Franco Ferrarotti, il primo sociologo italiano: “Viviamo il malessere del benessere”

da www.oggi.it/

Franco Ferrarotti,

il primo sociologo italiano:

“Viviamo il malessere del benessere”

DI ANDREA GRECO
Lo studioso parla di tecnologia, politica e conflitti: “Siamo dentro la Terza guerra mondiale e facciamo finta di niente”. E, a 98 anni, si appassiona ai giovani “che hanno accesso al superfluo e non al necessario”
L’oracolo del quartiere Trieste lo si può trovare in un ampio studio, al piano terra di un palazzo borghese poco distante da uno dei licei più famosi di Roma, completamente ingombro di libri, opuscoli e dispense ammonticchiati senza un ordine apparente. È lì dentro che il professore emerito Franco Ferrarotti, l’uomo che ha portato la Sociologia in Italia, ancora studia e lavora. Qui ci accoglie, con i suoi 98 anni portati in maniera invidiabile (anche solo per il fatto di averli raggiunti).
Professore, dalla sua scrivania che cosa vede?
«Sono sempre attento ai fenomeni giovanili, perché sono le antenne che per prime intercettano le tendenze inedite. Sono dell’idea che sostanzialmente quelli di oggi siano ragazzi per bene, lontani dalla gioventù bruciata: questi non bruciano nulla. Mi sembrano invece un po’ silenziosi perché vagamente spaventati e disorientati. Faccio un passo indietro.Da qualche anno nei Paesi avanzati come principio guida è stato assunto quello dell’innovazione tecnologica. Ne ho il massimo rispetto, ma penso pure che questo sviluppo rischi di avverare la dialettica servo-padrone di Hegel: l’umanità si svuota affidando sempre più compiti alle macchine, deresponsabilizzandosi, e così facendo si impoverisce e rischia di diventare subalterna. Sia come sia, la tecnologia, di per sé, non può guidarci da nessuna parte anche perché non è certo la sua finalità. Così siamo tutti un po’ come il viaggiatore di Marco Aurelio, ci allontaniamo sempre più velocemente, ma abbiamo scordato la meta. Temo che in qualche modo influisca anche la natura dei nuovi mezzi di comunicazione. Messaggi, e-mail eccetera offrono grandi possibilità ma hanno un limite, non prevedono il faccia a faccia e la reciprocità immediata, che a volte è essenziale per capirsi. Si tratta di comunicazioni umanamente impoverite».
Ci sono altri elementi che concorrono a lasciare i giovani in questa incertezza?
«Sicuramente, e almeno uno è di natura politica: siamo incapaci di imporre una scala di priorità. Per esempio, ha notato che il superfluo è immediatamente accessibile a tutti o quasi? Monopattini, televisori enormi e tutti i gadget più inutili sono a buon mercato, mentre l’essenziale, come una casetta in affitto, è fuori portata per la maggior parte dei ragazzi. E tenga conto che questa è una società che prende tutto quello che può, restituendo il meno possibile. È iperproduttivistica, cronofagica, panlavorista, e soprattutto ansiogena: ci fa correre, ma senza un obiettivo chiaro. Solo per stare a galla dobbiamo donarle tutto il nostro tempo. È il malessere del benessere».
La colpiscono altri paradossi stridenti?
«Uno in particolare. Ci sono aziende come Apple o Microsoft che hanno bilanci superiori a quelli di Paesi di media grandezza, e che con le loro innovazioni vanno a influire pesantemente nei processi sociali. La politica, giocoforza, si trova nella necessità di legiferare su scenari inediti di cui non riesce a cogliere la portata e le implicazioni recondite. Pensi all’intelligenza artificiale: sarà una rivoluzione che potrebbe assorbire milioni di posti di lavoro non meramente tecnico-ripetitivi. Se questa ipotesi si rivelasse una realtà, sarà indispensabile immaginare nuovi modi per ridistribuire il reddito. Per questo le nostre società sono in pericolo. È uno stallo che può risolvere solo la politica, purtroppo sempre più debole. Questo anche perché il processo di formazione della classe dirigente è molto inefficiente, mancando ormai una cultura comune che si è liquefatta».
Le chiedo una banalità, ci ripetiamo come un mantra: «Non abbiamo più ideali».
Ma sarà poi vero? «Sì. E le spiego anche perché. Noi sociologi ci siamo impegnati con successo per il superamento delle ideologie. Il problema è che insieme sono stati spazzati via pure gli ideali. In questo panorama planetario dove gli attori sono colossi, provo compassione per i sovranisti. Esaltano un cadavere: hanno un ritardo culturale che non permette loro di capire che l’idea di Stato-nazione, nata quasi quattro secoli fa dopo la pace di Westfalia, non può più funzionare. Pensano ai recinti quando ci vorrebbero ponti. Piuttosto ci si dovrebbe aggregare, davvero, non come la Ue, che ha una moneta sovrana ma non un sovrano. Il rischio è: quando la società è slabbrata, cosa resta? Trova un elemento di coagulazione in qualcosa che rieccheggia il fascismo: l’uomo, o la donna, della provvidenza. E tutto questo fa parte del processo di suicidio della democrazia al quale stiamo assistendo in tutto il mondo, e non solo da noi. È su questo tema che polemizzai con Giovanni Sartori e Norberto Bobbio, che riducevano la democrazia a pura procedura, di fatto impoverendola del suo significato più importante: soddisfare la sete di giustizia sociale e quindi di una più equa redistribuzione del reddito. Bobbio arrivò a dirmi: “Mio caro, chi vuole la democrazia deve accontentarsene”. Temo però che una equa redistribuzione sarà sempre più un tabù, anche perché senza più ideali, conta solo il soldo».
Vede altro di cui preoccuparsi?
«Be’, siamo nel bel mezzo della Terza guerra mondiale e facciamo finta di niente. L’unica via d’uscita, forse momentanea, sarebbe dialogare. Un tempo quando c’era una guerra, tutti si chiedevano: chi vincerà? Ormai non più. Sappiamo già che non vince nessuno e non serve a nulla. Sarebbe il tema giusto per un grande, profondo, universale dibattito, al fine di fare diventare la guerra un tabù assoluto, come l’incesto e il cannibalismo. Di cui le guerre sono la realizzazione in senso figurato».
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dal Corriere della Sera

