
Mi hai rovinato il Giovedì Santo…
Penso che in ogni Diocesi del mondo, al mattino del Giovedì Santo, si celebri o si concelebri nella Cattedrale o Duomo una Santa Messa del tutto particolare, che si chiama Crismale, durante la quale il vescovo o arcivescovo consacra gli oli santi: il crisma, l’olio dei catecumeni e l’olio degli infermi. Sono gli oli che si useranno durante tutto il corso dell’anno liturgico per celebrare i Sacramenti: il crisma viene usato nel battesimo, nella cresima e nell’ordinazione dei presbiteri e dei vescovi, nella consacrazione della chiesa e dell’altare; l’olio dei catecumeni viene usato nel battesimo; l’olio degli infermi viene usato per l’unzione degli infermi.
Da qualche anno – quando ero prete giovane non si usava, perché gli oli si ritiravano direttamente se il parroco o chi per esso partecipava alla celebrazione della Messa crismale in Duomo oppure si mandava il sacrestano a ritirarli presso il Decano della zona – si è introdotta l’usanza di ricevere questi oli nella propria chiesa con una cerimonia ad hoc, più o meno teatrale.
C’è di più. La Messa crismale è considerata una delle principali manifestazioni della pienezza del Sacerdozio del Vescovo e un segno della stretta unione dei presbiteri con lui.
Mi ricordo le omelie stupende dei Vescovi dei tempi in cui ero giovane prete: sentivo in esse vibrare un dolce afflato di carità del mio pastore, a cui, più che gli oli, stavano a cuore i “suoi” preti. Era per lui, buon pastore, una grandissima occasione o opportunità di vederli accanto a sé, desiderosi di ascoltare una fervente parola di consolazione.
Non mi escono mai dalla testa le parole del libro di Isaia: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme…”, e vado oltre il contesto o chi è il destinatario. Il mio pensiero è sempre fisso sul vescovo che dovrebbe consolare i pastori del loro gregge.
Ogni pastore, anche nel piccolo ambiente dove svolge la sua azione pastorale, incontra difficoltà d’ogni genere, che talora sovrastano le sue forze, a contatto con realtà che sembrano fatte apposta per mettere in crisi ogni buon ministro di Cristo. Certo, dovrebbe bastare la grazia dell’Ordine sacramentale. Ma ci sono momenti in cui tutta la Grazia di Dio sembra vana. Ci vuole un carattere forte, ma non tutti i preti ce l’hanno, ci vuole una grande capacità reattiva, ma talora si riduce a qualche gesto per poi cadere o ricadere in qualche forma depressiva.
Oggi si tende ad affiancare ad ogni nuovo prete che esce dal seminario uno psicologo, che talora è solo un bastone di canna di bambù. Segno che questa società – ai tempi della mia gioventù era diverso: ci sentivamo più testardi, anche autonomi, anche ribelli sapendo di avere una comunità d’appoggio, anche se il vescovo era lontano neppure accessibile – ha tutta l’aria di sfornare individui precari, che non reggono al primo urto con la realtà: individui, perché lasciati tali, magari in un contesto così vasto che anche un gigante farebbe fatica a stare in piedi.
Già dire che occorre il sostegno di uno psicologo, credo che farebbe incazzare perfino il santo P. Ferdinando Baj, che, per inciso – l’ho scoperto recentemente leggendo un suo libro, che sono riuscito a comperare tramite Amazon, “Luci nel mondo”- Meditazioni per i seminaristi durante il periodo delle ferie estive – era di una cultura impressionante, che spaziava dall’antico pensiero greco al campo della psicologia e psicanalisi, e unitamente a tutto questo, ecco il vantaggio nei confronti di psicologi castrati nello spirito, egli aveva una forte spiritualità, conoscendo perciò le dinamiche del mondo interiore.
Sì, questi giovani preti, figli del loro tempo e di una società balorda, senza più limiti di decenza, essendo saltati i valori eterni, sono vittime di una precarietà impressionante, allucinante, paradossale, per cui si avrebbe bisogno di una educazione forte e autorevole.
Appena ordinati preti e vengono buttati in qualche campo pastorale, neppure travolgente, al primo soffio cadono come pere cotte: eppure, ai miei tempi quando entravano in teologia vocazioni adulte, con esperienze anche sentimentali sottoposte al vaglio di una scelta radicale, e con titoli di studio senz’altro superiori al mio semplice diploma di liceo classico, e proprio per questo tenute nelle maniche del cardinale Giovanni Colombo, pronto a umiliare noi della gavetta, poi, sul campo di battaglia, esperienze e titoli di studio deludevano, o meglio non bastavano a superare quelle difficoltà pastorali, che anche allora erano pungenti. Fu allora che il cardinale Giovanni Colombo aprì gli occhi, e ci chiese scusa. A quei tempi succedeva di aprire gli occhi e di chiedere scusa. Forse oggi no! Questi superiori di oggi, supponenti, incapaci di essere umani!
