La tragica realtà di Gaza, dove lo status quo è la scelta preferita dai protagonisti

www.huffingtonpost.it
16 Maggio 2023

La tragica realtà di Gaza,

dove lo status quo è la scelta preferita

dai protagonisti

di Janiki Cingoli
È in vigore una tregua fragile ottenuta dalla mediazione egiziana. La situazione attuale piace perché consolida il potere dei soggetti coinvolti. A perderci sono le popolazioni, afflitte da un conflitto che non ha sbocco
Operazione Shield and Arrow. La tregua
Dopo 5 giorni di combattimenti, una fragile tregua è entrata in vigore a Gaza, alle 22 di sabato scorso, grazie alla paziente e incalzante mediazione egiziana, anche se lo Jihad islamico ha continuato a lanciare qualche razzo per circa un’ora, e le forze aeree israeliane hanno reagito colpendo alcune postazioni dell’organizzazione.
Già la mattina dopo, le autorità israeliane annunciavano la fine delle restrizioni al movimento per gli abitanti nelle aree adiacenti la Striscia, i valichi di frontiera venivano riaperti, veniva nuovamente consentito l’accesso ai quasi 20.000 palestinesi che quotidianamente vanno a lavorare in Israele, veniva rinnovato il permesso di pesca, i 30 milioni di shekel (circa 8 milioni di dollari) che mensilmente affluiscono dal Qatar a Gaza tramite l’Onu sono tornati a circolare. Business as usual, si potrebbe dire. Ma il prezzo è stato alto.
I numeri del conflitto
Durante gli scontri, circa 1469 razzi sono stati lanciati da Gaza, di cui oltre 1100 sono giunti sul territorio israeliano. 437 sono stati intercettati dal sistema Iron Dome, 2 missili a lungo raggio dal nuovo sistema David Slings. Il vertice dello Jihad islamico nella Striscia è stato decapitato, con l’uccisione dei 6 più importanti leader, vi sono stati 33 morti a Gaza, di cui 13 civili, 6 bambini e 3 donne. Quasi 150 i feriti. 2 i morti in Israele, uno dei quali un palestinese di Gaza che lavorava nel sud del paese. 77 israeliani hanno ricevuto trattamenti medici, 32 per ferite e 45 per traumi post esplosioni. Secondo le stime palestinesi, vi sono stati danni nella Striscia per 5 milioni di dollari.
L’inizio delle ostilità
Le ostilità avevano preso avvio martedì 2 maggio, con la morte in prigione di Khader Adnan, un prominente leader dello Jihad, dopo 87 giorni di sciopero della fame. Da Gaza per protesta erano stati lanciati oltre 100 razzi contro Israele, causando la reazione delle forze aeree israeliane. Il giorno dopo era stato raggiunto un primo cessate il fuoco. Ma il ministro della Sicurezza Nazionale, l’ultra nazionalista Itamar Ben Gvir, annunciava la sospensione della partecipazione dei deputati del suo partito alle votazioni nella Knesset, ove era in discussione l’approvazione del Bilancio biennale, per la debolezza della reazione israeliana e per non essere stato invitato alla riunione indetta da Netanyahu e dal ministro della Difesa Gallant quello stesso martedì, con i massimi vertici della sicurezza. In quella riunione era stata pianificata l’operazione Shield and Arrow, destinata a prendere avvio il martedì successivo. Ben Gvir in realtà non era stato invitato per la sua inaffidabilità e per evitare fughe di notizie.
Israele dichiara la vittoria
Secondo le valutazioni israeliane, l’operazione ha ristabilito una deterrenza messa in discussione, conseguendo brillanti risultati: la decapitazione del vertice militare dello Jihad nella Striscia; l’aver tenuto Hamas fuori dal conflitto, al di là di qualche attestazione di solidarietà militante; l’aver evitato che il conflitto si espandesse in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e tra gli arabi israeliani, al di là di alcuni episodi isolati; il disimpegno di Hezbollah dal Libano, anch’esso oltre le focose prese di posizioni verbali; il perfetto coordinamento tra le diverse organizzazioni di sicurezza coinvolte e il livello e la precisione della loro prestazione, così come quella delle forze aeree israeliane.
