Quando un vescovo preferisce non rispondere…

La lettera che potete leggere è stata scritta da Martina Viganò a Mario Delpini, arcivescovo di Milano, e inviata per posta elettronica il giorno 2 settembre 2023. Non conosco il criterio che il vescovo Mario usa quando decide di rispondere o non rispondere a lettere o letterine che gli vengono inviate. Non mi ritengo scorretto se ora la pubblico sul sito: in un NotaBene c’è scritto: “La vorrei mettere al corrente che questa lettera e una Sua eventuale risposta saranno pubblicate sul sito di don Giorgio”. La risposta non è giunta, e perciò ho deciso di pubblicarla.
Don Giorgio

«Come una porta aperta»

Mario Delpini, vescovo di Milano, ha incontrato nei giorni scorsi la Chiesa della Turchia. «Una Chiesa che – come ha ben sottolineato l’Arcivescovo – è fatta di piccoli numeri, ma ha l’energia del piccolo seme che nella sua fragilità e impotenza porta in sé vitalità e forza; una Chiesa senza grosse strutture, ma fatta di legami, relazioni e incontri, una Chiesa sorella – tanto antica e tanto nuova – che, nel suo essere minoranza in una realtà molto complessa e variegata, ha tanto da insegnarci».
Vescovo Mario,
sono parole effettivamente belle, le quali fanno ben sperare in un modello da seguire anche qui da noi, nelle nostre comunità cristiane, dove si notano – in un allarmante crescendo – stanchezza, anche amarezza e forse desolazione. Perché? Almeno porci qualche domanda, ma non le solite scontate, che rimangono perciò sterili anche per vaghe risposte.
Non bastano belle parole, soprattutto se sono ad effetto che durano l’emozione di un secondo. Forse ciò che manca sono autentici testimoni dell’Evangelo. Ed ecco una prima domanda: perché si fanno tacere gli spiriti liberi, che testimoniano il Vangelo essenziale, che è il puro Cristianesimo, in una Chiesa troppo istituzionalizzata?
Non bastano neppure i cosiddetti buoni sentimenti: sono proprio questi che attenuano, cercando anche di soffocarlo, quello spirito che è la realtà invisibile di ogni essere umano, la più importante, quella essenziale.
Oggi nella stessa Chiesa gerarchica si emigra da una parte all’altra, da una città all’altra, da un continente all’altro: assistiamo ad un frenetico susseguirsi di viaggi cosiddetti missionari, pastorali “a larghe vedute”, ma che in realtà danno l’impressione di una evasione dal proprio campo di lavoro, soprattutto se questi è lasciato incolto, abbandonato al proprio destino. E ciò ci lascia allibiti pensando a una grossa diocesi, come quella milanese, che avrebbe bisogno di una costante aratura, che è di nostra competenza, gerarchi e laici, se vogliamo che poi Dio intervenga deponendo il suo seme eterno, che fruttificherà sotto la vigile attenzione di pastori che hanno a cuore il loro gregge.
Sì, assistiamo, quasi impotenti a un gioco gerarchico di ininterrotte anche strane evasioni, che ci sembrano gravi mancanze nei riguardi della missione di pastori fedeli al proprio ovile, che, anche quando sembrasse vuoto, non giustificherebbe quel rincorrere le pecore di periferia in periferia, sempre più periferia, in una girandola di evasioni, che coprono il proprio disimpegno pastorale locale. Il vero problema è che periferica diventa la parrocchia, quando la si tradisce lasciandola per evasioni pastorali, di periferia in periferia.
Ed ecco un’altra domanda: che cos’è la periferia, ovvero una parrocchia diventata periferica? Non è forse quella lasciata nelle mani del più bieco consumismo carnale? Periferia non è forse là dove lo spirito lascia il posto a iniziative del tutto carnali? E la cosa più allucinante è quando, andando nelle periferie diciamo fisiche, lo stile pastorale non cambia, perché si pensa di salvare le periferie portando più carnalità, quasi la periferia avesse bisogno di qualcosa di più carnale, addirittura aggrappandosi a un cristianesimo vuoto della propria identità interiore.