Ma quando arriveranno gli anni del berlusconismo, allora mi trovai in difficoltà a intendermi con i figli, anche preti, del borghesismo più sfacciato.
Non copriamo la realtà: anche allora, forse da sempre, tra i preti ci sono state mele marce, magari protette, tenute al riparo dalle chiacchiere o pettegolezzi della gente. Talora succedeva che si veniva a conoscenza di uno scandalo riguardante un prete pedofilo, dai manifesti affissi sui muri con titoli grossi da mani anonime, anche se tutti sapevano che gli autori erano noti comunisti del paese, più mangiapreti che marxisti.
Non me la prendo con gli ultimi arcivescovi, solo perché esce sul giornale la notizia di un prete che ha abusato di minorenni (tranne che oggi un prete pedofilo fa più scandalo anche perché i mass media ci mettono del loro). E poi: è proprio vero che oggi la gente rimane scandalizzata?
A parte il fenomeno della pedofilia del clero, che crimine era, crimine rimane e crimine resterà, ciò che sconcerta la diocesi è anche quella leggerezza da parte di un prete di mollare il proprio incarico, invocando quasi un dovere un anno sabbatico. Dopo un mese dall’ordinazione sacerdotale? Ma forse, neppure dopo cinquant’anni dall’ordinazione sacerdotale, mi verrebbe da ritirarmi a vita privata. “Ma lo sei, da dieci e più anni?”. Certo, ma chi mi ha costretto? E forse da questa stanzetta, costretto a rimanere fisicamente e pastoralmente inerme, escono ancora, più di prima, parti di pensiero da incutere paura alle autorità costituite.
Che poi ogni settimana un prete si riservasse un giorno o qualche momento di relax, per staccarsi da impegni gravosi che in breve gli consumerebbero il cervello e il corpo, non lo dovrebbe comunque pretendere come un diritto sindacale: ci sono stati nel passato, oggi non lo so se lo si faccia ancora tanto spudoratamente, parroci con il cervello programmato, che, appena arrivati nella nuova parrocchia, nell’omelia di intronizzazione chiedevano un giorno di vacanza, sul posto o altrove, ogni settimana. Mi lamentavo anni fa che un parroco di una parrocchia vicina staccasse, come un funzionario qualsiasi, dalle 20 di sera fino alle 8 di mattina, e non c’era verso che rispondesse al telefono se di notte qualcuno stava male, e la gente allora si rivolgeva a me, mettendomi in difficoltà: sostituire quel parroco di notte non era giustificare la sua grettezza pastorale? Oggi, riflettendo bene, quasi quasi sto dando ragione a quei preti funzionari del passato (per fortuna erano una eccezione!) che sì avevano orari di ufficio, però stavano sul posto salvandosi dallo stress, mentre oggi mi sembra che i preti novelli non sappiano saggiare le loro forze, e tanto meno stabilendo certe priorità che per un prete bajano risulterebbero in ogni caso indiscutibili.
Dal troppo senso del dovere di fedeltà al proprio posto di lavoro, costi quello che costi, con la nomea di cocciuti imperdonabili, che era la caratteristica dei vecchi parroci di una volta, si è passati alla immediata frantumazione pastorale, rischiando subito il tracollo.
Ripeto, non sto parlando del fenomeno della pedofilia, che esigerebbe altri discorsi e altri giudizi: mi riferisco a quella repentina caduta in stato di depressione clericale, scomparendo all’improvviso dal paese. Con quale motivazione? “Non reggo più”, e sono passati pochi anni, o forse solo pochi mesi dall’ordinazione sacerdotale! Forse perché oggi i preti sono pochi e si devono sobbarcare il lavoro di tanti preti anche anziani, ridotti oramai al limite?
Perché faccio queste domande, tenendo davanti a me situazioni di preti già in crisi il primo giorno di lavoro? Certo, figli del loro tempo, certo figli di questa società che consuma anche il cervello come un tritacarne, ma non ci sono altre responsabilità? E dire “altre” responsabilità mi spavento, pensando al baratro in cui è caduta una diocesi, quella milanese, guidata da un vescovo che non conosce soste, tanto è trottola impazzita, e qui è il caso di dire che, finché l’ingranaggio, quello del corpo, funziona, sarà un modello di eroica dedizione per il bene di una Diocesi, in una angolatura da cui si vede solo tanto fumo e poco arrosto. E se l’ingranaggio improvvisamente si inceppasse, magari per un piccolo dolorino alla schiena, e un continuo mal di testa, che cosa succederebbe alla trottola impazzita? Forse impazzirebbe in una solitudine senza requie. Tutto bene, quando tutto funziona come un ingranaggio ben oleato anche di imbecillità, ma l’imbecillità ha sorprese non sempre prevedibili. Ma, a parte un problema di carattere personale, mi chiedo a che cosa serve una trottola impazzita?