Morto Franco Ferrarotti,

la sociologia come passione

di CARLO BORDONI
Scomparso a 98 anni lo studioso fondatore di riviste e corsi di laurea. Ottenne la prima cattedra italiana della disciplina, fu anche partigiano e lavorò con Adriano Olivetti
Se esistono dei primati nella sociologia italiana, Franco Ferrarotti, scomparso all’età di 98 anni, li ha conquistati tutti in pieno: più giovane professore ordinario di Sociologia alla Sapienza di Roma, quale vincitore nel 1961 della prima e (allora) unica cattedra di questa disciplina, fino a quel momento negletta per effetto dell’anatema crociano che l’aveva definita «inferma scienza». Ma anche fondatore di riviste e corsi di laurea (come quello in Sociologia dell’Università di Trento), deputato, diplomatico, traduttore, direttore editoriale e di ricerca, nel corso di una lunga e incessante attività che è stata giustamente definita poliedrica, per l’insaziabile varietà degli interessi e degli aspetti che ha toccato.
Di famiglia contadina, era nato a Palazzolo Vercellese il 7 aprile 1926 e aveva mostrato la sua indole battagliera fin dagli studi universitari a Torino, dove aveva studiato filosofia col professor Nicola Abbagnano. «Ero un ragazzo di campagna che va in città. — scrisse di sé — A ripensarci adesso mi faccio quasi pena. Avevo poca salute ma, come tutti i sopravvissuti, non mi mancava il coraggio né mi difettava l’ardire».
A Torino si era laureato a pieni voti nel 1949, con una tesi insolita e «divergente» rispetto alla rigida prassi di quegli anni e per questo rifiutata dal suo relatore, Augusto Guzzo, subito sostituito da Abbagnano, più aperto alle scienze umane: con lui discute del pensiero sociologico di Thorstein Veblen, autore di cui aveva tradotto La teoria della classe agiata per Einaudi, su invito di Cesare Pavese.
Insolita, trasversale, totalmente insofferente alle regole è stata tutta la sua carriera, dalla precoce esperienza bellica come giovane partigiano sulle Langhe, a collaboratore di Adriano Olivetti nell’impresa di Comunità; da studioso appassionato e sempre alieno alle controversie accademiche, a deputato nella terza legislatura, senza tessere di partito. Ma soprattutto viaggiatore.
In quasi mezzo secolo di nostre frequentazioni, per lo più epistolari, non una volta che Ferrarotti non fosse in partenza o in arrivo da qualche viaggio. Non aveva mai smesso da quando, appena laureato, si era imbarcato su una nave per l’America. Non come emigrante, al pari di molti della sua terra, ma come osservatore. Già sociologo nell’animo, voleva scoprire, testimoniare di persona e comprendere la realtà sociale, e per farlo bisognava uscire dagli uffici, dalle stanze foderate di libri, e andare sul posto.
Viaggiare e scrivere (con qualche concessione collaterale, tra cui la fotografia, di cui sono testimonianza le copertine della rivista «La Critica Sociologica») sono state le passioni della sua vita, dal primo libro del 1951, Premesse al sindacalismo autonomo (Comunità) , al più recente Un greco in via Po (Edizioni Dehoniane) del 2017, dedicato a Nicola Abbagnano, assieme agli altri della «tetralogia dell’amicizia» (Adriano Olivetti, Cesare Pavese, Felice Balbo). Un’ottantina di libri (il 22 novembre uscirà Lettera a un giovane sociologo per Bibliotheka Edizioni) e un numero imprecisato di articoli.
