Omelie 2023 di don Giorgio: TERZA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE

17 settembre 2023: TERZA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE
Is 11,10-16; 1Tm 1,12-17; Lc 9,18-22
Mi soffermerò sul primo brano, che fa parte del libro del profeta Isaia, che è vissuto nell’VIII sec. a.C.
Vorrei spiegare l’espressione: “il Signore stenderà di nuovo la sua mano per riscattare il resto del suo popolo”.
Premetto che ci vorrebbe un’omelia, tutta da dedicare per spiegare il verbo “riscattare”. Anche negli scritti di S. Paolo è presente l’idea del sacrificio/ morte di Cristo come riscatto o redenzione, dietro cui c’è una metafora “commerciale”. Paolo dice che Gesù ci ha comperati per riscattarci. E qual è il prezzo con cui Cristo ci ha riscatto? Il suo sangue, la sua morte. In breve: noi, proprietà di Dio, ci siamo venduti al male; siccome non possiamo riscattarci da soli, perché con le nostre forze non possiamo pagare il debito, ecco allora il piano di Dio: il Figlio si sarebbe incarnato per morire sulla croce per riscattarci, pagando lui il debito. L’idea del riscatto è presente in tutto l’Antico Testamento, ma non per questo dobbiamo accettare questa idea riferendola alla morte di Cristo. Questo per dire che è inaccettabile il concetto di riscatto presente negli scritti di San Paolo. La morte di Cristo non è da vedere come un riscatto come qualcosa di commerciale.
Ora soffermiamoci più a lungo sull’espressione: “il resto del suo popolo”. Chiariamo anzitutto la parola “resto”. Diciamo che ha di per sé un aspetto negativo. Nelle culture antiche, il concetto di “resto” era riferito a ciò che “restava” al termine di un conflitto: i vincitori si abbandonavano alla distruzione quasi totale degli avversari, a cominciare dai loro capi, ma anche delle fonti di vita, dei villaggi e delle coltivazioni, ma, nonostante questa sistematica opera di annientamento dei vinti, qualche sopravvissuto “rimaneva”. E in alcune circostanze, dopo anni o decenni, la vita poteva riprendere, proprio attraverso “il resto”, i pochi sopravvissuti, che potevano dare avvio a qualcosa di nuovo.
È stato il caso anche di Israele, che riuscì a risorgere dopo la prigionia a Babilonia. «Racimolate, racimolate come una vigna il “resto d’Israele”», scriveva Geremia dopo l’invasione babilonese che portò, nel 586 a.C., alla distruzione di Gerusalemme.
In realtà, il primo a parlare di “resto” era stato Amos, il primo profeta-scrittore. Molto severo verso gli israeliti che avevano abbandonato il Signore, egli preannuncia la distruzione del regno del Nord da parte degli Assiri, che si verificherà nel 721 a.C., ma esprime pure la speranza che «forse il Signore, Dio degli eserciti, avrà pietà del “resto” di Giuseppe».
Ma l’espressione il “resto d’Israele” passò a indicare qualcosa di più positivo, ovvero quel piano divino che sceglie gli “scarti”, ovvero quel poco di buono è rimasto, per realizzare il suo sogno. Ma gli scarti non indicavano ciò che era rimasto dopo una battaglia o una sconfitta o una deportazione, ma quel “gruppetto” di giusti rimasti fedeli a Dio. Quindi, il “resto” indicava la parte più pura del popolo ebraico. Ed è su questo “resto” di giusti o di nobili che Dio porrà il futuro dell’umanità.
Nell’omelia del giovedì santo del 1976, Carlo Ferrari, allora vescovo di Mantova, così diceva ai suoi preti: «Gesù ci definisce “pusillus grex”, piccolo gregge (“Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno”, Lc 12,32). Noi non siamo “massa”. Non dobbiamo pretendere che la massa di tutti i nostri fratelli sia intorno a noi col proprio consenso… Dobbiamo prendere coscienza di essere “minoranza”, non solo perché quelli che vengono in chiesa sono sempre più pochi. Vorrei dire che ciò è “bene”, perché è nel disegno di Dio che il Regno si costruisca, si edifichi in mezzo a pochi, a modo di un piccolo seme. Non solo a modo di un seme, ma di un piccolo seme! Noi vogliamo vederli tutti, noi vogliamo le chiese