Omicidio Calabresi, il commissario ucciso sotto casa 52 anni fa a Milano: gli spari alle spalle, l’odio politico, il processo che ha diviso l’Italia

A sinistra il commissario Luigi Calabresi. A destra il luogo del delitto, il 17 maggio 1972
da Il Corriere della Sera

Omicidio Calabresi, il commissario

ucciso sotto casa 52 anni fa a Milano:

gli spari alle spalle, l’odio politico,

il processo che ha diviso l’Italia

di Dino Messina
Aveva 34 anni, due figli piccoli e la moglie aspettava il terzo. Si avviò verso l’auto senza accorgersi del killer. Soltanto 16 anni dopo furono individuati i responsabili: Ovidio Bompressi (esecutore), Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani (mandanti) sono stati condannati in via definitiva
Oggi, 17 maggio, è il cinquantaduesimo anniversario del delitto Calabresi. Riproponiamo l’articolo di Dino Messina che ricostruisce la cronaca di quella giornata drammatica e il contesto storico che portò all’omicidio.
La mattina del 17 maggio 1972, il commissario Luigi Calabresi, vice-responsabile della sezione politica alla questura di Milano, 35 anni non ancora compiuti, si preparò a uscire di casa, un appartamento al terzo piano di via Cherubini 6, verso le 9.15. Salutò la moglie, Gemma Capra, in attesa del terzo figlio (Mario e Paolo avevano due anni e uno), scese a piano terra, scambiò due parole con il portinaio e con l’uomo delle pulizie e si avviò verso la macchina, una Fiat 500 blu intestata alla moglie, parcheggiata al di là della strada. Non aveva fatto caso all’uomo che vicino al portone, chiudendo il giornale, forse diede il segnale al killer che lo seguì e lo colpì alle spalle con tre colpi di una pistola calibro 38. Due colpi furono sparati in sequenza velocissima, il terzo, un po’ distanziato, alla nuca, quando era già in ginocchio davanti alla macchina, il mazzo di chiavi scivolato dalle mani sotto la 500.
Calabresi si accasciò in fin di vita, per terra si formò una pozza di sangue. Fu inutile l’arrivo quasi immediato di un’ambulanza che lo portò al pronto soccorso dell’ospedale San Carlo, dove morì alle 9.37. Il racconto sul Corriere della Sera dell’attentato terroristico, in stile Brigate Rosse – anche se queste non c’entravano – che occupò tutta la prima pagina, era stato affidato al più bravo dei cronisti di «nera», Arnaldo Giuliani, che con stile notarile registrò la sequenza dei fatti, le testimonianze dei passanti, l’avvio delle indagini. A sparare era stato un giovane uomo alto e atletico, subito ribattezzato «il biondino» o «il tedesco», che probabilmente nascondeva la pistola a canna lunga sotto un giornale e che, dopo aver sparato, salì su una 125 blu guidata da un complice e abbandonata poche centinaia di metri dopo, in via Ariosto, dove i due avrebbero proseguito la fuga su un’Alfa di colore chiaro.
La dinamica risultava piuttosto chiara e anche il movente. Accanto a un editoriale di Indro Montanelli, Il contagio della violenza, in cui si rendeva onore a un «servitore dello Stato», un articoletto senza firma era significativamente intitolato «Perché lo odiavano». L’assassinio del commissario Calabresi veniva immediatamente collegato alle sue indagini sulla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e alla morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da un ufficio al quarto piano della questura di via Fatebenefratelli la sera del 15 dicembre. «Se mi uccidono – aveva confidato a un amico il commissario Calabresi – non vedrò in faccia il mio assassino». E infatti così era avvenuto. Dunque, lo odiavano perché ritenuto responsabile della morte di Pinelli ed era nel mirino della sinistra extraparlamentare per tante altre sue indagini.
