Don Peppe Diana veniva ammazzato 25 anni fa

da L’Espresso
OPINIONI
Roberto Saviano
L’antitaliano

Don Peppe Diana veniva ammazzato 25 anni fa

Il prete che combatteva il totalitarismo della camorra fu ucciso dai clan e calunniato sui giornali locali. Oggi che avrebbe detto la Rete?
Sono del 1979. Nella terra in cui sono nato e cresciuto, dalla mia nascita, sono morte centinaia di persone in faide di camorra. I clan vivono in guerra, gli affiliati non conoscono altro modo di stare al mondo perché ritengono che se mostri di avere fiducia verrai tradito, che se perdoni verrai punito, che se non uccidi verrai ucciso.
Da bambino avevo sviluppato una sorta di fascinazione quasi morbosa per i cadaveri che venivano mostrati nei tg regionali o che vedevo, coperti da lenzuola, in prima pagina sui quotidiani locali. C’erano bossoli contrassegnati da numeri, chiazze di sangue coperte da segatura e persone disperate: perché nella morte poco importa da che parte stai. La morte è morte. La morte è la fine della presenza, della speranza di cambiamento. È la fine di ogni cosa.
Ecco perché dare la morte, per le organizzazioni criminali, significa celebrare un rito, un rito che non deve ristabilire ordine o pacificare, ma restare come monito. Ed ecco perché la simbologia, nella morte, diventa fondamentale: i simboli sono come slogan, frasi semplici, immediate, parlano a tutti e per molto, moltissimo tempo.
Il mio rapporto con la morte cambia repentinamente dopo l’omicidio di don Peppe Diana. Era il parroco di Casal di Principe, feudo del clan dei casalesi. La sua morte ha cambiato molte vite e anche, profondamente, la mia. Era un prete, quindi era il padre della sua comunità e si chiamava Giuseppe, ecco perché il clan dei casalesi decide di ucciderlo il 19 marzo, nel giorno del suo onomastico e della festa del papà, tingendo di nero un giorno che ogni anno riapre in molte persone una ferita dolorosa che non riesce mai a rimarginarsi.
E difatti sono passati 25 anni dalla morte di don Peppe e io sono qui, come ogni anno, a parlarne; come se il suo omicidio appartenesse a un momento ancora vicinissimo a noi nel tempo. E questo accade perché chiunque abbia incrociato la storia di don Peppe, il 19 marzo, qualunque 19 marzo, non potrà ignorare ciò che gli hanno fatto e ciò che hanno fatto alla nostra terra.
Don Diana aveva scritto un trattato dal titolo “Per Amore del mio Popolo non tacerò” e l’aveva distribuito in tutte le chiese della diocesi e dei paesi circostanti. Aveva scritto che non viviamo in una vera democrazia, ma sotto il totalitarismo della camorra: in un mondo in cui i figli, presto o tardi, diventano vittime o mandanti della criminalità organizzata; un mondo in cui i camorristi dettano le loro regole con le armi. Aveva 35 anni quando gli hanno sparato in faccia e a me la notizia della sua morte è arrivata già inquinata. «Don Peppe Diana è stato assassinato, chissà perché?». Già soltanto questo commento, “Chissà perché?”, apriva un mondo. Un mondo che sapeva di sospetto. Per diversi anni si mormorò che avesse avuto atteggiamenti disinvolti con le ragazze che frequentavano gli scout. Sulle testate locali si diede spazio alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e quindi, in prima pagina, fu possibile leggere titoli come questi: “Don Peppe Diana era un camorrista”, “Don Diana a letto con due donne”. Inoltre c’era una foto dove lo si vedeva con il braccio intorno alle spalle di due ragazze scout.
La memoria di chi viene ammazzato viene immediatamente lordata dal sospetto. Per un omicidio come quello di don Peppe Diana ci si sarebbe aspettati una presa di coscienza nazionale che non ci fu, perché i dubbi sulle circostanze della sua morte furono più efficaci della tragedia.
Questa sembra una storia lontana anche se ancora a distanza di 25 anni ci fa stare male, ma io mi interrogo ogni volta su come reagirebbe oggi l’opinione pubblica di fronte a un evento come la morte di un prete anticamorra. Di fronte alla morte di don Peppe Diana. Come reagirebbe al senso di colpa per aver lasciato solo un padre amorevole che aveva a cuore il destino delle persone tra cui era nato, cresciuto e con cui ogni giorno aveva a che fare? Come reagirebbe oggi il web alle dichiarazioni dei pentiti che la stampa locale ha usato per i titoli di prima pagina? Cosa ne sarebbe, su Facebook, dei “Don Peppe Diana era un camorrista”, dei “Don Diana a letto con due donne” e delle foto di don Peppe abbracciato alle persone a cui voleva bene?
Immaginare questa reazione mi fa paura, più paura della morte stessa.
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1 Commento

  1. Giuseppe ha detto:

    Amici, concittadini, romani … ascoltatemi per favore: sono venuto a seppellire Cesare, non a lodarlo. Il male che l’uomo sovente gli sopravvive, mentre il bene spesso, rimane sepolto con le sue ossa… e sia così di Cesare.
    Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso. Grave colpa se ciò fosse vero e Cesare con grave pena l’avrebbe scontata. Ora io con il consenso di Bruto e degli altri (poiché “Bruto è uomo d’onore” e anche gli altri, tutti, lo sono) mi trovo qui per parlarvi di Cesare morto. Era mio amico. Fedele giusto con me… anche se Bruto afferma che era ambizioso e Bruto è uomo d’onore.
    Si è vero. Sul pianto dei miseri Cesare lacrimava. Un ambizioso dovrebbe avere scorza più dura di questa. E tuttavia Bruto sostiene che egli era ambizioso e Bruto è uomo d’onore.
    Si è anche vero che tutti voi mi avete visto alle feste dei Lupercali tre volte offrire a Cesare la corona di re e Cesare tre volte rifiutarla. Era ambizione la sua? E tuttavia è Bruto ad affermare che egli era ambizioso e Bruto, voi lo sapete, è uomo d’onore. Io non sono venuto qui a smentire Bruto ma soltanto a riferirvi quello che io so. Tutti voi amaste Cesare un tempo, non senza ragione. Quale causa vi vieta oggi di piangerlo? Perché o Senno fuggi dagli uomini per rifugiarti tra le belve feroci?
    Perdonatemi amici, il mio cuore giace con Cesare in questa bara e devo aspettare che torni da me.
    Se io fossi venuto qui per scuotere il vostro cuore, la vostra mente, per incitarvi all’ira alla sedizione farei torto a Bruto e torto a Cassio, che come sapete sono uomini d’onore, ma io non farò loro un simile torto. E tuttavia io ho con me trovata nei suoi scaffali una pergamena con il sigillo di Cesare, il suo testamento.
    Ebbene se il popolo conoscesse questo testamento, che io non posso farvi leggere, perdonatemi, il popolo si getterebbe sulle ferite di Cesare per baciarle e intingere i drappi nel suo sacro sangue, no… no, amici no, voi non siete pietra né legno, ma uomini ed è meglio per voi ignorare, ignorare… che Cesare vi aveva fatto suoi eredi…
    (Sahakespeare: Giulio Cesare, atto III, scena II. Estratto dall’orazione funebre di Marco Antonio)

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