La pedofilia del confessionale

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di don Giorgio De Capitani 
Se oggi come semplice cittadino si ha il dovere, diciamo l’urgenza, di ri-pensare un po’ tutto, nel senso di tornare alla fonte del pensiero genuino – ri-pensare dunque l’essere umano, e di conseguenza la società in cui viviamo – come credente si ha ancor più il dovere di ri-pensare la propria fede, se è vero che il Divino è nell’essere umano in quanto tale.
Ri-pensare la fede comporta rivedere il nostro modo di pensare il Divino. E qui ci si scontra inevitabilmente con la religione, e, nel caso concreto, con la Chiesa cattolica. Non basta soffermarsi sul come dovrebbe essere: è facile, in nome del “come”, giustificare ciò che essa è in realtà, dicendo che l’ideale è ideale e che si fa ciò che si può.
È la realtà che mi preoccupa, ma non tanto nella mancanza di efficientismo o nel venir meno di quel qualcosa di strutturale che mette in crisi, appunto, la struttura della Chiesa in quanto religione.
Il qualcosa che non va – da mettere in crisi in modo radicale – è la struttura in se stessa. Quindi, ad esempio, non si tratta di studiare una ri-evangelizzazione sacramentaria, partendo sempre dal fatto che i sacramenti istituzionali siano intoccabili e che perciò da cambiare sarebbe solo l’aspetto organizzativo, o rituale, o tempistico.
Tutti i sacramenti in quanto tali vanno ri-pensati, e riletti alla luce del messaggio radicale di Cristo, ancor prima che tale messaggio venisse strutturato sulla Chiesa gerarchica. E questa strutturazione è potuta succedere fin dagli inizi, a pochi decenni dalla Pentecoste. Tutti i sacramenti, chi più chi meno, hanno subìto una lunga evoluzione, fino a raggiungere deformazioni tali da coprire il nudo messaggio di Cristo.
Vorrei soffermarmi sul sacramento della Confessione o della Riconciliazione che, più di ogni altro sacramento, ha avuto una storia che definire incredibile sarebbe eufemistico. Una storia così complessa e oscura che mi è difficile tentare anche solo di farne una sintesi. Tuttavia cercherò di dire qualcosa, anche se ciò che dirò darà solo una pallida idea di ciò che lungo i secoli ha subìto questo “rito ecclesiastico”, che definire sacramento istituito da Cristo, questo sì meriterebbe una scomunica.
Non mi dilungo eccessivamente nel dire anche solo qualcosa sul rapporto tra Dio e la sua creatura: rapporto di misericordia e di perdono. Naturalmente anche Cristo ha evidenziato questo aspetto, anzi è andato oltre ciò che oggi diremmo “puramente religioso”. Cristo ha tirato in ballo la coscienza, ed è qui, nella coscienza, nel proprio essere profondo, che avviene quel dialogo umano-divino, in cui nessuna istituzione ha il diritto di introdursi, se non con quella delicatezza rispettosa che, comunque, è difficile, estremamente difficile che possa risiedere in un qualsiasi sistema, religioso o civile.
Dunque, nei primi secoli non si conosceva affatto quella confessione “individuale” che conosciamo oggi. Chi peccava se la vedeva con il proprio vescovo, il quale, più che rimettere di persona i peccati, invocava Dio perché fosse lui a concedere la grazia del perdono. Il vescovo faceva da tramite. La confessione era “pubblica”, non tanto nella confessione dei peccati, ma nella penitenza che, notiamolo subito, veniva imposta prima che effettivamente venisse concesso il perdono. Soprattutto tre erano i peccati che meritavano una dura penitenza pubblica: l’omicidio, l’adulterio e l’apostasia. Durante le persecuzioni del terzo secolo, in conseguenza anche di un certo lassismo, ma soprattutto per la paura delle conseguenze (a chi non abiurava venivano confiscati i beni, era esiliato o ucciso), capitava spesso che qualche cristiano cedesse di fronte alle minacce, rinnegando il proprio credo. Erano i cosiddetti “lapsi” (coloro che erano caduti nell’apostasia), a cui si concedeva una sola possibilità di ravvedimento con il relativo perdono. Se tradivano la fede una seconda volta, non potevano più essere riammessi nella Chiesa. Passate le persecuzioni, con il trascorrere del tempo, i vescovi delegarono i propri preti ad assolvere i peccati, non più in quanto intercessori della misericordia di Dio, ma in forza di un potere che veniva loro concesso. La confessione da pubblica diventò sempre più “privata”. E così si arrivò alla confessione “tariffata”, cosiddetta perché ogni peccato contraeva, in sostanza, un debito verso Dio, che andava pagato secondo un “prezzo” o “tariffa” penitenziale stabilita o quantomeno indicata a priori, e questo per evitare che si verificassero diversi trattamenti di fronte allo stesso peccato. Beh, non sto qui a dirvi il grottesco di una simile visione del peccato e del suo perdono. Ma il colmo doveva ancora arrivare, quando si stilarono lunghissimi elenchi di tutti i peccati possibili, e ad ogni peccato la relativa penitenza. Se all’inizio la remissione dei peccati, da parte di Dio o del vescovo o del prete incaricato, avveniva solo dopo la penitenza come prova di un serio ravvedimento, ora la penitenza avveniva dopo il perdono. Non vorrei parlare poi delle indulgenze annesse alla penitenza: dire indulgenza è dire la più grossa balla che sia mai stata inventata dalla Chiesa!