Si tratta tuttavia di una quiete relativa, che in assenza di una più complessiva visione strategica resta precaria, e lascia intatte le capacità offensive di Hamas.
Lo jihad islamico si afferma come il gruppo più militante
Lo Jihad ha certo subito i duri colpi israeliani, vedendo decimata la sua leadership, ma ha dimostrato di essere il più coerente nemico di Israele, anche di fronte all’opinione pubblica palestinese, nella Striscia, in Cisgiordania, a Gerusalemme Est. È stato in grado di lanciare raffiche di centinaia di missili al giorno contro Israele, fin oltre lo scadere del cessate il fuoco, costringendo la popolazione israeliana a cercare riparo nei rifugi; si è confermato come il più coerente agente dell’Iran, candidandosi quindi a un rafforzamento del suo sostegno economico e militare. Esso d’altronde non deve, come Hamas, farsi carico della vita quotidiana della popolazione, e può concentrare il suo impegno solo sull’aspetto bellico del conflitto.
Hamas non si è fatto coinvolgere
Hamas non si è fatto coinvolgere nel conflitto se non a parole, e ha scelto di fare la parte del responsabile adulto: come già detto, esso deve farsi carico del governo quotidiano della popolazione della Striscia, e non intende farsi trascinare in conflitti paragonabili a quello del maggio 2021, con le enormi perdite e devastazioni che ne conseguirono.
In realtà, dentro l’organizzazione islamica si sono confrontate tre linee: quella della leadership interna alla Striscia, che fa capo a Yahya Sinwar, più realistica e legata alle esigenze della popolazione; quella di Khaled Meshaal, eletto nel 1921 responsabile della politica internazionale del movimento, residente a Doha, in Qatar, più vicino alle posizioni saudite e quindi meno sensibile all’influenza iraniana; e quella di Ismail Haniyeh, leader dell’Ufficio Politico del movimento islamico, e da sempre più vicino all’Iran. In questa occasione, le posizioni dei primi due hanno prevalso.
D’altronde, Hamas soffre per la concorrenza e la crescente indipendenza dello Jihad islamico, sia a Gaza che nel Nord della Cisgiordania, e non si straccia le vesti se, come in questa occasione, esso viene colpito e ridimensionato.
L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ai margini
L’ANP, al di là di rituali dichiarazioni di condanna dell’iniziativa israeliana, non è granché dispiaciuta per il colpo inferto allo Jihad, che nel Nord della Cisgiordania sfida quotidianamente la sua autorità, rafforzandosi e sfuggendo al suo controllo.
Essa è stata completamente tagliata fuori dai negoziati per arrivare al cessate il fuoco che si sono tenuti tra lo Jihad islamico, Israele e l’Egitto, con il sostegno anche del Qatar.
La sua crescente marginalità è destinata a essere evidenziata anche plasticamente dal prossimo Summit della Lega Araba, che si terrà a Jeddah il prossimo 19 maggio, cui il Re saudita Salman ha invitato il presidente siriano Bashar al-Assad, segnandone il rientro nell’organizzazione, e su cui sarà concentrata tutta l’attenzione.
Un segnale all’Iran
L’operazione contro lo Jihad ha voluto essere anche un segnale all’Iran, che nei primi giorni di aprile aveva sperimentato un attacco multifronte, in seguito agli scontri che avevano avuto luogo sulla Spianata delle Moschee e dentro alla stessa Moschea di Al-Aqsa, con centinaia di razzi che erano piovuti su Israele da Gaza, dal Libano e anche dalla Siria. Allora, la risposta israeliana era stata contenuta, concentrandosi su limitati obiettivi palestinesi e ignorando l’evidente ruolo svolto da Hezbollah, l’emanazione iraniana in Libano. Questa volta, la pressione iraniana per estendere il conflitto e allargarne l’area è stata vanificata.
Le ripercussioni all’interno di Israele
