I giovani e il desiderio

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I giovani e il desiderio

di Eraldo Affinati
14 OTTOBRE 2024
Come ci organizzeremo quando sapremo dialogare con il nuovo essere umano scaturito dall’universo cibernetico? È una domanda a cui l’educatore non ha il tempo di rispondere, in quanto deve intervenire adesso, qui e ora. La sacrosanta esortazione di Massimo Recalcati sulla necessità ineludibile di accendere il fuoco del desiderio nei ragazzi, come se avessimo tutti già raggiunto la riva nera preconizzata da Cormac McCarthy, si scontra con la latitanza di molti adulti incapaci di portare la fiaccola per orientare il nostro cammino dentro il bosco incenerito, anche perché ciò implica una volontà di discernimento desueta. Dovremmo recuperare il candore e il coraggio della giovanissima Maria di fronte all’Arcangelo Gabriele: impresa quasi impensabile. Tutti sono pronti a tagliare i rami secchi del proprio albero interiore, che, comunque sia, cadrebbero lo stesso, anche senza il nostro intervento; ma quanti invece sarebbero disposti a potare i rami fioriti, cioè le cose belle che nella vita avremmo potuto fare, passioni, interessi e talenti, alle quali abbiamo deciso di rinunciare in nome di qualcos’altro in cui crediamo di più?
La rivoluzione digitale sembra rendere difficili le azioni che dobbiamo compiere per lasciarci alle spalle l’indeterminatezza. Riguarda tutti noi, ma i giovani rischiano grosso: hikikomori quindicenni e non solo, i quali possono illudersi di poter diventare questo e quello, senza dovere pagare il prezzo del risarcimento in caso commettano un danno. Li vedi in fondo all’aula, forti e fragili allo stesso tempo, con gli occhi fissi nel vuoto, adolescenti che fanno sì con la testa senza sapere perché o fanno no prima che tu parli. Anche nei loro compagni meno appariscenti, la grande maggioranza silenziosa, percepisci un rapporto stralunato con la cosiddetta esperienza della realtà. Intendiamoci: di qualità non certo inferiore a quella delle generazioni precedenti, ma di forma assolutamente inedita. Per intercettarla dovremmo ricorrere a strumenti di cui ancora non disponiamo. In particolare il sistema dell’istruzione nazionale, pur contraddistinto da numerose e benemerite sperimentazioni, è impegnato in una rincorsa affannosa nel tentativo di mettersi al passo del rapidissimo cambiamento.
Da che mondo è mondo esiste un campo di verifica privilegiato per sondare la nostra capacità di scelta: l’amore. Stendhal credeva che l’innamoramento scaturisse da una cristallizzazione e faceva l’esempio di un rametto gettato nelle miniere di sale di Salisburgo che dopo due o tre mesi si ricopre di un’infinità di preziosi: così accade anche nella testa dell’amante. Ma io sono sempre stato dalla parte di Lev Tolstoj il quale legava l’amore a un principio etico, fondato sulle predilezioni più arcane e personali che formano il carattere di ognuno. E allora, se vogliamo allargare il cielo dei giovani, spingendoli verso le stelle lontane e apparentemente imprendibili, secondo il bell’auspicio di Viola Ardone, a mio avviso dovremmo paradossalmente insegnare loro il costo della scelta, doloroso ma imprescindibile e necessario. Per farlo proviamo a metterci in posizione frontale, da maestri, e di fianco, come amici. Se riuscissimo ad assumere e sostenere questa doppia positura esistenziale potremmo lasciar filtrare la nostra testimonianza quotidiana, basata sull’incarnazione del limite da accettare, proprio come sapeva il Leopardi ventenne, altrimenti non gli sarebbe piaciuto naufragare nell’immenso mare che s’era immaginato. Non indicare unicamente il precetto da osservare, no, questo da solo non basta, ma nemmeno privare gli allievi dello spazio dialettico di cui hanno bisogno. Capito, ragazzo? Vuoi trovare la vera, autentica soddisfazione? Lavora su te stesso, per comprendere la tua stazione di partenza, spesso persino anteriore alla tua nascita, soltanto così potrai conoscere il maestro interiore che ti guida, nell’accezione agostiniana, e assumere la responsabilità del gesto che dovrai compiere scrollandoti di dosso il peso dell’eclettismo e della sterile potenzialità che ora ti mette il piombo nelle ali: ciò significherà verificare le fonti, non accontentarsi della mera informazione, bensì agognare la conoscenza, prendere posizione, toccare con mano, ferirsi, perdere consenso, uscire dall’ebbrezza del successo (in contrapposizione alla riuscita), affrancarsi dalla schiavitù del risultato, dalla gioia effimera del facile riscontro, dall’ansia competitiva, affermando il valore oggi oscurato della relazione umana.
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12 OTTOBRE 2024