piene, noi moltiplichiamo le nostre iniziative, le nostre imprese, e poi constatiamo che non ci riusciamo, che non vengono da noi e diamo la colpa a questo o a quello. Molte cose sono vere. C’è una cosa da tenere presente e che è vera: al numero 9 della Lumen Gentium (uno dei documenti del Concilio Vaticano II), a cui vi rimando, il popolo di Dio è visto sulla continuità del piccolo resto di Israele. Quando mai Israele, tutto intero, è stato fedele al suo Dio? E quando mai il popolo cristiano è stato fedele, nella totalità dei battezzati, all’unico Signore, Gesù? Se noi continuiamo a preoccuparci del numero e non della qualità, noi non siamo sulla linea di nostro Signore Gesù Cristo… Ci affanniamo, ci affatichiamo, lavoriamo tutta la notte e non prendiamo niente perché vogliamo prendere tutto… Dobbiamo avere il coraggio di coloro che sanno perdere, di coloro che accettano la sconfitta, di coloro che accettano il fallimento perché, se siamo inseriti nel mistero di nostro Signore Gesù Cristo e perciò nel mistero della sua persona, non dobbiamo sfuggire alla sorte della sua persona. La Chiesa tutta intera non può sfuggire alle sorti del suo Salvatore… Siamo già nel mezzo di un futuro che indubbiamente cambierà ancora la situazione e noi dobbiamo concepire bene gli avvenimenti. Qualunque sia l’esito di questa gravissima crisi che stiamo vivendo e soffrendo, se siamo sensibili, insieme ai nostri fratelli, dobbiamo prendere un atteggiamento giusto. Noi siamo chiamati ad illuminare e ad animare le istituzioni, anche quelle del mondo, però non dobbiamo confidare in queste istituzioni, non dobbiamo appoggiarci a queste istituzioni, non dobbiamo cercare garanzie da queste istituzioni. Il Signore può compiere ancora un miracolo. Compisse il miracolo che i preti e i vescovi confidino, non in un partito che vince, ma in Gesù Cristo che è il Salvatore del mondo! Gesù Cristo è con noi! Quanti interrogativi! Quante ansietà! Quasi paura di ciò che può accadere! “Uomini di poca fede”. Siamo sulla stessa barca sulla quale naviga nostro Signore Gesù Cristo. È a lui che dobbiamo rivolgerci e pregarlo e gridare e urlare: Signore salvaci!».
Vorrei aggiungere: qualcuno sogna un ritorno alla essenzialità del Vangelo, quando non c’erano ancora le strutture ecclesiastiche, per dare così inizio al cristianesimo nella sua essenzialità radicale.
Ma forse non è necessario che questa Chiesa debba crollare nei suoi organismi carnali. Volenti o no siamo costretti a vivere nelle strutture, civili e religiose. Il problema è “come” viverci, ricordando le parole di Cristo: siamo “nel” mondo, ma senza essere “del” mondo. Possiamo essere credenti secondo il pensiero più puro di Cristo, senza farci condizionare dalle strutture religiose. Non è necessario uscire dalla Chiesa cattolica, anche perché entrando in altre strutture religiose non si sa dove si vada a finire, forse in peggio: il problema, più che la struttura, siamo noi. Dipende da noi “come” viverci: tocca a noi attingere a quella Sorgente divina, da cui parte ogni pensiero e ogni azione. Le strutture potranno cambiare, ma tutto dipende da noi: dal nostro viverci non da servi o schiavi, ma da potenziali rivoluzionari, in quello Spirito che vivifica lo spirito nella libertà più pura.

1 Commento

  1. Simone ha detto:

    Magistrale l’intervento di mons. Ferrari.
    Rileggere questa omelia come molte del card. Martini, mi fanno venire una nostalgia incredibile.
    Leggi testi di 50 anni fa e li trovi più attuali e pieni di Spirito rispetto a quelli che pronuncia il tuo vescovo oggi.
    La proposta pastorale di quest’anno è piatta, senza slancio e profondità.

    Triste constatare che queste parole siano rimaste inascoltate. Oggi, per riempire le chiese, si benedicono gli zaini, nemmeno gli alunni, promettendo un amuleto sicuro per un anno scolastico proficuo. Disastro!

    Grazie don Giorgio e buona domenica.

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