Fusco, Sordi: “Io e Fellini, i vitelloni”, “la Repubblica”, 1° novembre 1993).
Proprio quella scena è al centro dei timori del produttore e, poi, dell’ilarità di una platea di lavoratori di Mestre, ai quali la pellicola viene fatta vedere poco prima di passare alla Mostra di Venezia. Stavolta il film esplode, lanciando le carriere del regista e del suo amico attore. La collaborazione è stata stretta, indissolubile, e il merito del successo deve qualcosa all’uno e all’altro. I vitelloni è già subito “felliniano” ma l’apporto di Alberto, col suo personaggio mammone e disperato, e la magnifica scena dopo la notte del Carnevale, è decisivo. «In due ruoli soprattutto Alberto è veramente grande» diceva Fellini. «Quando fa il personaggio stracciato, vinto, trascinato, battuto come un cane… E quando fa il pazzo. Il pazzo grandioso, come Caligola, come Hitler… In questi due personaggi è eccezionale» (B. Zapponi, Roma e Fellini, in Roma di Federico Fellini, a cura di B. Zapponi, Cappelli 1972).
Perciò, quando Federico cerca un attore per il ruolo del Matto in La strada, Alberto torna subito a proporsi: «Fellini girò un provino alla Masina e a me. Facevamo quella scena del sassolino, quando il Matto e Gelsomina parlano di come tutto a questo mondo serva a qualcosa, anche un sassolino, e il Padreterno sa a che cosa. La Masina diceva le sue battute del sassolino, io la guardavo: e Federico, l’occhio ironico, deve averlo visto, capì che non poteva prendere un attore che bloccava il pubblico. Con tanti abbracci, baci e giustificazioni, mi disse che la parte non la facevo più. Io rimasi un po’ sconcertato. Lui ebbe la grande intuizione: chiedendo a me di rinunciare alla parte, capì da allora che per i personaggi cui dava la propria identità non funzionavano attori che potevano sfuggirgli di mano» (L. Tornabuoni, Io, lo Sceicco bianco, cit.).
In effetti: ve l’immaginate con che faccia Alberto Sordi deve avere guardato Gelsomina che discorreva di sassolini e divinità? Tullio Kezich, nella sua biografia del grande riminese, scrive che Fellini fece quel provino solo per accontentarlo, sapendo già che non lo avrebbe preso. D’altronde ne fece tanti, anche a non attori come Moraldo Rossi, finché il ruolo non andò a Richard Basehart.
A quel punto le strade di Alberto e Federico divaricarono. Sordi ha spesso ripetuto che fu giusto così, perché Fellini cercava di costruire dei sogni cinematografici mentre lui aveva scelto di battere la strada di un (neo)realismo comico, basato sull’osservazione di concreti tipi fisici e morali. In realtà Sordi provò ancora a lavorare con Federico, e Federico tentò ancora di trovargli ruoli adatti nei suoi film. «Penso sempre a un grande personaggio», dice il regista alla Livi, «a un imperatore romano della decadenza… Vorrei togliergli quella maschera troppo dialettale, farlo saltar fuori dalla cronaca, restituirgli certi guizzi, certe cadenze classiche da farsa plautina. Vorrei approfittare della sua forza nell’identificarsi col personaggio, della sua violenta, sgangherata istintività. Perché Alberto ha qualità di grande mimo e potrebbe benissimo dar vita a caratteri da maschera eterna: un personaggio di Plauto, di Molière…» (G. Livi, Alberto Sordi, cit.).
Non sono battute vane: nel ’67 lo annuncia nel ruolo del Trimalcione per un Satyricon (cfr. T. Kezich, Federico, Feltrinelli 2002) che in realtà è ancora di là da venire. Subito dopo, per Tre passi nel delirio, contempla l’idea di fargli interpretare un episodio basato sul racconto La sepoltura prematura di Edgar Allan Poe, nel ruolo «d’un sacrestano ossessionato dall’idea di venir sepolto ancora vivo. La storia, destinata nella mia mente all’interpretazione di Sordi, avrebbe dovuto avere come scenario una vecchia chiesona di Napoli. Sordi, terrorizzato dalle conseguenze d’una morte apparente, si costruiva una bara-canoa con cui raggiungere attraverso un tunnel inclinato le acque del golfo e la salvezza…» (Fellini in A. Debenedetti, Amarcord da un allegro cimitero. Per la mia Luna, “Corriere della Sera”, 2 dicembre 1990). Ma i produttori fecero difficoltà per la complessità e la ricchezza delle scene, e Federico ripiegò su Non scommettere la testa col diavolo, per il quale chiamò a protagonista Terence Stamp (cfr. L. Betti, Alla ricerca di Toby Dammit, in Tre passi nel delirio, Cappelli 1968).
Fellini volle infine Sordi per il cameo di Roma, ma il taglio della scena ebbe l’effetto di cancellare l’intera esperienza: quando gli chiedevano in quanti film aveva lavorato con Fellini, Sordi contava fino a due, menzionando solo Lo sceicco bianco e I vitelloni.