Accendiamo nei ragazzi il fuoco del desiderio

di Massimo Recalcati
È un paradosso epocale: l’acquisizione di una libertà di massa inedita non favorisce la presenza del desiderio ma genera la sua tendenziale estinzione. Com’è possibile?
Le più recenti statistiche epidemiologiche sul disagio giovanile mostrano un quadro davvero inquietante. La diffusione di angoscia, panico, disturbi psicosomatici, anoressie-bulimie, intossicazioni di vario genere comprese quelle provocate dagli oggetti tecnologici, violenza e tendenze suicidarie appare decisamente in aumento dopo il Covid segnalando uno stato di vera e propria emergenza.
Non voglio indugiare, come ho fatto in altre occasioni, sul fatto che non bisogna commettere l’errore di identificare questa generazione come vittima inerme del trauma del Covid. Piuttosto vorrei interrogarmi sulla matrice più profonda di questo disagio, ovvero sul rapporto tra le nuove e le vecchie generazioni.
Secondo una opinione divenuta comune la causa principale di tutta questa sofferenza, ben al di là del Covid, si deve rintracciare nel carattere disossato dei nuovi genitori che si rivelerebbero del tutto incapaci di assolvere il loro compito educativo. Una eccessiva preoccupazione di essere amati — che anche personalmente ho più volte segnalato come un sintomo specifico della genitorialità ipermoderna — li rende incapaci di sopportare il conflitto che anima inevitabilmente il rapporto tra generazioni differenti.
L’accusa si rafforza diventando una sentenza morale: è il carattere smidollato dei genitori contemporanei, troppo preoccupati a risparmiare ai figli il duro impatto con una realtà sempre più precaria, a determinare l’estrema fragilità di questi ultimi. Ne consegue che la sola possibilità di uscire da questa evidente condizione di crisi sarebbe il ripristino dell’autorità educativa delle vecchie generazioni.
Ma in realtà si tratta di un ideale di restaurazione che appare tanto più disperato quanto sempre più irrealizzabile e che, non a caso, ispira la politica della famiglia e della scuola del nostro attuale governo.
Condannare le nuove famiglie e la scuola a disertare il loro compito educativo è tanto facile quanto inutile perché da questa crisi non se ne può uscire rievocando nostalgicamente i valori perduti della tradizione. Innanzitutto perché questi valori, prima della più che legittima contestazione del ’68, non offrivano affatto un modello pedagogico positivo.
Tutt’altro: il sequestro della parola, l’abuso di potere, la discriminazione sociale, l’annullamento del pensiero critico, una concezione solo correttiva e punitiva del processo educativo, non mi sembra che possano essere impugnati oggi come punti di riferimenti ideali. Lo sguardo rivolto solo all’indietro non può mai essere in grado di abitare generativamente l’avvenire.
Se analizziamo in modo sintetico le forme prevalenti del disagio psichico delle nuove generazioni colpisce il denominatore clinico che le accomuna. Si tratta della fatica diffusa ad accendere il proprio desiderio. Strano vero? In un tempo come il nostro che ha sdoganato il piacere da ogni forma di reticenza, pudore e morbosità morale, il desiderio non si espande ma tende ad appassire.
È un paradosso epocale: l’acquisizione di una libertà di massa inedita non favorisce la presenza del desiderio ma genera la sua tendenziale estinzione. Com’è possibile? Perché le nuove generazioni fanno sempre più fatica a desiderare?
Una prima risposta riguarda il rapporto del desiderio con la legge. Più la legge evapora più il desiderio perde il proprio slancio poiché, come ricordava Paolo di Tarso, il desiderio trae la sua spinta trasgressiva proprio dall’esistenza della legge. Ma anche questa risposta resta in superficie.
In realtà, ed è un problema che lo stesso Paolo si pone, una legge che si limitasse a contenere il desiderio verrebbe meno al proprio compito, il quale non è tanto quello di interdire il desiderio, ma di renderlo umanamente possibile. Il problema centrale delle nuove generazioni è, infatti, quello di non riuscire più a cogliere nel desiderio il senso più profondo della legge.
Nella tradizione biblica e in quella psicoanalitica questo senso si chiama “vocazione”. In questa luce il desiderio non appare come antagonista della legge ma diviene esso stesso legge. Sicché il desiderio non è più in una contrapposizione morale al dovere, ma assume la forma più pura del “vero dovere”. E non è forse questo ciò che salverebbe la vita dei nostri figli? Essere animati da una vocazione che rende il loro desiderio la forma più alta del loro “vero dovere”?
Nondimeno, affinché questo sia possibile, è necessario che i nostri figli trovino testimonianze incarnate di questa possibilità — fare del proprio desiderio un dovere — nelle vecchie generazioni. La cui responsabilità allora non sarebbe tanto quella di essere incapaci nel fare valere l’autorità della legge, quanto piuttosto nel non riuscire a dare testimonianza credibile del loro stesso desiderio. Di cosa ha necessità un figlio se non nel vedere che vi sia qualcuno che sa vivere su questa terra facendo del desiderio il proprio dovere?
Si tratta, allora, per i nuovi educatori di non farsi tanto rappresentati della legge che disciplina il desiderio, ma nel portare con sé il fuoco del desiderio. È quello che accade ne La strada di Cormac McCarthy: i “buoni”, di cui i nostri figli smarriti hanno bisogno, sono coloro che sanno ancora portare il fuoco grazie al quale la vita può essere accesa.
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14 OTTOBRE 2024

