Intellettuali: umanisti vs tecnocrati

da https://rivista.vitaepensiero.it

Intellettuali: umanisti vs tecnocrati

15.03.2025
di Alberto Manguel
Non da oggi mi interrogo sul ruolo che dovrebbero avere gli intellettuali nella nostra società e sul ruolo dei libri e della lettura. I tecnocrati hanno decantato l’idea di un chip da impiantare nel cervello, che scaricherà testi elettronici direttamente sui nostri neu¬roni, scavalcando i rituali e le strategie dell’apprensione di un testo scritto. O forse delegheremo il compito della lettura all’IA? Si tratterebbe di un ulteriore passo verso quella rinuncia ai diritti e alle responsabilità che accompagna ogni atto intellettuale e creativo.
Ma partiamo da lontano, dal 24 marzo 1977, quando durante la dittatura Rodolfo Walsh, scrittore e giornalista, pubblicò una lettera aperta indirizzata alla giunta militare argentina in cui denunciava senza tentennamenti «le 15mila persone scomparse, le 10mila persone imprigionate ingiustamente, i quattromila morti, le decine di migliaia di cittadini costretti all’esilio». La lettera si chiudeva così: «Questi sono i pensieri che nel primo anniversario del vostro sventurato governo ho voluto indirizzare ai membri di questa giunta, senza nessuna speranza di essere ascoltato, certo di essere perseguitato, ma fedele all’impegno da me assunto tanto tempo fa di essere testimone in tempi difficili».
Ciò accadeva quasi 50 anni fa e i “tempi difficili” hanno cambiato protagonisti e trame, ma non sono finiti. Dove sono, nelle nostre cosiddette democrazie, le voci squillanti, coerenti, irrefutabilmente critiche della nostra epoca, che non denunciano semplicemente i fatti ma ragionano sulle cause di quello che accade?
Fin dall’antica Atene, essere testimoni attivi in tempi difficili è un dovere del cittadino, parte della propria responsabilità civica. Alle leggi e ai regolamenti dello stato, il singolo individuo deve contrapporre di continuo domande: è nella tensione (o dialogo) tra quello che è stabilito dal “trono” e quello che si contesta dalla strada che deve vivere una società. Questa attività civile – che Marx nelle sue Tesi su Feuerbach del 1845 chiamò attività “pratica-critica” – è ciò che Walsh ritenne contraddistinguere l’intellettuale.
Questa funzione, tuttavia, non è e non deve essere una prerogativa esclusiva di scrittori riconosciuti: ogni singolo essere umano deve saper pensare universalmente. Talvolta, l’intellettuale degno di nota è l’Uomo Qualunque. Questi uomini e queste donne potrebbero essere inconsapevoli del ruolo che hanno assunto (e di solito lo sono) dando voce a un pensiero etico, testimoni critici spontanei della loro epoca.
Quel che ci occorre adesso sono proprio intellettuali impegnati di ogni parte che parlino chiaro e forte della nostra attuale situazione. È indispensabile che, giorno dopo giorno, notte dopo notte, ci venga ricordato che l’essenza dell’Utopia è la sua inesistenza e che responsabilità degli intellettuali non è escogitare una società utopistica che non si realizzerà mai, ma farsi ascoltare per migliorare la società che già c’è, aggrappata in modo traballante a questa terra. Questo può essere ottenuto, almeno in parte, mostrando a noi tutti che lo abitiamo lo specchio con l’immagine riflessa del mondo quale è, facendoci vergognare delle storture in atto al punto da farci passare all’azione.
Forse gli intellettuali ci sono, sono qui, ma non ne sentiamo ancora con chiarezza la voce, né ne vediamo lo status reale. Forse, essendo contemporanei, siamo troppo vicini, mentre per individuare i Voltaire e i Socrate di oggi occorrerebbe la distanza di un secolo o due. In aggiunta a questo svantaggio della vicinanza, oggi soffiamo di un altro svantaggio, più grave, che smorza le loro voci, ovunque essi siano come confidiamo che siano. II XXI secolo è l’epoca dell’incredulità nel mondo.
Forse, per la prima volta nella storia, la “parola” non è considerata lo strumento della ragione che ci permette di valutare e trasmettere l’esperienza nel modo più preciso possibile. Ambiguità, incertezza, approssimazione sono sempre state caratteristiche del nostro linguaggio ma, a dispetto di queste debolezze (che i poeti trasformano in punti di forza), siamo stati capaci di arginare sensi e significati, di preservare il tono e la grammatica e gli innumerevoli espedienti della retorica. Ora, però, il discorso pubblico pare affidarsi quasi esclusivamente alle “emozioni” e l’incoerenza anziché essere percepita come debolezza di pensiero viene letta come prova di autenticità.
Un tweet o uno slogan oggi pesano più di un saggio scrupolosamente ponderato e messo su carta. In questo clima di irrazionalità, l’atto intellettuale perde il suo prestigio ancestrale e fake news e menzogne pubbliche prevalgono. Gli intellettuali vengono ritratti dal potere come “nemici del popolo”, schierati contro il cittadino comune che sono accusati di disprezzare.
Cicerone inventò il termine humanitas per spiegare la sua idea di ciò che sarebbe divenuto noto, secoli dopo, come educazione umanistica, un’educazione che avrebbe nutrito le menti curiose con le intelligenze del passato. Cicerone aveva in mente la formazione di cittadini capaci per la sua repubblica ideale. Due millenni dopo, anche tenendo conto dei valori e delle sfide di oggi, lo scopo dell’educazione dovrebbe essere ancora lo stesso: non ad¬destrare i nostri giovani a diventare schiavi del sistema, di uno smartphone, ma insegnare loro a usare l’immaginazione per affrontarlo. Come ha scritto Teresa Bartolomei il rischio è di vivere «un presente-macchina che genera prodotti ma non creazioni, informazioni ma non conoscenza, analisi ma non comprensione, potenza ma non libertà».
Non ci sono giustificazioni per l’indecisione degli intellettuali. Non a caso prima della Porta dell’Inferno Dante inserisce le schiere degli Ignavi, “l’anime triste di coloro / che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”, che anche l’Inferno respinge. La scelta che si presenta oggi davanti a ogni intellettuale è se essere o meno testimone critico dei nostri tempi, spesso crudeli: guardare e vedere il destino dei deboli, degli indifesi, di coloro a cui una voce è negata, di chi è esiliato nell’oblio ed è lasciato alla deriva. Ma abbiamo anche il dovere di impegnarci in discussioni argomentate con i potenti, con chi deve prendere decisioni strategiche tali da decidere del destino di coloro che sono privati di una voce legittima.
Immaginare è dissolvere le barriere, ignorare i confini, sovvertire la visione del mondo che ci è stata impo¬sta (dalla tecnica o altri): come ha detto saggiamente Carlo Collodi, ogni crisi della società è in realtà una crisi dell’immaginazione.

Alberto Manguel
Alberto Manguel, narratore, scrittore e traduttore, è stato il direttore della biblioteca Nazionale di Buenos Aires. Allievo di Jorge Luis Borges ha scritto molti libri, tra cui ricordiamo: “Una storia della lettura” (1996), “Dizionario dei luoghi fantastici” (2008), “Stevenson sotto le palme” (2007), “Tutti gli uomini sono bugiardi” (2010), “Una storia naturale della curiosità” (2015), “La città delle parole” (2016). “Ricettario dei luoghi immaginari”, uscito per Vita e Pensiero, è il suo ultimo libro.

 

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