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5 LUGLIO 2024
Genitori e figli, quando una “sgridata”
diventa violenza psicologica?
Risponde la psicologa
Possono un rimprovero o una punizione assumere la forma di un maltrattamento? Lo abbiamo chiesto alla psicologa e psicoterapeuta Camilla Stellato. Che ci ha dato i suoi consigli: per madri e padri che cercano di comportarsi sempre in modo autorevole e sereno ma che, purtroppo, ogni tanto sbottano
DI ERIKA RIGGI
Non maltrattano solo i genitori a cui ogni tanto – o spesso – scappa lo schiaffo o la sculacciata. L’ultimo Indice regionale sul maltrattamento all’infanzia in Italia, appena presentato da Cesvi, rileva dati preoccupanti in merito ad una forma di violenza che non è fisica, ma verbale. Questa, secondo l’Oms, è la forma più diffusa di maltrattamento infantile, con una prevalenza – sottolinea Cesvi – del 36,1%. Ma che cosa si intende davvero per abuso verbale o emotivo nei confronti di un bambino? Possono una sgridata o un rimprovero assumere la forma di un maltrattamento? Lo abbiamo chiesto alla psicologa e psicoterapeuta Camilla Stellato, che ci ha dato i suoi consigli per migliorare il rapporto genitori e figli: per madri e padri che cercano di comportarsi sempre in modo autorevole e sereno ma che, purtroppo, ogni tanto sbottano.
Genitori e figli, quando una “sgridata” diventa violenza psicologica? Risponde la psicologa
Il rapporto Cesvi lo dice apertamente. Molti genitori sono inconsapevoli del peso delle loro parole e possono utilizzare con intenzioni “educative” quelli che invece sono insulti, o minacce, usando toni ed espressioni umilianti e sprezzanti. «Innanzitutto vale la pena precisare, con il Manuale diagnostico di salute mentale dei disturbi dello sviluppo e dell’infanzia 0-5, che cosa si intende per relazione disfunzionale genitori figli». Spiega Stellato. «Una relazione problematica è quella in cui per la maggior parte del tempo ci si avvale di una modalità maltrattante o negligente». In altre parole, si valuta la qualità media della relazione, gli atteggiamenti prevalenti e ripetuti. «Fatto salvo che ci possono essere eventi singoli che, per la loro gravità, possono comunque costituire un trauma per i bambini anche se agiti una sola volta», spiega Stellato.
Punire o minacciare i bambini non li aiuta ad apprendere
«Tante espressioni che molti genitori utilizzano con intento educativo sono in realtà insulti, minacce ed espressioni di disprezzo e umiliazione, quindi forme, per quanto lievi, di mal-trattamento». Ciò non significa che ci si debba autoflaggellare, come genitori, quando occasionalmente perdiamo la pazienza (conta il comportamento medio, si è detto). Ma certo è opportuno, da un lato, capire che cosa ci porta ad arrabbiarci. Dall’altro, fare nostra, nel profondo, una certezza. «Mal-trattare non aiuta ad apprendere, anzi».
Genitori e figli in via di educazione
Quanto al primo punto, spiega la psicologa, i genitori maltrattano per ragioni di cui il bambino non ha colpa. Perché il bambino, in generale, non ha colpa. «Non è mal-educato, è in via di educazione. Aggredirlo perché fa qualcosa che non saprebbe gestire in altro modo per via della sua immaturità è come arrabbiarsi con un neonato perché non sa contare».
Se ci arrabbiamo fino a perdere il controllo di gesti o parole è “colpa” nostra
Quindi: se ci arrabbiamo è perché noi, che siamo adulti, non sappiamo gestire la nostra emozione. Magari perché stanchi e sopraffatti da uno stile di vita faticoso e difficile da sostenere? Certo, comprensibile. «Ma allora è il caso che cerchiamo sostegno e risolviamo il problema – obiettivo – fuori dalla relazione con nostro figlio».
Gli stili educativi
Da sempre esistono diversi stili educativi, più o meno esplicitati. Genitori elicottero, trascuranti, maltrattanti o iperprotettivi. «Il modello cui bisogna ambire è quello dell’autorevolezza: significa sapere incoraggiare l’indipendenza, da un lato, e sapere porre dei limiti, dall’altro. Limiti che sono innanzitutto protettivi: per la cura di sé, degli altri e del contesto», spiega la psicologa.
Come si pongono i limiti? Come si definiscono le regole tra genitori e figli?
Il primo passo per creare un sistema di regole efficace è «avere delle aspettative realistiche rispetto ai comportamenti dei bambini in base alla loro fascia d’età». Banalmente, se un bambino di tre anni fatica a prestare i suoi giochi ai compagni è perché «la condivisione è un valore morale, che va appreso». Così come la cooperazione, grazie alla quale, dopo avere giocato, si riordina.
Bisogna poi «distinguere tra regole, che sono i confini da non oltrepassare per non ledere sé, gli altri, e il mondo attorno, e sane abitudini». Lavarsi i denti senza fare storie è una sana abitudine, difficile da adottare, per un bambino, «perché non ha una prospettiva temporale che gli permetta di occuparsi della propria salute». La soluzione è trasformare le sane abitudini in giochi. E spesso basta un pupazzetto e un po’ di fantasia.
Imparare a gestire rabbia e frustrazione
Tra le cose che il bambino può volere, e per le quale può strepitare, bisogna poi «distinguere tra bisogni (la rassicurazione prima di dormire) e desideri (guardare la tv per due ore). Se i primi sono vitali, sui secondi si può negoziare». Ed è normale e sano che il bambino cerchi di spingere il limite più in là che può, protestando per la frustrazione che prova e che deve imparare a gestire. Come è giusto (per quanto difficile!) che il genitore mantenga saldo quello stesso limite, senza arrabbiarsi.
«Le azioni negative del bambino devono, chiaramente, avere delle conseguenze, ma contingenti e commisurate», continua Stellato. Strappa il libro? Verrà tolto momentaneamente il libro. Spinge un compagno durante una partita di pallone? Il bambino rimarrà seduto accanto al genitore finché non si calmerà.
«Abusi verbali, schiaffetti e punizioni, che sono invece conseguenze esagerate rispetto a quello che è accaduto, non solo fanno male al bambino. In più non lo fanno crescere, non sono educativi. Se nostro figlio smette di agire in modo “sbagliato” smette per paura, non perché ha appreso qualcosa». Vogliamo questo?
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