Nel ’74 Fellini gli confida che sta preparando un film su Casanova, che sta pensando a lui come protagonista, e Sordi immediatamente lo spiffera ai giornali, ansioso di parteciparvi: «Fellini mi ha parlato di questo suo progetto, che ho trovato interessantissimo, ed io non me la sento di dire no a Federico. Casanova io? Embé, che c’è da ridere, forse non era bello come me? E allora sarà una pellicola adattissima all’inespugnabile scapolo dei nostri tempi, il vostro Albertone vero» (L. Verre, «Sarò io il Casanova di Fellini» dice Sordi, «poi torno in rivista», “Il Secolo XIX”, 29 agosto 1974). Partecipa giocosamente a un provino per il ruolo, che finirà dentro uno special televisivo, ma alla fine il ruolo va a Donald Sutherland.
Se la montagna non va da Maometto, allora è Maometto che va a girare il film. A Casanova ancora in lavorazione, Alberto scrive Un amore gigante, tre pagine di soggettino ambientate sul set del film, in cui presumibilmente Federico avrebbe dovuto fare un’apparizione; il progetto non è privo di poesia ma rimarrà lettera morta. Nel 1983 Sordi chiede a Federico di poterlo dirigere nel suo Tassinaro, compiendo un’operazione analoga e speculare a quella di Roma. Il regista recalcitra. «Non voleva», racconterà Andreotti, «quando Sordi glielo chiese rispose ci sto solo se dai una parte anche ad Andreotti. Io accettai subito. Così Fellini poi mi chiamò e mi disse: bello scherzo mi hai combinato» (A. Rampino, Andreotti: quando mi disse che votava per me, “La stampa”, 26 febbraio 2003). Federico è quindi costretto ad accettare, sale sul taxi Zara 87, si siede a fianco di Pietro Marchetti/Alberto Sordi e si lascia sommergere dalle sue chiacchiere e dai suoi elogi. Nella foga dell’ammiratore, l’autista inserisce nel mangianastri una cassetta con la marcetta di 8½, e fa allo sbalordito passeggero un divertente riassuntone triviale dell’estetica felliniana: «Io metto questa musichetta quando racconto alla gente i sogni suoi, che lei fa vedere nei film, quelle scene fantastiche co’ quelle trippone, quelle chiappone, quelle zinnone, quelle bucione. Co’ tutti quei preti sdentati tutti vestiti de rosso che corrono ’n mezzo a’ strada. E poi le monache cappellone, e le cavallerizze con le chiappe più grosse der cavallo. E poi i cardinali, i baroni, i conti, i zozzoni, i poracci, i clown, i pagliacci coi fischietti, le trombette, piripì piripì piripì piripì piripì…, er vecchio che se perde na’ nebbia – poi sarebbero tutti suoi sogni da bambino… C’è pure il luna park, er circo equestre, er bambino secco secco cor cilindro, a’ frusta… Che poi sarebbe lei quanno era bimbo, vero dottor Fellini?».
È l’ultimo incontro professionale. Dieci anni dopo, quando Federico muore, Alberto diserta telecamere ed esequie pubbliche. «Ho perso un fratello poco tempo fa», dice a “Repubblica”, «e oggi provo lo stesso senso di vuoto e di silenzio. Ecco perché non ho voluto quelle rappresentazioni davanti alle telecamere, a dire che Federico era grande, lo sanno tutti che era grande. Io voglio pensare da solo, a modo mio» (M.P. Fusco, Sordi: “Io e Fellini, i vitelloni”, cit.). Accetta di scrivere un testo per il “Corriere della Sera”, poi basta.
In realtà il fratello maggiore di Alberto, l’ingegnere Giuseppe Sordi, non era scomparso proprio «poco tempo fa», ma da tre anni buoni. Il riferimento al consanguineo non è dunque occasionale né casuale, e spiega in una parola a quale grado di vicinanza l’attore sentisse il regista. Mentre De Sica gli fece da padre artistico, Federico fu per Alberto un secondo fratello, un compagno complice compare coetaneo, con il quale condivise sogni, fame, guerra e ambizioni.
Grazie alla lunga frequentazione, Fellini era fra i pochi che potessero dire di avere compreso l’essenza di Sordi, la sua intima ferocia e la sua diffidenza assoluta. Come ebbe a dire in un’intervista a Enzo Biagi, in cui riassunse in modo formidabile le caratteristiche dei nostri migliori attori di commedia: «Ogni paese ha gli eroi che si merita: Sordi, Tognazzi, Mastroianni, Manfredi; Gassman non è italiano. Parlo, si capisce, di tavole esplicative: Tognazzi è il contadino avvinazzato, poi l’avidità di Sordi, neonato feroce, con la sfiducia totale negli altri, l’avarizia e il cinismo di Manfredi, il trepido risveglio, e subito riprecipita nel sonno, di Mastroianni, che rinvia ogni problema per sempre, restituiscono alla platea complicità orribili. Gassman è una nostra vittima: un nobile principe tedesco, nel cui sorriso c’è la malinconia del carcerato» (E. Biagi, Italia, Rizzoli 1975). «Neonato feroce» è una delle definizioni più felici che si possano immaginare di Sordi, della sua cattiveria istintiva, del suo intimo egoismo, e insieme della sua intoccabile innocenza.

2 Commenti

  1. Giuseppe ha detto:

    Se Totò ha rappresentato la commedia dell’arte trapiantata al cinema, Sordi ha interpretato con la giusta cattiveria e tenerezza i pregi e i difetti di noi italiani. A lui hanno perdonato perfino la “romanità” e il suo accento così smaccato che a tanti di noi dà (inspiegabilmente) fastidio

  2. Palumbo Bartolomeo ha detto:

    SPLENDIDO!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

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