Gian Maria Volontè, l’eretico del ’68

da AVVENIRE
15 novembre 2018
Il personaggio.

Gian Maria Volontè, l’eretico del ’68

Massimiliano Castellani
Una nuova biografia di Capozzoli rielabora il ritratto dell’attore più politico e scomodo del cinema italiano. Il suo “Metodo”, unico, andrebbe visto e studiato dalle nuove generazioni
È possibile che un solo attore con la sua bella faccia scolpita, impressa a fuoco sul grande schermo, abbia vissuto e visto passare su un set la storia del nostro Paese, comprese quasi tutte le rivoluzioni, e le vite dei maggiori ribelli, anarchici e sognatori? La risposta è sì. Quell’uomo verticalissimo è stato Gian Maria Volonté. Un gigante del cinema che abbiamo appena “ritrovato” in tutta la sua essenza attoriale ed esistenziale, nella stupenda biografia Gian Maria Volonté (Add editore. Pagine 331. Euro 19,00), scritta da Mirko Capozzoli. Una storia per niente semplice, quella del più “sciasciano” dei nostri attori. Per lui recitare era una «missione», cominciata a 18 anni – in una Torino che si interrogava sul suicidio di Cesare Pavese – debutto: in teatro, nell’Antigone di Anouilh, andata in scena al dopolavoro ferroviario di via Sacchi 65. Per il pupillo del maestro Orazio Costa quello è stato il battesimo artistico, 1951. L’inizio di un cammino in cui il teatro ne fece il portavoce del movimento sessantottino che anticipò con Il vicario di Rolf Hochhuth, pubblicato in Italia da Giangiacomo Feltrinelli, adattamento teatrale di un altro ribelle delle scene, Carlo Cecchi. Pièce ferocemente criticata, contestatissima, bollata come «pericolosa», dai perbenisti imperanti di quella «piccola borghesia» che Volontè ha sempre combattuto. E lo ha fatto a muso duro, come quello di Ramón Rojo, il pistolero di Per un pugno di dollari di Sergio Leone. Il western all’italiana (poi girò anche Per qualche dollaro in più), genere di cassetta («il western atipico Vento dell’est di Jean Luc Godard fu un’altra cosa, nel cast anche Daniel Cohen-Bendit, leader del Maggio francese», osserva Capozzoli) che gli servì per riempire le casse familiari.
Ma non era né al denaro né al cielo che guardava, ma all’amore per il proprio mestiere di «attore-artigiano» che con la compagnia del “Teatro di strada” lo portò a occupare fabbriche e a sostenere la lotta operaia. Il cinema invece gli permise di di denunciare fatti e misfatti della grande Storia (nel ’68 interpreta I sette fratelli Cervi), senza mai perdere di vista le microstorie del suo tempo («di quell’anno è anche Banditi a Milano di Carlo Lizzani). Tutti gli riusciva in maniera magistrale, entrando e uscendo dal personaggio, impossessandosene, grazie al “Metodo Volonté”, quello che alle nuove generazioni consigliamo di studiare, guardare e poi mandare a memoria. Uno studio meticoloso che partiva dalla «concentrazione assoluta». Uno stato di trans indotto rispetto al mondo reale, con la foto del personaggio fissata nella stanza e nella mente, per poi sistemarla con cura nella valigia dell’attore. Soggetti di fantasia che per le «circostanze» storiche spesso si materializzavano al centro del-l’attualità, con annesso dibattito. A partire da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) dell’amato Elio Petri («passione e fusione rara e reciproca tra attore e regista», sottolinea Capozzoli) in cui il funzionario di Polizia Volonté per l’opinione pubblica era «troppo associabile » al commissario Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972, il quale a sua volta era stato “condannato” da gran parte della stessa opinione pubblica per la “morte accidentale” dell’anarchico Giuseppe Pinelli (15 dicembre 1969). Ogni sua interpretazione è stata una precisa presa di posizione politica. Volonté, per primo ha posto la centralità dell’attore che «non è un oggetto» dell’industria cinematografica. Fellini fu tra i tanti registi che non riuscì a strappargli il sì, neppure dinanzi all’offerta irrifiutabile di 400 milioni di vecchie lire per girare Casanova.
Fino all’ultimo respiro (è morto nel 1994 sul set de Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopulos) ha scelto l’anarchia che si ritrova in Sacco e Vanzetti (regia di Giuliano Montaldo, 1971), la rivolta proletaria (per sei mesi è stato consigliere regionale del Lazio, eletto nelle liste del Pc di Enrico Berlinguer) di Lulù in La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, 1971). Ha dato volto e voce a uno dei tanti misteri italiani, Il caso Mattei. Ha diviso laici e fervidi credenti con la sua innata eresia nel Giordano Bruno ( 1973) di Giuliano Montaldo e ancora nel confronto, anche “estetico” con Marcello Mastroianni («ognuno dei due desiderava essere l’altro») in Todo modo (1976) sempre diretto da Elio Petri. Film questo, in cui Volonté ridisegna, con il suo “Metodo”, il profilo discusso e discutibile di Aldo Moro. Il suo addio al cinema italiano lo diede con Sciascia, in Una storia semplice di Emidio Greco (1991). Anche malato, restava il nostro miglior poeta della recitazione, così come lo è stato anche Pier Paolo Pasolini dietro la macchina da presa, il quale nel ’68 l’aveva interpellato per proporgli un film su San Paolo. Progetto rimasto nel cassetto assieme a L’aspettativa,«la prima regia di Volonté, che però non vide mai la luce». La luce si spense per un po’ nel suo cuore alla morte del fratello minore Claudio, aspirante attore e poi giovane esponente politico di primo piano dell’Msi: si suicidò (nel 1977) in carcere dove era recluso per omicidio (un tragico incidente passionale). La luce la riaccese nella lotta, per le basse forze con Cristo si è fermato a Eboli ( 1979) di Francesco Rosi, e dalla parte dei dannati della terra, come i cileni di Miguel Littin (per il quale recitò in Actas de Marusia: storia di un massacro). La rabbia civile non mancò mai, neanche nel suo cestino da pranzo sul set. Se ne è andato guardando il mare (è sepolto alla Maddalena) e nel messaggio in bottiglia – indirizzato a tutti gli spettatori in sala di oggi – ha messo i versi di Paul Valery, “Le vent se lève… il faut tenter de vivre”: «Si alza il vento… bisogna tentare di vivere».

 

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