Fuga degli infermieri dal Nord Italia, meno iscritti ai corsi di laurea: «Turni massacranti e stipendio basso»

dal Corriere della Sera

Fuga degli infermieri dal Nord Italia,

meno iscritti ai corsi di laurea:

«Turni massacranti e stipendio basso»

di Elisa Campisi
Stipendio basso, turni di lavoro massacranti e prospettive di carriera ridotte. La professione infermieristica non attira più. Le domande di accesso ai corsi di laurea sono diminuite del 10% e sempre più infermieri lasciano il Nord per tornare al Sud
Basse retribuzioni, turni massacranti, riposi che saltano e un elevato carico di stress. È la realtà quotidiana di tanti operatori sanitari e in particolare degli infermieri. Tutto questo, unito all’aumento del costo della vita, potrebbe essere all’origine della disaffezione verso le professioni infermieristiche. Rispetto allo scorso anno accademico, le domande di accesso ai corsi di laurea del settore sono diminuite del 10%. A evidenziarlo è il report della Conferenza nazionale dei Corsi di Laurea delle Professioni sanitarie. Il calo maggiore si registra al Nord e al Centro (-14% circa). In alcuni atenei, per la prima volta le richieste non raggiungono il numero di posti a bando. È il caso dell’ateneo genovese, che al corso di scienze infermieristiche quest’anno si trova con 460 posti a fronte di 448 candidati.
Per Antonio De Palma, presidente nazionale del sindacato Nursing Up, la politica negli ultimi tempi non ha fatto niente «per ricostruire l’appeal di una professione che appare decisamente allo sbando». Tra le varie problematiche sollevate dal sindacato c’è per esempio quella della retribuzione. Non è un caso, infatti, se a calare sono soprattutto le domande d’iscrizione nelle regioni in cui la vita è più cara. Oltretutto – segnala ancora il sindacato – decine di infermieri già in carriera si dimettono dagli ospedali del Nord per tornare ai paesi d’origine.
A Bologna, per esempio, i numeri dell’Ausl parlano di almeno 40 dimissioni di infermieri solo negli ultimi tre mesi. Ma perché se ne vanno? Lo spiega al Corriere Emanuela Iacono, un’infermiera siciliana di 34 anni che nel 2019 ha deciso di lasciare Bologna per andare a Modica, nel Ragusano. «Lavoravo ben oltre le 40 ore settimanali. Spesso saltavo i riposi. Abitavo in un monolocale di 35 metri quadri che pagavo 600 euro al mese. Lo stipendio era di circa 1.600 euro. Troppo poco per mettere su famiglia», racconta. Iacono non si è mai pentita della sua scelta. Ha lasciato un contratto a tempo indeterminato per un altro di soli tre mesi: «All’inizio non avevo alcuna certezza di riuscire a restare giù, ma almeno lì avrei avuto l’aiuto della mia famiglia e non avrei più pagato un affitto». Anche il compagno di Iacono è un infermiere. Ha lasciato la Liguria, dove era cresciuto, e ha ricominciato da zero: «Per lui è stato più complicato. Quando si è licenziato non aveva ancora trovato un lavoro in Sicilia. Poi ha iniziato nel privato, ma qui pagano molto meno rispetto al Nord». A conti fatti, però, Iacono non ha dubbi: «Nonostante le difficoltà, qui riusciamo ad avere un tenore di vita nettamente superiore e soprattutto abbiamo potuto realizzare il sogno che coltivavamo da tempo. Nostro figlio adesso ha quasi 3 anni».
Anche l’infermiera Asmara Baire, 35 anni, se ne è andata dall’Emilia-Romagna circa 4 anni fa per tornare nella città di origine, Teramo: «Prima ero stata a Reggio Emilia, poi Milano, Fabriano, sempre da precaria. A Bologna, finalmente mi avevano assunta a tempo indeterminato e mi piaceva stare lì». Viveva in una casa in condivisione. Per una stanza pagava 420 euro di affitto al mese. «Me ne sono andata a malincuore – racconta – . Ma per rimanere avrei dovuto fare troppe rinunce. Anche uscire la sera con gli amici o andare in vacanza ogni tanto stava diventando impossibile».
Baire, una volta a Teramo, ha iniziato persino a mettere da parte un po’ di risparmi per comprarsi una casa. La sua storia e quella di Iacono con il suo partner hanno avuto un lieto fine. Un finale peggiore potrebbe toccare invece alla sanità del Nord Italia, se la carenza degli infermieri arriverà a pregiudicare la qualità delle cure.
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dal Corriere della sera

Carenza di personale sanitario:

cosa si può cominciare a fare

di Giuseppe Milanese *
In attesa di riforme che richiedono tempo si può adeguare la formazione di professionalità presenti
Una casa disabitata si riduce a quattro mura in piedi. Una scuola priva di docenti è una comune sterile. Una caserma che manca di soldati diventa il simbolo della resa. Il sillogismo vale anche per la sanità, nelle diverse articolazioni in cui deve servire la comunità di un Paese. Il recente Rapporto CREA (Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità dell’Università di Roma Tor Vergata), studio giunto alla 18° edizione, illustra proprio questo crinale: «Senza riforme e crescita, Ssn sull’orlo della crisi». Su quell’orlo è cruciale la questione del personale, dibattuta ormai innumerevoli volte nel corso degli anni stravolti dal Covid e poi fino ai nostri giorni. I dati sono impressionanti: perché l’Italia si adegui ai cosiddetti «Paesi benchmark», si dovrà colmare un vuoto di 30 mila medici e 250 mila infermieri. E ciò stando all’attuale assetto sanitario, incentrato sull’ospedale e quindi non ancora equipartito tra assistenza ospedaliera (a cui destinare le acuzie) e assistenza primaria o territoriale (deputata a curare le cronicità).
È evidente che quella che fino ad ora è stata considerata un’urgenza – all’italiana, della categoria delle urgenze permanenti – sarà a stretto giro superata da un grado ulteriore di pressione, anche per l’impatto che avrà il Ddl delega per gli anziani, encomiabilmente approvato dal Governo lo scorso 19 gennaio in attuazione del Pnrr. Nel testo è indicata tra le priorità l’assistenza domiciliare, punctum dolens del sistema della salute italiano, diventando spiccatamente difficile assistere i malati a casa se non si dispone di operatori sanitari. Acclarato che all’Italia mancano medici e infermieri per le cure ospedaliere, assodato che ne mancheranno molti di più per strutturare un adeguato sistema di cure domiciliari, come si risolve un così grande problema? Cassando i test di ammissione alla facoltà di Medicina, dischiudendo le porte delle scuole di specializzazione, invogliando professionisti sanitari con i tanto attesi aumenti di stipendio? Iniziative certo necessarie, ma non immediatamente risolutive.
Mentre la Fnopi (Federazione Nazionale Ordini e Professioni) si attrezza intelligentemente per delineare un’autoriforma radicale, tarando ruolo e funzioni dell’infermiere verso una super specializzazione, si provveda in parallelo a normare la formazione dell’operatore sociosanitario specializzato (Osss), per il quale il perfezionamento sia utile a farsi carico delle funzioni infermieristiche di base, così come già accade in alcune Regioni italiane. Un processo qualificante che andrebbe focalizzato tanto sulla professionalizzazione tecnica, quanto sull’umanizzazione delle cure e che sbroglierebbe la matassa nel breve periodo, consentendo all’Italia di allinearsi ai Paesi più evoluti e restituire dignità a una generazione che merita rispetto.
* Presidente Confcooperative Sanità

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