Non si può far finta di niente

dal Corriere della Sera

Non si può far finta di niente

Gian Antonio Stella | 13 agosto 2024
Una tragedia. E bisogna uscire dalla logica del «buttar via la chiave». Perdente. Certe ricette, trite e ritrite, sono state sventolate troppe volte per esser prese sul serio
Avanti così, col ritmo attuale, i detenuti suicidi nelle carceri italiane saranno a fine 2024 novantacinque. Quasi quanti si ammazzarono nei nostri penitenziari, 100 tondi (punta massima: 16 nel ‘62) in tutti gli anni Sessanta. Basterebbe questo, se ancora qualcuno non avesse capito, a riassumere la tragedia che si sta compiendo anche in questi giorni nell’Italia che sta dietro le sbarre. Certo, c’erano allora la metà dei carcerati di oggi. L’impennata di suicidi rispetto a pochi decenni fa, però, è inaccettabile. E la risposta delle istituzioni per ora, riconoscono anche esponenti della maggioranza di governo, non è all’altezza.
«Abbiamo il dispiacere di annunciare che il numero dei suicidi fu fino a 12 in due anni sopra una popolazione fluttuante di 12.542 detenuti», dice un rapporto francese di metà ‘800 ripreso ne In carcere: del suicidio ed altre fughe di Laura Baccaro e Francesco Morelli che spiega come è cambiato, non sempre in meglio, il rapporto tra lo Stato e la punizione dei rei. Un suicidio, allora, ogni 6.271 reclusi: un decimo rispetto ai nostri numeri attuali. Ed erano ancora meno (uno nel 1842, due nel 1843 su 37.397 internati) a «La Force», il famigerato inferno parigino luogo delle mattanze ai tempi del Terrore robespierriano. Non sono curiosità pescate nel passato remoto: devono farci riflettere su oggi.
Dice la denuncia in Procura contro Carlo Nordio e i due sottosegretari alla Giustizia appena presentata da Rita Bernardini, Roberto Giachetti e Nessuno tocchi Caino, che a fine luglio «erano presenti nelle nostre carceri 61.134 detenuti in 47.004 posti regolarmente disponibili: cioè, 14.130 detenuti in più (e 18 mila agenti della polizia penitenziaria in meno rispetto alla pianta organica) e un tasso medio di sovraffollamento del 130,06%». Tasso che schizza in 56 istituti oltre il 150%, in tre oltre il 190% (Foggia, Potenza, Como) e in due (Canton Mombello a Brescia e San Vittore a Milano) oltre il 209% e il 224%. Il che significa troppo spesso «uno spazio vitale individuale di tre metri quadrati» (quello di un letto a castello più qualche decina di centimetri…) «ulteriormente ridotto dalla presenza di mobilio». Spazi che ricordano la spaventosa «Little Ease» nella torre di Londra. Indegni di un Paese che si riconosce nell’art. 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». E che vede aggiungersi ai troppi suicidi dei detenuti quelli di troppi agenti di custodia, loro stessi prigionieri e vittime del disastro.
Dice tutto la lettera inviata a Sergio Mattarella dai detenuti di Brescia: «Devo andare in bagno ma è occupato, altri 15 sono in fila». «Un anziano ha una scarica di dissenteria, piange, ha 74 anni e sporca materasso e lenzuola. Piange perché si sente umiliato». «Cimici e scarafaggi fanno anche loro la coda». Parole alle quali il capo dello Stato ha risposto: «Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è, e deve essere, l’Italia. Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, non va trasformato in palestra criminale». Una Cayenna terrificante per chi è colpevole, una trappola mortale per chi è innocente o è stato comunque buttato lì, in quella che il forzista Giorgio Mulè ha descritto giorni fa come una «discarica giustizialista», in attesa di essere processato. Prima ancora di subire una condanna.
Denuncia l’ultimo rapporto del Garante nazionale dei diritti dei detenuti di giovedì scorso: dei suicidi nel 2024 «risulta che 33 persone (il 53,22%) si sono suicidate nei primi 6 mesi di detenzione; di queste 7 entro i primi 15 giorni, 4 delle quali addirittura entro i primi 6 dall’ingresso». Lo schianto, la vergogna, la fragilità, la totale mancanza di una prospettiva di vita. Come nel caso di Giuseppe Pietralito che giorni fa s’è impiccato a Rebibbia pur sapendo che gli avevano anticipato la scarcerazione. Che se ne faceva, della libertà? «Non ho un lavoro. Non ho nulla. Nessuno crederà in me».
«Anche san Pietro e san Paolo erano stati carcerati», ha spiegato Papa Francesco ad Andrea Tornielli, «Ho un rapporto speciale con coloro che vivono in prigione, privati della loro libertà. Sono stato sempre molto attaccato a loro, proprio per questa coscienza del mio essere peccatore. Ogni volta che varco la porta di un carcere per una celebrazione o per una visita, mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io? Io dovrei essere qui, meriterei di essere qui. Le loro cadute avrebbero potuto essere le mie, non mi sento migliore di chi ho di fronte. Così mi ritrovo a ripetere e pregare: perché lui e non io?»
C’è chi farà spallucce: cose da preti, il Vangelo è una bella cosa, lo Stato un’altra. Proprio uno studio sul carcere di Bollate degli studiosi Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese, però, mostra che sarebbe proprio nell’interesse dello Stato accantonare la gattabuia chiusa e feroce (celle piccole, spazi asfissianti, niente lavoro, solo noia e vuoto) che non produce «maggior sicurezza sociale» per scegliere il carcere aperto dove «per ogni anno passato la recidiva si riduce di circa 9 punti percentuali». Un affare per tutti. Per chi è «dentro» (e per quanto abbia sbagliato non merita di affogare nel pantano condannato dalla Corte Europea perché non si tratta di «episodi isolati» ma del «malfunzionamento cronico del sistema penitenziario italiano») e per chi è fuori. Perfino al di là del valore etico della scelta. Occorre uscire, però, dalla logica del «buttar via la chiave». Perdente. Certe ricette, trite e ritrite, sono state sventolate troppe volte per esser prese sul serio.

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