Da ultimo Calabresi aveva identificato la notte fra il 15 e il 16 marzo 1972 Giangiacomo Feltrinelli, morto a Segrate su un traliccio dell’alta tensione, sotto le spoglie del fantomatico Vincenzo Mangioni («provate a mettere dei baffi su questa faccia») e si era occupato degli attentati del 25 aprile al padiglione Fiat della Fiera e alla Stazione Centrale. Era lui inoltre a collaborare con i giudici Guido Viola e Libero Riccardelli nell’inchiesta su quelle che all’epoca si definivano «fantomatiche Brigate Rosse». Ma il suo nome veniva sempre e ossessivamente associato alla fine di Pinelli. Dario Fo aveva scritto di getto la pièce «Morte accidentale di un anarchico» in cui compariva un certo commissario Cavalcioni. Il giornale «Lotta Continua» conduceva una campagna che lo stesso leader di LC Adriano Sofri diciotto anni dopo avrebbe definito «orribile»: «Alla volontà di ottenere giustizia per Pinelli, era subentrato il gusto inerte dell’insulto, del linciaggio delle minacce», dichiarò Sofri. Minacce tanto gravi che avevano costretto Calabresi a cambiare casa e a querelare il direttore di quel giornale, Pio Baldelli.
Ma il processo per difendere l’onorabilità di Calabresi si era trasformato in un processo a Calabresi. Le indagini per stabilire la dinamica della morte di Pinelli furono infine affidate al magistrato di sinistra Giuseppe D’Ambrosio, da tutti considerato un saggio, il qualche aveva concluso che la caduta dell’anarchico era stata causata da un malore. Non era stato suicidio, come all’inizio aveva sostenuto il questore Marcello Guida, né un omicidio. D’Ambrosio avrebbe anche portato al processo la testimonianza dell’anarchico compagno di Pinelli, Pasquale Valitutti, che quella sera aveva visto Calabresi uscire dalla stanza prima che Pinelli precipitasse. Il commissario Calabresi, avrebbe detto D’Ambrosio anni dopo in un’intervista a Michele Brambilla, «non fu responsabile in alcun modo. E non fu responsabile neppure di maltrattamenti».
Con Pinelli Calabresi aveva un rapporto cordiale. Per il Natale 1968 i due si erano scambiati come regalo un libro. La sera del 12 dicembre 1969 Calabresi era andato al centro anarchico di via Scaldasole e aveva chiesto a Pinelli di seguirlo in questura. Il commissario in auto, l’anarchico in motorino. Niente manette, nessuna violenza. Ma nei primi anni Settanta la campagna diffamatoria contro Calabresi era molto forte e proseguì anche dopo la sua morte. Il 20 maggio 1972 vennero arrestati a Torino dieci militanti di Potere Operaio e di Lotta Continua, tra cui Andrea Casalegno, figlio del giornalista della «Stampa» che sarebbe stato ucciso nel novembre 1977 dalle Brigate Rosse. I militanti ultrà distribuivano volantini in cui si inneggiava alla giustizia proletaria contro il commissario Calabresi. Del resto, la stessa «Lotta Continua» del 18 maggio 1972 aveva definito l’omicidio Calabresi, avvenuto il giorno prima, «un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia».
Intanto gli inquirenti, come si dice, brancolavano nel buio. A fine maggio fu arrestato in Svizzera un pittore ritenuto capo delle Br e collegato all’assassinio di via Cherubini. Poi si seguì una pista di destra, con gli arresti di Gianni Nardi, Bruno Stefàno e Gudrun Kies Mardon, risultati poi innocenti. L’omicidio del commissario Luigi Calabresi sembrava essere destinato a restare un delitto insoluto. Fino al luglio 1988, 16 anni dopo i fatti, quando un oscuro venditore di crepes di Bocca Di Magra, Leonardo Marino, ex militante di Lotta Continua, confidò al parroco del paese – dove andavano a villeggiare Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Vittorio Sereni – di aver avuto un ruolo nell’omicidio Calabresi. Marino andò poi dai carabinieri di Sarzana, dove si autoaccusò ma soprattutto chiamò in causa i compagni di Lotta Continua Ovidio Bompressi (come esecutore) e i leader del movimento Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani (come mandanti).
Il lungo iter giudiziario, che si concluse con condanne per tutti in via definitiva – Sofri negò sempre il suo coinvolgimento e non usufruì della grazia come Bompressi – è un altro e tardo complesso capitolo dei nostri anni violenti. Oggi in via Cherubini c’è una targa che ricorda il commissario Luigi Calabresi, insignito della medaglia d’oro al valor civile.
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18 maggio 1972