A partire dagli antichi pensatori greci, per arrivare a Cristo e alla Mistica medievale speculativa, senza dover andare a elemosinare qualche germe di spiritualismo nel lontano Oriente, è un continuo insistere sull’obbligo di scendere in profondità.
Scendere in profondità è rientrare in quel sé, dove c’è la scintilla divina, ed è qui che avviene la Generazione e ri-Generazione del Logos eterno.
Chi intraprende questo cammino di “scavo”, opera di un distacco sempre più radicale dalla carnalità, raggiunge nel “fondo della propria anima” il Mistero divino, in un’Unione mistica, che non è il privilegio solo di alcuni, perché tutti, oltre che corpo e psiche, sono spirito, ovvero “scintilla divina”.
Ciò di cui ha bisogno soprattutto la gente di oggi, tanto più se è in periferia, ovvero fuori del proprio sé interiore, non è una pastorale ancor più carnale perché ancor più attraente, ma di una realtà più interiore, ed è questo che sembra mancare nella pastorale di una Chiesa anch’essa uscita in periferia, ovvero fuori del proprio sé interiore.
Eppure lo stesso Cristo parlava di “metanoèite!” (Mc 1,15). Fin dall’inizio del suo pubblico ministero invitava a cambiare mentalità, quel modo di pensare che è proprio dell’“uomo periferico”.
Occorre cambiare mente, ovvero riprendersi l’intelletto, che già il filosofo pagano Aristotele chiamava “attivo”, quello illuminato dall’Alto, ovvero dall’Intelletto divino, per evitare di cadere vittima dell’intelletto “passivo”, quello che subisce la carnalità di un ego, che prende ogni cosa dall’esterno per riempire ogni spazio dello spirito, così da non permettere a Dio la libertà di effondersi.
I Mistici medievali parlavano di amor sui, che è il vero peccato originale. Ovvero l’amor sui è l’amore di quell’ego, che in quanto soggetto ci condiziona, e in quanto oggetto ci affascina.
Probabilmente annoio dicendo queste cose, anche perché forse alla stessa gerarchia ecclesiastica appaiono del tutto noiose, per non dire insopportabili, perché scomode.
Anche oggi si preferisce parlare di impegno nel campo assistenziale e sociale, di una pastorale che predilige la periferia, sempre però intesa nel suo aspetto diciamo carnale.
Così si crede di fare bella figura davanti al mondo anche lontano dalla religione cattolica, di restituire alla stessa Chiesa un volto più umano e ammirevole, anzi di riprendersi quella credibilità che nel tempo si era persa, tra dogmi imposti troppo rigidamente e dure condanne di ideologie ritenute nemiche.
E se certi steccati sembrano crollati – mai come oggi il papa è oggetto della più grande ammirazione su giornali un tempo anticlericali – ho la sensazione che la Chiesa gerarchica o istituzionale rimanga vittima di un grosso abbaglio, che farà danni alla stessa Chiesa di Cristo e alla stessa gente, stanca di offerte di carnalità, perché vorrebbe dissetarsi a una Sorgente di Grazia.
Un mondo, il nostro, che ha bisogno, estremamente bisogno, di quell’acqua viva e di cibo sostanzioso, che, solo scendendo nel profondo del proprio essere interiore, si possono trovare. Un mondo che ha bisogno di sentir parlare di “spiritualità”.
In questo progresso, in balìa di una tecnologia che domina come assoluta indiscutibile padrona, si sta verificando un pauroso regresso morale. C’è un allontanamento allarmante dal Divino più puro.
E qui non posso non fare una proposta, che ritengo indispensabile per una gerarchia che mi sembra disattenta al mondo dello spirito, perché immersa nel mondo del carnale o strutturale.