E da pastori trottole simili che cosa di avveduto si potrebbe pretendere? Che forse capisca il fallimento dei suoi preti, non dal punto di vista pastorale, oramai in piena nebbia, ma dal punto di vista della loro capacità di reggere come persona ad una tale disfunzione pastorale che metterebbe in bilico anche un cedro del libano, tranne lui, il “piccoletto”, che sa destreggiarsi tra sorrisetti e falsità, correndo in modo pazzerello di qua e di là, e quando è sul pulpito ci si aspetta di tutto, ovvero che ci riservi l’ultima sparata, dopo mille e noiose omelie, del più e del meno, con i soliti chiari-oscuri, deprimendo anche gli spiriti già deboli, ed è questa la cosa peggiore, sapendo che i suoi preti ad esempio, ma anche la gente comune, avrebbero bisogno di essere consolati, secondo l’antico profetico invito rivolto ai pastori del gregge.
Forse nessuno tra i quattrocento e forse più sacerdoti milanesi, presenti nel Duomo, giovedì santo, per la Messa crismale, avrebbe immaginato di poter ascoltare, e con quale stato d’animo, una omelia tale da sfidare la stessa aula di un tribunale.
Mentre anche io da casa, collegato in online, l’ascoltavo, subito deluso da un inizio che, col senno di poi, già forse presagiva la tempesta, ecco all’improvviso un tuono, poi un altro, poi una serie di tuoni, tra lampi di parole e di giudizi implacabili da non lasciare nemmeno un sospiro di speranza, anche se aspettavo che il cerchio delle condanne si allargasse fino a coinvolgere qualche istituzione ecclesiastica, lo stesso piccoletto che finalmente, una volta in vita, si metteva davanti a uno specchio per riconoscere, picchiandosi il petto: “E io non ho alcuna colpa?”. Forse si esigeva troppo? Ma non siamo nella Settimana Santa, giorni di confessioni per purificare l’anima, in vista della Risurrezione?
No, passione e morte riguardano solo “loro”, quei tre o quattro preti “farabutti, delinquenti, codardi”, così messi alla berlina sui social, ma da mettere ora al rogo, ufficialmente, col sacro crisma prima ancora di essere benedetto, ed è questa la purificazione che esige una diocesi guidata da un pastore tentenna quando vuole e con chi vuole (magari con gli stessi pedofili)? Ma se è tale, col peso insopportabile di preti che falliscono, che ne combinano di tutti i colori (beh, non esageriamo, sono pochi, ed è qui l’ipocrisia di un vescovo che, dopo aver messo al rogo alcuni preti, già crocifissi dai mass media, esce in un elogio sperticato per i preti presenti in Duomo), la colpa non è anche di chi dovrebbe pensare all’educazione del proprio clero, soprattutto da parte di chi non dovrebbe mai trasformare il cuore di un padre in un cuore di pietra?
Sì, questa è stata la mia impressione, tanto da esclamare dentro di me: “Questo vescovo mi ha rovinato il Giovedì santo”.
Come si può sopportare un vescovo che, per salvare la faccia, usa la frustra per colpire a morte alcuni suoi preti, sapendo che poi le sue dure parole di condanna sarebbero immediatamente rimbalzate sulle pagine dei giornali, vedi il Corriere della Sera?
Mi è sembrato che il vescovo finalmente sputasse il rospo, ma che il rospo anche stavolta fosse solo un grumo di un complesso male che fa presa in alcuni, i più deboli, e non nelle più alte gerarchie. Eppure, girano voci che il rospo abiti tranquillo nella Curia milanese.
Una Messa sì crismale, nel senso che il vescovo ha usato il crisma del suo potere di parola come una condanna senza appello, lanciata da un pulpito di fredda pietra.
Sì, stavolta non te la perdoniamo, vescovo Delpini, ma l’occasione l’avrai per compiere un gesto di umiltà, quando sarai costretto, contro la tua volontà, a festeggiare il tuo 50° anniversario di ordinazione sacerdotale.
Cinquant’anni di vita sacerdotale! Quanto bene, e anche quante omissioni… quante cantonate… Dicono che ogni vescovo abbia sulla coscienza decine e decine di preti finiti male, anche suicidi. Che peso!
Ogni fallimento di un prete è la prova del fallimento del proprio vescovo.
In ogni caso, meglio errori per un cuore di carne che errori per un cuore di pietra.
Gli eccessi di paternità troveranno sempre davanti a Dio delle attenuanti, mentre i delitti di un cuore di pietra lasceranno conseguenze disastrose.
Vescovo Mario, lascia il timone a un altro vescovo, senza pensare al tuo successore come ha fatto il tuo predecessore, creando la premessa per la tua “infelice” nomina.
Oggi, Giovedì Santo, 17 aprile 2025, hai dimostrato che la tua imbecillità è oramai irreversibile. Ho sentito un gelo stendersi su quella assemblea di preti, di nuovo delusi da un vescovo senza cuore di carne.
Anche chi non era fisicamente in Duomo, si è sentito povera pecora confusa di un gregge senza pastore.
Vi invito a leggere
Per il testo dell’omelia
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