Netanyahu esce certamente rafforzato. La crisi aperta da Ben Gvir, con l’annunciata sospensione della partecipazione dei deputati del suo partito alle votazioni alla Knesset, e le accuse di debolezza scagliate contro il suo governo, sono finite nel nulla, e le votazioni sul bilancio biennale, che deve essere approvato entro il 29 maggio pena lo scioglimento della Camera e il ricorso a nuove elezioni, procedono a pieno ritmo, pur tra aspri contrasti per le esose richieste dei partiti ultrareligiosi che, grazie al ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, di Religious Zionism, puntano ad aumentare enormemente gli stanziamenti a favore delle loro istituzioni.
D’altronde, i più recenti sondaggi, pubblicati domenica scorsa, segnalano un ampio sostegno all’operazione condotta a Gaza, e un’evidente inversione di tendenza a favore del Likud, attribuendogli 27-28 seggi (sui 120 totali della Knesset), rispetto ai 24 della settimana precedente, con un calo corrispondente di Blue and White, guidato da Benny Gantz, da 29-31 seggi a 25-26, mentre Yesh Atid, guidato da Yair Lapid resterebbe fermo a 18 seggi. L’attuale maggioranza di destra, comunque, risulterebbe ancora non in grado di ottenere una maggioranza.
La ripresa dei negoziati sulla riforma giudiziaria
Con l’entrata in vigore del cessate il fuoco, riprendono altresì presso la sede del presidente Herzog i negoziati sulla riforma giudiziaria. Forti sono i timori che la maggioranza, rafforzata dall’esito del conflitto e anche dall’affievolimento del movimento di protesta, attenda l’approvazione del Bilancio a fine mese per poi portare avanti forzature e riprendere l’iter della riforma. Non è casuale l’appello di questi giorni dello stesso Herzog, che ha affermato che “se ci saranno vincitori e vinti nei colloqui, in definitiva il perdente sarà il paese stesso”.
La marcia delle bandiere
Il 19 maggio dovrebbe svolgersi a Gerusalemme la “Marcia delle bandiere” (March of flags), che celebra la riunificazione di Gerusalemme sotto il controllo israeliano, dopo la guerra del ’67.
In quel giorno, migliaia di cittadini ebrei sono usi attraversare i quartieri arabi della città vecchia, brandendo le bandiere israeliane e provocando gli abitanti arabi, per poi terminare sulla spianata davanti al Muro del Pianto, con un ballo caratterizzato dallo sventolare delle bandiere. Quest’anno, poi, alcuni gruppi ultranazionalisti hanno invitato a visitare in migliaia la stessa Spianata delle Moschee, dove è proibito sventolare bandiere israeliane. Il 19 maggio sarà venerdì, giorno di preghiera per i musulmani, e questo aumenta i rischi di scontri e incidenti, mentre dalle organizzazioni islamiche a Gaza sono giunte minacce contro la marcia.
Nel 2021, proprio l’inizio della marcia diede luogo al lancio di razzi contro la manifestazione, e diede origine all’operazione “Guardian of the Wall” che durò 11 giorni causando enormi danni e molte vittime a Gaza, ma anche in Israele.
Netanyahu ha confermato che anche quest’anno la manifestazione si svolgerà regolarmente.
Lo status quo è la scelta preferita
La tragica realtà è che il mantenimento dello status quo, sia pure intervallato da periodiche ondate di violenza, è la scelta preferita da tutti i protagonisti, perché consolida il loro potere.
Lo è per Netanyahu, perché la permanenza di Hamas al potere gli consente di tenere separate la Cisgiordania e Gaza, di non affrontare alcun negoziato di pace, di evitare di metter piede nella Striscia e di doversi fare carico della sua popolazione.
Lo è per Hamas, perché gli permette di consolidare e stabilizzare il suo potere e di rafforzare senza controlli il suo apparato militare.
Lo è per lo Jhiad islamico, che si conferma il campione dell’intransigenza e della volontà di lotta della resistenza palestinese.
Lo è per l’ANP, che può così conservare quel briciolo di potere che le resta, con i suoi privilegi, i soldi, la corruzione imperante.
I perdenti sono quelle popolazioni, afflitte da un conflitto che non ha sbocco.

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