Ed ecco l’ultima domanda: perché non dare ascolto alle voci dissidenti di spiriti che, in quanto interiormente liberi, potrebbero dare qualche stimolo perché la Chiesa esca dal coma spirituale, per riprendere il messaggio radicale del Figlio di Dio, incarnato non per fare miracoli carnali, ma per dirci: “Rientra in te, così scoprirai chi sei e scoprirai lo stesso Dio”.
E poi: non è ipocrisia parlare di pace, quando nella stessa Chiesa non vi è pace, perché ci si odia, emarginando gli spiriti liberi? Si parla con tanta superficialità di misericordia e di perdono, e si lasciano preti dissidenti marcire in casa? E questo che cos’è? Non è un crimine? Anche solo umanamente parlando, non è un crimine?
Trovo importante riportare alcune parole di Socrate, quando anch’egli, ingiustamente, venne processato e condannato a morte. Così dice: «Ascoltate ciò che vi dico. State pur certi che, se condannate a morte un uomo come me, il danno maggiore non sarà affatto mio, ma vostro. Io credo che sia il dio ad avermi posto sopra la vostra città, affinché vi possa stimolare, persuadere e moderare. Se ne avessi approfittato, se voi aveste pagato i miei consigli, via, si capirebbe. È perché ho un testimonio indiscutibile: la mia stessa povertà».
Era povero di cose, ma ricco di spirito.
Mi chiedo se bisogna ancora oggi crocifiggere i giusti o gli spiriti liberi, emarginandoli fino alla morte. Forse è la legge di Dio che vuole il sangue dei giusti per redimere il mondo degli ingiusti o di una Chiesa istituzionale che non regge più, e allora si ha bisogno di un capro espiatorio su cui scaricare ogni colpa e mandarlo a morire in un deserto?
Non è una proposta buttata lì, perché non avrei altro da proporre: sono convinta che una diocesi grandissima, come quella milanese, ha bisogno di stimoli diversi, che solo gli spiriti liberi potrebbero dare.
Se Carlo Maria Martini diceva a don Giorgio: “La Diocesi è grande, ho bisogno anche di te!”, se Dionigi Tettamanzi gli diceva: “Ogni punizione per essere rieducativa ha un tempo ben determinato, non oltre due o tre anni!”, se Angelo Scola invece gli diceva: “Non ho bisogno di te!”, mi chiedo come mai Lei, vescovo Mario, per dieci anni ha tenuto don Giorgio segregato in casa privata.
Qui non voglio giudicare la sua figura di pastore o le sue scelte pastorali, ma porLe qualche domanda non penso sia mancanza di rispetto o quel voler criticarla senza motivo, come Lei ultimamente nelle sue omelie sembra lamentarsi.
Ciò che non riesco ad accettare è quel Suo rifiutare a priori ogni voce libera, e non dica che non è vero, perché altrimenti sarei costretta a scrivere un’altra lettera, portando prove su prove di quanto Lei sia allergico a quelle critiche che nascono dal desiderio di volere una Chiesa, in particolare una Diocesi, più aderente al Vangelo di Cristo, tanto più che, anche Lei lo vede, tutti quanti, vescovi o semplici preti, sono umanamente precari, deboli, bisognosi perciò di buoni collaboratori e di ottimi consiglieri.
E forse i “migliori” consiglieri non sono quelli che fanno parte del Suo giro, ma gli spiriti liberi che, come spine, possono sanamente pungere quando si è troppo distratti dalle cose temporali.
Se Lei è del tutto convinto di essere nel giusto seguendo la strada che sta percorrendo come pastore di una Diocesi quasi irriconoscibile, si prenda allora ogni responsabilità: ma perché, a priori rifiutare un dialogo con chi ha qualcosa di buono da dire sul suo stile pastorale?
Un confronto dialettico, anche pubblico, sarebbe così assurdo?
Non bisogna essere «come una porta aperta»?
Ci spero vivamente, ed è per questo che Le ho scritto questa lettera.
La ringrazio per l’attenzione,
distinti saluti.
Martina Viganò
(con indirizzo completo)
NOTABENE: La vorrei mettere al corrente che questa lettera e una Sua eventuale risposta saranno pubblicate sul sito di don Giorgio.
02. 09.2023

