Omelie 2025 di don Giorgio: SESTA DOPO L’EPIFANIA
16 febbraio 2025: SESTA DOPO L’EPIFANIA
Is 56,1-8; Rm 7,14-25a; Lc 17,11-19
La mia domanda è la solita, quando mi accingo a preparare qualche riflessione per l’assemblea domenicale, tanto più che so quanto sia particolarmente e giustamente esigente. E questo non può che farmi piacere, perché mi stimola ancora di più a trovare quel qualcosa di divino, di cui la gente di oggi ha strettamente bisogno.
La domanda è: dopo aver letto i brani della Messa, e sapendo che ogni brano contiene qualcosa di profondo, in quanto è ispirato dallo Spirito santo, la mia preoccupazione non è quella di tener conto anche del contesto storico in cui viviamo?
Ci tengo a trarre delle riflessioni anche dal primo brano, di solito ingiustamente, per comodità, trascurato. Sembra che appartenga a un passato troppo lontano, dimenticando che solitamente la Liturgia ripresenta brani di Profeti che ai loro tempi hanno lasciato un segno, e che non mancano mai di provocare anche l’uomo di oggi.
Il primo brano fa parte del Terzo Isaia, un profeta anonimo, che ha svolto la sua missione dopo il ritorno degli ebrei dall’esilio babilonese.
La forte preoccupazione del Profeta è come aiutare questi ebrei tornati a casa a ricostruirsi come comunità. Lavoro non facile, visto che l’esperienza del passato, dopo la schiavitù egiziana, lo stesso Mosè perse anche la faccia davanti a Dio pur di stare dalla parte di un popolo dal cuore indurito, ingrato, e fu punito da conoscere la morte prima di entrare nella terra promessa.
Il brano di oggi è la visione che anima tutta la opera del profeta: l’inclusività e il senso di appartenenza. Forse potremmo anche invertire le due cose: prima il senso di appartenenza per poi aprirsi alla inclusività. In altre parole: più mi sento me stesso, scopro me stesso, approfondisco la mia fede dell’Unico Bene Necessario, più mi apro agli altri, ai cosiddetti stranieri o estranei al territorio in cui abito. Da qualsiasi parte provengano. Dire inclusività non significa accoglierli selvaggiamente (senza integrarli in senso positivo, aperti alla loro cultura o filosofia di vita) o prenderli opportunisticamente (perché ne abbiamo bisogno economicamente o perché qui da noi si fanno pochi figli).
Attenzione: il profeta addirittura parla di un Dio che si propone di “raccogliere tutte le nazioni” e persino di scegliere i suoi sacerdoti tra coloro che vengono da più lontano. Dunque, se l’inizio è una sorta di invito a riscoprire la propria vera identità, che va oltre i confini del proprio territorio, della propria cultura, la conclusione mostra un Dio che opera un rimescolamento della comunità di fede, attraverso l’immissione di persone esterne che ne diventano addirittura le guide. E qui l’attualità è anche sconcertante e allarmante.
Da noi sempre meno preti, parrocchie scoperte, ed ecco la domanda angosciante: da chi in un assai prossimo domani le nostre comunità cristiane saranno guidate, tanto più che sono rimaste così immature o rese sterili da un laicato mancante, indifferente, anche perché tutto sembra poco allettevole, poco edificante, poco incoraggiante? Con questo non intendo giustificare l’assenza del laicato, solo che noi preti abbiamo fatto ben poco per stimolare la gente ad assumersi le proprie responsabilità pastorali, al di là di una collaborazione solo o quasi pragmatista per attività del tipo culinario o di proposte solo pelle.
Già cento anni fa, don Primo Mazzolari in un libretto parlava del dovere di educare il laicato perché si prendesse a cuore la parrocchia, togliendo al prete (e allora i preti erano sovrabbondanti), certe incombenze che toglievano tempo prezioso per educare la gente ai valori eterni.
Qualche domanda: per quale comunità stiamo lavorando? Quale chiesa immaginiamo? Questa visione universale e inclusiva del popolo di Dio è alla base della nostra idea della chiesa di Gesù Cristo oggi?
E smettiamola di dire che, siccome siamo in crisi, allora prendiamo tutti e tutto per riempire il buco del nostro peccato di omissione. Ma la cosa grave è che gli stessi gerarchi, i cosiddetti pastori a capo della diocesi, vedi il nostro, non sembra siano particolarmente preoccupati di un problema, quello pastorale, che a breve metterà in ginocchio l’intera diocesi.
E c’è di più. Già gli antichi Profeti, quando parlavano di inclusività, di integrazione, di accoglienza dello straniero, usando la parola anche irritante “eunuco”, pensavano alle persone scartate perché invalide, ritenute anormali, e oggi diremmo anche alla dignità della donna in sé, allora ritenuta inferiore ai maschi, e il maschilismo durerà secoli e millenni, fino ad oggi: se è vero che assistiamo a un certo risveglio del mondo femminile, vediamo anche con tanta sofferenza e altrettanta delusione che la donna in carriera o al potere sembra un maschio rovesciato, o l’altra metà della medaglia, forse nel suo lato ancora più maschilista.
Ed ecco il grido del profeta: il Signore ascolta il desiderio e l’amarezza degli esclusi, e Dio stesso sembra rivendicare: se anche una norma fatta dagli uomini tiene lontane le persone dall’ambito religioso, Lui è al di là di queste norme umane! La fede nasce anche da un desiderio di essere amati e accolti nella propria diversità, e Dio non accetta che la religione con le sue esclusioni si frapponga fra l’essere umano e la sorgente della vita.
Tra l’altro le norme che vengono date sono molto ampie e si riferiscono a una spiritualità capace di giustizia. Il sabato per un ebreo e la domenica per un cristiano contengono infatti il rispetto del tempo del riposo e della preghiera, un rapporto con Dio profondo e continuamente ricercato e rimesso al centro della propria vita.
Ma il sabato per un ebreo era diventato un peso tale da opprimere la coscienza o la dignità dell’essere umano: ricordiamo le parole di Cristo: “il sabato, ovvero la legge, è per l’essere umano e non viceversa”. E così la domenica per un cristiano: la Chiesa istituzionale lungo i millenni riuscirà a fare della domenica qualcosa di ancor peggiore di quanto avevano fanno gli ebrei!
Basterebbe dire che la domenica, il Giorno del Risorto, è giorno di Grazia e luce, da vivere così, e allora tutto cambierà nell’essere umano, che potrà far valere i propri diritti/doveri in quanto figlio di Dio.
Il problema è che con il progresso le cose possono cambiare, ma si tratta di vedere la natura del progresso: un progresso solo materialistico (che dà cose in più) o solo tecnologico (che fa uso di mezzi tali da produrre di più), saremo schiavi della legge del mercato, il vero progresso è un cammino spirituale, quando cioè si alleggerisce la realtà del nostro essere più profondo, e solo così riscopriremo la nostra libertà. Ma se ciò non succederà non diamo solo la colpa a una società balorda, diamo la colpa anche a strutture religiose che opprimono la coscienza dei propri sudditi, sempre in vista della conservazione del potere autoritario.
Commenti Recenti