Il contagio della violenza

L’omicidio del commissario Luigi Calabresi commentato da una delle più grandi firme del Corriere, Indro Montanelli
di INDRO MONTANELLI
Ci dispiace non appartenere a quella categoria d’illuminati che, di fronte al cadavere assassinato, non aspettano nemmeno che si raffreddi per sapere chi lo ha ucciso e perché: il nostro compito di commentatori ne sarebbe molto agevolato.
Purtroppo, per esprimere un giudizio, noi abbiamo bisogno di qualche certezza. E di certezze, per il momento, ce n’è una sola: che da oggi la delinquenza, invece di sfuggire la polizia, la cerca, la sfida, le tende agguati, le dà battaglia aperta nel pieno centro della città.
Il sangue non è di moda soltanto in Italia, d’accordo: l’altro ieri è toccato a un candidato americano alla presidenza della Repubblica di pagargli il suo tributo. E c’è da chiedersi quanto le revolverate esplose contro di lui siano servite di esempio e di stimolo a quelle riecheggiate in via Cherubini. Niente, si sa, è più contagioso della violenza. Tuttavia, se per il nome e il rango della vittima, il delitto di Washington provoca maggiore sensazione, quello di Milano contiene elementi e pone interrogativi molto più inquietanti.
L’attentato a Wallace ha un movente politico abbastanza chiaro, che naturalmente non lo giustifica, ma che contribuisce a a spiegarlo. In lui si voleva colpire l’ideologia razzista – ammesso che al razzismo si possa far l’onore di considerarlo un’ideologia -. e il «pistolero» che si è addossata la truce bisogna sembra averlo fatto di sua solitaria scelta, come fu il caso dell’assassino di Bob Kennedy. A queste iniziative individuali, per quanto esecrande, la pubblica coscienza e ragionevolmente rassegnata. Tutti siamo persuasi che nessuna misura profilattica ci potrà mai mettere completamente al riparo dall’insorgenza di questi episodi. L’anormale che, in preda a una sua ossessione, la incarna in un uomo e su di lui scarica la propria furia vendicatrice e liberatrice, è un fatto patologico che fa parte della fisiologia di qualsiasi società, anche la più sana.
Ma il delitto di via Cherubini reca altre stigmate. Sebbene le indagini siano appena iniziate e non consentano di formulare che delle ipotesi, la più probabile sembra quella di una «esecuzione» decisa in precedenza, freddamente programmata e affidata al mirino di uno specialista, che forse non aveva mai visto in facci ala su avittimae non aveva verso di essa qualche motivo di personale rancore che possa servire di traccia a una sua identificazione. Uno straniero, hanno detto. E qualcuno ha perfino precisato: un austriaco o un tedesco.
Ci affrettiamo a mettere in guardia il lettore da queste voci, che potrebbero dare il via a una caccia alle streghe. Per ora, non abbiamo il diritto che al dubbio. Ma il dubbio che il commissario Calabresi sia stato soppresso in base a una sentenza di morte pronunciata da un tribunale clandestino che pretende sovrapporre la propria legge a quella della Stato, e purtroppo plausibile.
Calabresi era il bersaglio di molti odi, lo sappiamo. Anzi è l’unica cosa che sappiamo, perché su tutto il resto siamo assolutamente all’oscuro. Sulla complessa vicenda Pinelli di cui egli è stato il protagonista, non intendiamo pronunciare giudizi, visto che nemmeno il Magistrato è riuscito a fornircene il bandolo. Ma, ammesso anche (diciamo ammesso, non concesso) che la sua condotta non sia stata irreprensibile, una cosa è certa: che solo al Tribunale con la T maiuscola noi riconosciamo il diritto di far giustizia; non a quelli che si nascondono nei «covi» e negli scantinati di Milano, qualunque bandiera battano e di qualsiasi ideologia si professino campioni.
È tempo per tutti noi, è tempo soprattutto per i responsabili della vita del paese, sia di destra che di sinistra, di dire alto e forte senza riserve né ambiguità, che il delitto non è mai giustizia e che la lotta contro di esso è il sacrosanto dovere di ogni società. Tuttavia vogliamo ricordare al lettore che dei doveri incombono anche su di lui, su noi tutti. Quando si diffonde la sensazione di trovarci alla mercé di forze occulte, che si arrogano il diritto di decidere nel buio la sorte del cittadino, è difficile, bisogna riconoscerlo, tenere i nervi a posto. Ma se li perdiamo, faremo soltanto il giuoco di questi criminali «tupamaros» e ridurremo, come essi vogliono, il nostro paese a una giungla. La giustizia privata lasciamola a loro. Noi atteniamoci a quella dei tribunali veri, pur non sempre soddisfatti del loro operato. Anche perché la violenza non paga, anche quando si esercita contro un’altra violenza.
L’efferato episodio di via Cherubini lo dimostra. La tesi che Calabresi fosse un persecutore d’innocenti non guadagna credibilità dal fatto che questi innocenti non abbiano avuto simili vindici. La pretesa «giustizia» di cui egli sarebbe rimasto vittima ne ha fatto soltanto un funzionario caduto nell’adempimento del servizio, cui è per tutti doveroso rendere omaggio.
Indro Montanelli 22 marzo 2012 | 18:19

 

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