Parlare di penitenze non può che farci pensare anche alle grandi opere caritative (ospedali ad esempio) e alle cattedrali, di cui ancora oggi ammiriamo l’imponenza. Saremmo tentati di esclamare, come Sant’Agostino nei confronti del peccato originale: “Felix culpa”! Ma la colpa, purtroppo, non consisteva nell’aver toccato il proprio pisello o nell’aver desiderato la donna d’altri, ma in crimini o omicidi, o ingiustizie paurose!
Passò più di un millennio prima che la Chiesa regolamentasse quella che oggi chiamiamo confessione “privata”. Basterebbe risalire a qualche decennio di anni fa per renderci conto fino a quale degrado fosse arrivata la confessione individuale o auricolare. Chiamarla maniacale sarebbe un complimento. E la Chiesa taceva, approvava o, meglio, sosteneva, spingeva a confessarsi frequentemente, anche giornalmente, ad ogni minima mancanza, ad ogni minimo dubbio. Indimenticabile il terzo precetto, ancora vigente: “Confessarsi almeno una volta all’anno e comunicarsi a pasqua”. Siamo nel ridicolo più grottesco!
Alcune considerazioni. Perché non rivalutare l’Atto penitenziale che c’è all’inizio di ogni Messa? Se, come sostiene la Chiesa gerarchica, la Confessione è indispensabile per i peccati gravissimi (peccati “mortali”!), che senso ha confessarsi per le solite piccole mancanze? Dice la teologia sacramentaria: se non c’è materia grave, non si può dare l’assoluzione. E allora? Comunque, ben venga la direzione spirituale, ben venga tutto un cammino di perfezione umana prima che cristiana.
Ma ciò che soprattutto mi preme contestare è la confessione sacramentaria che vorrebbe coinvolgere anche i bambini. Ed è qui che le mie parole si fanno feroci. So che il titolo che ho dato a questo articolo: “La pedofilia del confessionale” è forte, ma rende un po’ l’idea. Se la confessione andrebbe ri-pensata per gli adulti, per i piccoli andrebbe abolita. Altro che dedicare un anno intero per la prima Confessione in preparazione alla Prima Comunione! Quando ero a Monte, d’accordo con le catechiste, non avevo mai permesso una simile mostruosità pedagogica. Che anche ai bambini bisogna far capire che esiste il dovere, sono più che d’accordo. E se c’è un dovere, c’è anche la possibilità che vi si venga meno. Già da piccoli bisogna educare ai valori umani. Certo, c’è il dovere di pregare il Signore, ma non meno importante è il dovere dello studio, il dovere familiare, il dovere di rispettare gli altri, di rispettare l’ambiente naturale. Ma i primi confessori devono essere i genitori, gli insegnanti, gli educatori, tra cui anche il prete, ma non in quanto ministro della Confessione cosiddetta sacramentaria. Perché sottoporre i piccoli a questa specie di supplizio diseducativo?
Parlando di pedofilia del confessionale, non penso solo a ciò che talora e spesso nel passato (e magari ancora oggi) succedeva in quel tetro bugigattolo (toccamenti vari, ecc.), poco importa se il crocefisso era lì sulla parete a guardare. Ma penso anche al semplice fatto di torturare la coscienza di un ragazzino sottoponendolo ad un esame, inutile e dannoso. Un esame talora da inquisizione. Sempre in senso moralistico. E, il sesto comandamento era sempre in prima fila. Ho assistito da prete giovane alla preparazione della confessione per bambini, con esami di coscienza davvero allucinanti. Questo che cos’era? Una sorta di morbosità pedofila!
Non solo per questi aspetti, sono assolutamente in disaccordo che i ragazzi vengano sottoposti alla confessione individuale. Dobbiamo smettere di confessare i ragazzi! Ci sono altri modi, ad esempio una preparazione pubblica e la richiesta di perdono al Signore, sempre pubblica.
Ciò che ritengo importante è questo: occorre far capire a partire dai nostri ragazzi il valore del dovere, la cui manchevolezza non ricade su Dio, ma sulla crescita umana di chi la compie. Quando si viene meno ad un dovere – e il dovere non sta tanto in una legge fissata dagli uomini o dalla religione, ma è insito nella propria natura umana – a subire le conseguenze è il nostro essere. Qui sta il punto. Il peccato non va visto in rapporto a una legge divina in quanto tale, ma in rapporto alla dignità di ciascuno di noi, dove risiede il divino, che è tutt’uno con il nostro essere.
NotaBene. Per chi volesse approfondire l’evoluzione della Confessione nella storia della Chiesa, può leggere questo articolo.

