Bombe e vaffa. La vera storia della discesa in campo di Silvio Berlusconi

da www.huffingtonpost.it
16 Luglio 2023

Bombe e vaffa.

La vera storia della discesa in campo

di Silvio Berlusconi

di Ugo Magri
Breve storia di annunci e di stragi, a cavallo fra il 1992 e il 1994. Con una consecutio temporum tutta da sistemare
Accade spesso, nella storia patria, che tragedia e farsa convivano allegramente. La “discesa in campo” di Berlusconi non fa eccezione: per come la raccontano i testimoni diretti, quel giorno di luglio 1993 nessuno si sarebbe atteso l’annuncio del Cav. I direttori delle sue tivù e dei periodici Mondadori erano stati tutti convocati ad Arcore, ma non se ne capiva il motivo. Qualcuno sospettò una tegola giudiziaria, dal momento che infuriava l’inchiesta di Mani Pulite e il gruppo Fininvest era una ghiotta preda del pool milanese. Invece no: una volta intorno al desco, Berlusconi annunciò la decisione di entrare in politica ufficializzata sei mesi dopo, il 26 gennaio 1994.

Fino a quel giorno di luglio l’uomo non s’era mai sbilanciato neppure nelle riunioni ristrette; sapeva che i muri avevano orecchie, o forse non aveva ancora deciso; tutt’al più faceva strani discorsi (chi scrive ne aveva sentito uno con le sue orecchie quando l’intera redazione del defunto settimanale Epoca era stata invitata a cena dall’editore, cioè dal Cav, e lui si lanciò in una concione); sosteneva che l’Italia andava salvata dai “comunisti” per cui ci sarebbe voluto qualcuno in grado di guidare un esercito di “moderati”, ma senza venire mai allo scoperto; e per dirla tutta, a nessuno dotato di buonsenso poteva venire in mente che Silvio pensasse a se medesimo.

Era stranoto, invece, che si stava dando molto da fare per salvare le aziende (aveva 5mila miliardi di debiti in vecchie lire) e cercava protettori politici dopo il crollo del vecchio “pentapartito”. Addirittura il Cav aveva proposto a Mino Martinazzoli, quanto di più antitetico ci fosse, di mettere insieme un nuovo movimento sulle ceneri della vecchia Dc, che Silvio avrebbe finanziato per riavere in cambio le concessioni tivù e di cui avrebbero fatto parte (come il trio olandese del suo Milan: Ruud Gullit, Marco Van Basten e Frank Rijkaard) i tre assi politici del momento che erano Mario Segni, Giuliano Amato e Antonio Di Pietro. Martinazzoli respinse le avances, Segni lo mandò a stendere e così Berlusconi disperato, con le banche alla gola decise di mettersi in proprio.

Ma torniamo al pranzo coi direttori.

Non appena Silvio annunciò il suo proposito, Gianni Letta perse la brocca e si mise a urlare letteralmente, con la vena gonfia del collo: “È una follia, ci manderai tutti quanti in rovina”. Qualcuno intorno al tavolo annuiva, Letta non la smetteva più. Berlusconi incassò la sfuriata a capo chino e borbottando qualcosa che, seduto all’altro capo del tavolo, il nostro testimone non colse; comunque sia fu allora che il futuro premier si beccò un bel “vaffa” da Fedele Confalonieri, forte e chiaro, lasciando tutti senza parole. Proprio così: “Silvio, allora vaffan….”.

Sembrava un dramma e invece finì in pochade. Perché subito dopo “Fidel”, per alleggerire il clima, si alzò dal desco e chiese ai commensali allibiti, come nelle migliori commedie all’italiana: “Gelatino?”. Subito andò in cucina, apri il frigorifero e tornò indietro con tante coppette bio che avevano una mucca disegnata su, e nella mano sinistra i cucchiaini da dessert.

Così l’Italia, senza saperlo, si ritrovò un nuovo padrone. Ma perché l’episodio ritorna in mente trent’anni dopo, giorno più giorno meno?

L’inchiesta sulle stragi mafiose del 1992-93, condotta dal procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, rilancia il sospetto che le bombe di Cosa Nostra furono fatte esplodere su richiesta del Cav e tramite il suo socio Marcello Dell’Utri allo scopo di gettare la gente nel panico e creare le condizioni ideale per un trionfo di Forza Italia. Il boss Giuseppe Graviano, dal carcere in cui si trova, avrebbe alluso in passato a non meglio precisati “favori” con la certezza di essere ascoltato. Molti altri indizi sono stati raccolti nell’ambito di un’indagine che s’inabissa e riaffiora come i fiumi carsici; e chissà cos’altro avranno scoperto gli investigatori tra le carte di Dell’Utri nel corso di una perquisizione avvenuta giorni fa, subito dopo aver appreso dal testamento del Cav che l’amico fraterno gli aveva lasciato 30 milioni.