4 Commenti

  1. Vincenzo ha detto:

    Salve don Giorgio,

    Il vescovo probabilmente non ha risposto perché non era in grado.

    Non dimentichiamo lo spessore culturale della persona:
    https://www.youtube.com/watch?v=HVMmCyN17Eg&t=175s

    Vincenzo

  2. Lalla ha detto:

    Non ha risposto semplicemente perché non sono state usate le formule di cortesia quali Eccellenza Reverendissima ecc.
    Inoltre per comunicazioni è meglio mettere in copia (alcuni sembrano non c’entrare ma sono tutte persone direttamente collegate con il vescovo):

    comunicazione@diocesi.milano.it
    famiglia@diocesi.milano.it
    formazione.docenti@diocesi.milano.it
    irc@diocesi.milano.it
    callmind@diocesi.milano.it
    giovani@diocesi.milano.it
    viczona3@diocesi.milano.it
    archivio@diocesi.milano.it
    sociale@diocesi.milano.it
    fase2@diocesi.milano.it
    segreteriafom@diocesi.milano.it
    centroascoltosicar@diocesi.milano.it

  3. Aldo ha detto:

    Questo post non mi ha sorpreso, anzi mi sarei meravigliato del contrario. Sono un ministro accolito di una parrocchia di Cagliari
    nonchè un aderente del Movimento dei Focolari. Non ho di che lamentarmi per l’andamento della Diocesi, però sono sicuro che se io dovessi avere un qualsiasi problema e scrivessi al Vescovo, non mi risponderebbe. L’unico tentativo sarebbe di far segnalare la mia lettera dal mio parroco, al quale dovrei spiegare il motivo per cui la sto scrivendo, ma sarebbe lui il primo a dirmi di non farlo. Con questo non voglio dire che va bene cosi, anzi secondo me la Chiesa sbaglia quando non risponde, ma non vedo attualmente altre vie di uscita.

  4. simone ha detto:

    Non ha ancora risposto e probabilmente non risponderà mai.
    Vorrei dire che anche se dovesse rispondere, eviterà, come sempre gli capita, di rispondere precisamente ad ogni punto.
    Divagherà, farà in modo di svicolarsi dalle puntuali domande di Martina.
    E’ l’emblema della persona bloccata dalla istituzione che rappresenta; io non credo che il “mondo” descritto da Martina sia mal visto dal vescovo Mario. Io credo che la posizione ricoperta dal vescovo Mario e il controllo esercitato dall’istituzione, non gli permettano di aprirsi a talune ipotesi.
    Si diceva che la messa vigiliare, detestata da tutti, sarebbe rimasta fino a quando fosse rimasto in vita il card. Tettamanzi che fu il promulgatore. In realtà è rimasta ben oltre nonostante ormai molte parrocchie non la celebrino più, a mio avviso giustamente. Forse la punizione di don Giorgio rimarrà fino a quando l’ombra del card. Scola incomberà su questa diocesi.
    Come potrebbe, il piccoletto, correggere chi lo ha spinto sulla cattedra di Milano? Come potrebbe esprimere un segno di discontinuità con il card. Scola? Non l’ha fatto fino adesso in nessun ambito! Ci vuole coraggio…nessuno ha il coraggio di andare contro l’autorità, l’istituzione. Chi lo ha fatto è finito in croce…Uno materialmente e molti altri dopo di lui, psicologicamente. Son stati ripudiati, isolati, rinchiusi, dimenticati. Addirittura puniti con inaudite punizioni: sono arrivati a privare della libertà di entrare in una chiesa. Ma nonostante il loro sforzo di cancellare, nascondere e dimenticare, quel seme è continuato a crescere. Perchè l’uomo non può fermare la potenza di Dio: non ce la fa!
    Certo Martina, la tua lettera mira al bene di questa chiesa milanese così persa e chiusa. Giustamente provi a dare un contributo col dialogo, la riflessione. Ma io credo che ogni cosa avverrà secondo la volontà di Dio. Nostro compito è custodire questa rivelazione ricevuta, sentirci parte di quel “piccolo resto” ed esserne testimoni. Questo seme maturerà e porterà frutto come e quando Dio vorrà. In questo riconosciamo come la Chiesa non sia in ascolto di questa voce ma solo attenta ai propri bisogni materiali. Ma anche lì troviamo serenità quando confidiamo nell’azione di Cristo che non abbandonerà la sua sposa. Cosa sta succedendo rimarrà ignoto a noi ma ben chiaro a Colui che la guida. E per questo possiamo serenamente ripetere che “si compia la Sua volontà”. Così procediamo in pace!

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