 

 

 

 

4 Commenti

  1. Libero ha detto:

    Ha ragione don Giorgio. La confessione è cosa da adulti. A me molti anni fa è capitato così, dato che non sapevo più da dove cominciare. Il prete mi ha fatto sedere e ha aperto il vangelo e ha letto l’episodio in cui Gesù chiede ai suoi cosa pensassero di lui, poi mi chiede: cosa è per te Gesù? Io non mi ricordo neppure ben cosa ho risposto, e lui mi ha incalzato: lo senti come importante nella tua vita? Lo conosci abbastanza? Leggi il Vangelo? In che cosa ti senti questionato? Potresti dire che lo confessi come Signore della tua vita, delle tue scelte, delle tue azioni? E poi: nella tua vita, tu ringrazi? Dimmi almeno cinque cose belle che ti sono capitate nella tua vita, per cui ti metteresti a cantare per la felicità. E altre cinque che ti sono capitate nell’ultima settimana, per cui senti davvero che devi ringraziare Dio e la vita. Ed ora, se te la senti, pensa a qualche cosa, a qualche atteggiamento, a qualche parola, a qualche sentimento del tiuo passato, di cui provi rimorso e vergogna. E chiediamo insieme che Dio ti perdoni, come ti ha già perdonato. Te la senti di assumere come impegno quello di conoscere sempre di più la proposta di Gesù, leggendo per esempio ogni giorno qualche pagina di Vangelo, meglio ancora se trovi una comunità che ti aiuti a farlo e che tu possa aiutare? Poi, mi ha letto non mi ricordo più quale salmo. E mi ha tracciato il segno della croce e congedandomi mi ha detto: va in pace che il Signore ti ama. Da allora, quando mi confesso cerco di impostare la mia confessione così. Quamche prete resta un po’ interdetto, ma poi accetta.