Ma accanto alla ricostruzione giudiziaria fondata, come sempre in questi casi, su verbali, pentiti e ricostruzioni dei flussi di denaro, rimane un groviglio storico da dipanare; riguarda il movente criminale, l’idea mafiosa che fu alla base del disegno stragista. Terrorizzare il Paese, d’accordo. Su questo non ci piove. Però la narrazione cui ci eravamo abituati raccontava tutt’altro: che Cosa Nostra aveva piazzato bombe per alleviare il regime carcerario dei suoi picciotti, e addirittura ci fu un ricatto allo Stato, una trattativa occulta confermata dalla Cassazione lo scorso aprile. Da Firenze si sostiene al contrario che le stragi avevano tutt’altro scopo, spingere l’Italia tra le braccia di Berlusconi. Per cui diventa essenziale chiarire quando Berlusconi decise di cimentarsi, a che punto maturò il suo progetto e ritenne conveniente – ammesso che sia andata così – seminare il terrore con l’aiuto dei fratelli Graviano anziché comprarsi l’Italia (lui che si presentava come l’Omino di Burro e voleva trasformarci nel Paese dei Balocchi).

Sfogliamo il calendario delle stragi. Il 12 marzo 1992 viene freddato Salvo Lima, mediatore tra cosche e politica. Il 23 maggio dello stesso anno la bomba di Capaci contro Giovanni Falcone. Il 19 luglio tocca a Paolo Borsellino. Il 15 gennaio 1993 viene catturato Totò Riina ma la guerra prosegue, mentre lo scandalo del Sisde lambisce il Quirinale e l’Italia, stanca della Prima Repubblica, boccia nel referendum il sistema proporzionale; a maggio, in via Fauro, si salva per miracolo da un agguato il conduttore principe delle tivù berlusconiane, che è Maurizio Costanzo. Poco dopo l’attentato ai Georgofili. Il 27 luglio la bomba di via Palestro a Milano, l’indomani al Velabro e a San Giovanni in Laterano: più o meno negli stessi giorni in cui Berlusconi comunicava la sua decisione ai direttori del gruppo e Confalonieri serviva a tavola il gelatino. La discesa in campo segue la scia di sangue, non la precede come sarebbe stato logico nella logica criminale. C’è dunque una sfasatura da mettere a fuoco, una “consecutio temporum” tutta da sistemare.

Andrebbe per esempio accertato in che modo la genesi di Forza Italia, non ancora nota alla “Cupola” berlusconiana, fosse già conosciuta dalla “Cupola” di Cosa Nostra e pure con largo anticipo: perché i killer gli agguati non li organizzavano lì per lì; dunque andrebbero anticipate le lancette della Storia e dovrebbe spuntare un progetto, uno straccio di piano, un disegno strategico anche solo in embrione, ma a rigor di logica concepito prima di quello che venne poi dispiegato a partire dal settembre 1993 (l’arruolamento di intellettuali, la “rete vendite” di Publitalia prestata al nuovo partito, l’alleanza spericolata con Gianfranco Fini e Umberto Bossi, le ondate mai viste di spot televisivi). Altrimenti il teorema si avviterà su sé stesso.

Tescaroli, pm serio e capace, insiste a cercare l’anello mancante di una storia che non gli quadra e fa bene a scavare, ci mancherebbe. Ma le risposte sono, forse, dove potrà trovarle: nel regno della politica. Stanno nel contesto dell’epoca, nei suoi valori e disvalori piuttosto che nei verbali di qualche mafioso. Per sciogliere l’enigma Berlusconi, si sforzi di inquadrarlo nell’Italia di allora. Ne ascolti i protagonisti prima che il tempo se li porti via, faccia tesoro dei loro racconti. Interroghi la storia, non si accontenti di scandagliare il pianeta criminale. Soprattutto si tenga alla larga da quanti propagandano l’”indicibile verità” del Cavaliere mandante di stragi, che non fu smascherato solo ed esclusivamente in quanto non conveniva a nessuno: un modo puerile di spedire la palla in tribuna.

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