Dopo i primi tentativi degli anni Quaranta di pubblicare riviste, «Progredi» e «La rivoluzione umana: quindicinale della generazione nuova», Ferrarotti progetta e fonda nel 1951 i «Quaderni di Sociologia», rifacendosi ai «Cahiers» di Émile Durkheim, con l’aiuto della piccola casa editrice di Marian Taylor. Iniziativa lasciata presto al suo proficuo destino (sarà diretta da Luciano Gallino), preferendovi l’esperienza americana, malgrado l’opinione contraria di Olivetti e degli amici torinesi. Invece la successiva rivista, totalmente sua fin dagli inizi (1967) e ancora in corso di pubblicazione, è «La Critica Sociologica».
«Ho sempre avuto dentro di me l’esigenza di una rivista – ammette Ferrarotti in Un greco in via Po – di poter parlare alle persone conosciute ma anche, e più ancora, a quelle sconosciute attraverso un organo di stampa periodico, di cui fossi responsabile». «La Critica Sociologica» si è prestata perfettamente allo scopo, non solo pubblicando lavori di grande rigore scientifico, ma permettendogli un continuo dialogo in pubblico, intervenendo sui problemi di attualità e mantenendo vivo quello spirito critico che ha sempre contraddistinto il suo fondatore.
Quella di Ferrarotti è una sociologia qualitativa che rifugge dalla freddezza statistica e dalle indagini demografiche, come pure dall’aridità accademica degli studi specialistici rivolti agli addetti ai lavori. Ma anche dall’utilizzo politico delle ricerche, dalle commesse della grande industria e dei mercati. Memore dell’insegnamento di Max Weber, secondo il quale la sociologia non deve esprimere giudizi di valore per non compromettere la sua obiettività, Ferrarotti si è sempre dimostrato acuto osservatore, ma non per questo meno critico. E un po’ weberiano lo è sempre stato, come dimostra uno dei suoi studi più noti anche a livello internazionale, Max Weber e il destino della ragione (Laterza, 1965), dove tratta di razionalità, burocrazia e religione, tema quest’ultimo a cui ha dedicato molti lavori (Il paradosso del sacro, Laterza, 1983; Una teologia per atei, Laterza, 1984; Sacro e religioso. Dalla religione dissacrante al sacro fatto in casa (Di Renzo, 1997).
L’imprinting originale, quello che ha segnato per sempre la cifra critica di Ferrarotti, rimane comunque Thorstein Veblen: la passione giovanile, a metà tra l’aspirazione anarchica e il riscatto sociale, espressione dell’amore per gli Stati Uniti, terra di grandi ideali di libertà agli occhi di un giovane uscito dal fascismo e, insieme, critica a una nazione che, attraverso il consumismo vistoso della sua «classe agiata», perde di vista l’obiettivo di realizzare l’utopia moderna dell’uguaglianza sociale.
A lasciare una testimonianza fondamentale restano il suo insegnamento, di cui è stato maestro indiscusso, e i testi più significativi, tra cui La sociologia. Storia, concetti, metodi (Eri, 1961); il Trattato di sociologia (Utet, 1968), La società come problema e come progetto (Mondadori, 1979); L’ultima lezione. Critica della sociologia contemporanea (Laterza, 1999). Senza dimenticare Roma da capitale a periferia (Laterza, 1970), dal vago sapore profetico.

 

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