Diamo più spazio al desiderio dei ragazzi

di Viola Ardone
Lasciamoli liberi di immaginare, di inventarsi un futuro a cui nessuno di noi ha ancora pensato. Sosteniamoli nello sperimentare, nell’allargare il perimetro dei loro progetti. Nel crearsi un cielo più lontano di quello che vediamo noi
Il desiderio si trova sempre altrove. È etimologicamente una figura di movimento e non di stasi, contiene il prefisso de, che in latino indica il moto da luogo, l’origine, la provenienza. È per definizione una tensione verso qualcosa che deve giungere da lontano, e per la precisione dalle stelle (sidera). Il desiderio è quindi una mancanza, un posto vuoto, un’assenza. Il fatto che i ragazzi oggi facciano sempre più fatica a provarlo, come ha ben raccontato Massimo Recalcati su Repubblica, è forse la conseguenza di una sindrome da “troppo pieno”.
La scuola, gli impegni extrascolastici, la compulsione ai social riempiono ogni momento lasciando il tempo privo del benefico vuoto della noia. E invece spesso è proprio la noia che accende il desiderio. Verrebbe da pensare allora che per riattivare in loro la modalità desiderante basterebbe sottrarre, privare i ragazzi di qualcosa: delle comodità, dei telefoni cellulari, del denaro, dei regali, dell’eccessiva tenerezza, del supporto.
Spesso sento dire che questa generazione ha smesso di desiderare perché ha avuto tutto, i giovani non fanno più a tempo a chiedere che già vengono esauditi. Certo, è vero che siamo sempre più indulgenti con i figli, con gli studenti, a cui cerchiamo di risparmiare sofferenze e delusioni, eppure sono convinta che un approccio “punitivo” non sia la strada giusta. Non è il togliere che educa ma l’aggiungere.
Me ne rendo conto in classe. Il maggiore stimolo non è la severità né la durezza. Non è la punizione che fortifica, quella può al massimo vincere attraverso la paura, ma non convincere. Si può modificare pavlovianamente un comportamento agendo attraverso il condizionamento, minacciando o infliggendo una punizione, ma per riaccendere il desiderio non serve il segno meno, ma il più.
Più esempi, più occasioni, più discorsi, più esperienze, più opportunità, più modelli, più momenti di confronto con chi la pensa in modo diverso. Ampliare l’orizzonte, aprire nuove prospettive, far intravedere obiettivi che si trovano più lontano, aumentare il raggio di gittata dei sogni.
Lo sperimento ogni volta che, grazie a un loro spunto, la lezione prende una direzione diversa da quella stabilita, o quando si apre il dibattito su un tema che sta loro a cuore, allora il loro sguardo si accende e i discorsi si fanno più interessati, veri.
I ragazzi desiderano quando hanno spazio. Spazio per crescere senza che noi adulti gli stiamo troppo addosso, spazio per sbagliare e tornare indietro, spazio per imparare a riparare quello che accidentalmente rompono, per immaginare qualcosa che a noi sembra folle, o sciocco, o ingenuo, o complicato. Spazio per fare qualcosa senza il nostro aiuto, spazio per insegnarci il loro punto di vista, spazio per inventare un futuro che non sia la logica conseguenza del presente.
La scuola era in passato un luogo di desiderio, il posto in cui a ciascuno era prospettata la possibilità di aspirare al futuro che voleva per sé. “Da grande voglio fare…” dicevano i bambini, che lo si realizzasse o meno non era importante, l’importante era quel movimento, quella spinta in avanti, la molla della volontà che scatta verso l’ignoto.
Da quando “l’ascensore sociale” è fermo il meccanismo si è rotto, noi stessi professori non sappiamo quali saranno i mestieri di domani, orientarli al lavoro è quasi una chiromanzia. E allora lasciamoli liberi di immaginare, di inventarsi un futuro a cui nessuno di noi ha ancora pensato. Sosteniamoli nello sperimentare, nell’allargare il perimetro dei loro progetti, diamogli spazio per crearsi un cielo più lontano di quello che vediamo noi. Più distanti sono le stelle, più è ampio il desiderio.

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