  2. Giuseppe ha detto:

    Ho sempre guardato con sospetto la confessione, così come è strutturata. Probabilmente anche per un senso (forse sbagliato) di riservatezza e di vergogna, nel raccontare cose negative di me a qualcuno che mi avrebbe dovuto… “giudicare”. Da giovane, mi capitava di tanto in tanto di fare delle lunghe chiacchierate con qualche prete, non necessariamente della mia parrocchia, e da questi incontri uscivo molto più rinfrancato e arricchito interiormente che non dopo una confessione, per quanto fatta “a regola d’arte”. Anche successivamente, da adulto, ho sempre trovato più liberatorio e “sano” un dialogo, un incontro, uno scambio di idee sugli argomenti più disparati, fatto con franchezza e senza reticenze e senza alcun pregiudizio o “censura preventiva”. Penso che ai preti, specialmente quelli più giovani, o quelli fortemente tradizionalisti, sia stato assegnato un compito ben gravoso, se non addirittura improbo, rendendoli ministri della confessione. So di sacerdoti che si sono rifiutati di dare l’assoluzione, perché spiazzati dal tipo di peccato di cui venivano a conoscenza o per un eccesso di severità, specialmente di fronte a un penitente giustamente restio a scendere nei particolari per atti attinenti alla sessualità (forse in questo caso c’è anche un eccesso di morbosità?). Mi chiedo: ma non dovrebbe essere Dio a concedere il perdono? E il ministro non dovrebbe limitarsi ad invocare la grazia della remissione dei peccati al peccatore pentito?
    E infine la domanda delle domande, anche se mi rendo conto perfettamente che si tratta di una provocazione. Per quale motivo esistono, e a che servono i “cinque precetti generali della chiesa”? Non mi pare che abbiano a che fare con la missione che Gesù Cristo ha assegnato agli apostoli, o sbaglio?

  3. GIANNI ha detto:

    I sacramenti nella loro storia hanno conosciuto, lungo i secoli ed i millenni, una trasformazione, riflettendo di volta in volta le concezioni dei tempi e delle diverse confessioni.
    A me pare di scorgere alcune fondamentali contraddizioni tra la concezione sottostante alla Confessione e la teologia che si basa sui concetti di onnipotenza e, ancor più, onniveggenza di Dio:
    se Dio conosce tutto, passato, presente e futuro, come si può ammettere il libero arbitrio?
    E se quindi non ci fosse libero arbitrio, non avrebbe neppure senso parlare di peccato.
    Anche ammettendo, comunque, libero arbitrio e peccato, visto che Dio sa tutto, compresi peccati e pentimenti, a cosa serve la confessione?
    Probabilmente solo a giustificare una sorta di ingerenza, tipica di secoli passati, della chiesa istituzione e stato, nella vita dei singoli, quando conoscere i “peccati” era utile anche al fine di conoscere cospirazioni e complotti, magari contro lo stato della chiesa, e visto che poi l’obbligo di riservatezza da parte del confessore, quando faceva comodo, non era rispettato……come ci viene insegnato anche dalla storia dello stato del Vaticano……
    Va infatti ricordato che non tutti i peccati sono assolvibili tramite la confessione, in quanto alcuni più gravi richiedono la dispensa papale, tra cui la violazione del segreto confessionale, in relazione ad un atto emanato da un organo tuttora vigente, la Penitenzieria apostolica.
    Avevo letto in un libro, che purtroppo ho misteriosamente perso insieme ad altri(ma questa è un’altra storia..), che capitava che quando un sacerdote venisse a sapere, durante una confessione, di un complotto contro lo stato del Vaticano, lo rendesse noto, per tutelare l’integrità statale del Vaticano medesimo, e richiesta la dispensa tramite la penitenzieria apostolica, o altro analogo istituto forse all’epoca diversamente nominato (parliamo dell’Italia preunitaria), la ricevesse, praticamente per ragion di stato.
    Da qui si comprende agevolmente il ruolo istituzionale del confessore.
    Infine, ecco una riflessione che si riallaccia al tema di un precedente articolo sull’onestà e sull’obbligo di denuncia.
    Proprio a tale riguardo, viene talora a crearsi un pesante dissidio nella coscienza del confessore tra cittadino onesto e sacerdote, qualora venga a conoscere della commissione di fatti che non sono solo peccati, ma reati.
    Pensiamo all’omicidio.
    Se un confessore viene a conoscere di fatti commessi da un omicida, che magari potrebbe commettere altri omicidi?
    E’ comunque tenuto al segreto confessionale, tanto che anche la legge italiana sancisce che non possa essere interrogato su fatti conosciuti tramite la confessione.
    Ma, come cittadino, potrebbe avere sensi di colpa, soprattutto quando chi ha confessato commetta poi altri omicidi, di cui potrebbe sentirsi moralmente colpevole.

  4. dottginkobiloba ha detto:

    come si spiega allora che papa francesco si confessa ogni 15 giorni ? io ho aumentato la frequenza al confessionale proprio partendo da questo esempio

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