Apartheid in Israele, ultimo baluardo del colonialismo territoriale

Gaza City, palestinesi ieri tra le macerie delle loro case distrutte dai bombardamenti aerei israeliani
© AP/Khalil Hamra
da Il Manifesto

Apartheid in Israele,

ultimo baluardo del colonialismo territoriale

La guerra promessa. Il controllo israeliano sulla narrazione internazionale fa sì che il terrorismo di Stato sia sottaciuto insieme al rifiuto opposto negli ultimi 15 anni alle mosse diplomatiche di Hamas

Richard Falk*

18.05.2021
La crisi israelo-palestinese si aggrava e si estende, cresce il numero di vittime, il fumo degli edifici distrutti oscura il cielo di Gaza, si susseguono rivolte nelle strade di molte città israeliane e della Cisgiordania, la polizia israeliana disturba i fedeli fin dentro la moschea di Al-Aqsa.
E protegge i coloni ebrei estremisti che gridano slogan genocidi durante le loro incursioni nei quartieri palestinesi. Alla base delle tensioni esplose fra oppressori e oppressi, gli sfratti praticamente legalizzati di sei famiglie palestinesi residenti da tempo a Sheikh Jarrah. Espulsioni che incarnano il lungo calvario palestinese, fatto di persecuzioni e di esilio in quella che anche psicologicamente rimane la loro patria. Mentre l’incubo prosegue, all’Onu le luci rimangono scandalosamente fioche. I leader occidentali invitano pateticamente alla moderazione entrambe le parti, distribuendo equamente il biasimo, mentre affermano perversamente l’unilateralità del diritto di Israele a difendersi, come se fosse stata aggredita di punto in bianco.
SI TRATTA SOLO di un ennesimo ciclo di violenza che esprime l’irresolubile scontro tra un popolo autoctono sopraffatto da un intruso coloniale in forza di un presunto diritto radicato nella religione? Oppure stiamo assistendo all’inizio della fine della lotta secolare portata strenuamente avanti dai palestinesi in difesa della loro patria, contro il progetto sionista che ha rubato la loro terra e calpestato la loro dignità, trasformandoli in estranei oppressi in quella che era stata la loro casa per secoli? Solo il tempo potrà rispondere. Intanto, possiamo aspettarci altri spargimenti di sangue, altre vittime, azioni indegne, dolore, ingiustizie. E il proseguire delle ingerenze geopolitiche.
PER GLI ISRAELIANI e gran parte dell’Occidente, la narrativa pro-israeliana continua a sottolineare la violenza di un’organizzazione terroristica, Hamas, che sfida con intenti distruttivi il pacifico Stato di Israele, rendendone ragionevole la reazione, sia per contrastare l’invio dei razzi, sia come dura lezione punitiva nei confronti di Gaza, con finalità di deterrenza rispetto a futuri attacchi terroristici. I missili e i droni israeliani sono considerati «difensivi», mentre i razzi sono atti di «terrorismo». Eppure di rado vengono colpiti bersagli umani in Israele, mentre sono le armi israeliane a causare il 95% della morti e dei danni, a Gaza dove vivono oltre due milioni di palestinesi, vittime oltretutto di un blocco illegale dal 2007.
NELL’ATTUALE CONFLITTO, il controllo di Israele sulla narrazione internazionale fa sì che il terrorismo di Stato venga sottaciuto, insieme al rifiuto opposto da Israele negli ultimi quindici anni alle mosse diplomatiche di Hamas, che pure ha ripetutamente cercato un cessate il fuoco permanente e una coesistenza pacifica.
Per i palestinesi, e per chi è solidale con la loro lotta, Israele ha consapevolmente permesso che la popolazione soggiogata di Gerusalemme Est sperimentasse una serie di angoscianti umiliazioni durante il periodo sacro del Ramadan, gettando sale su ferite già aperte, con gli sgomberi di Sheikh Jarrah, che hanno avuto l’inevitabile effetto di ravvivare nei palestinesi la memoria delle loro esperienze di pulizia etnica, giorni prima della commemorazione annuale della Nakba il 15 maggio. Si è trattato di una metaforica rievocazione di quel massiccio crimine di espulsione che accompagnò la nascita di Israele nel 1948, quando centinaia di villaggi palestinesi furono rasi al suolo, chiaro segno dell’intenzione israeliana di rendere permanente l’esilio.
A differenza del Sudafrica, che non pretese mai di essere democratico, lo Stato di Israele si è legittimato presentandosi come una democrazia costituzionale. Una volontà costata molto in termini di inganno e auto-inganno, poiché ha richiesto una continua lotta per far funzionare l’apartheid, così da assicurare la supremazia ebraica nascondendo al tempo stesso l’assoggettamento dei palestinesi. Per decenni lo Stato di Israele è riuscito a celare agli occhi del mondo questo carattere di apartheid, perché il retaggio dell’Olocausto ha assicurato un’adesione acritica al discorso sionista – la necessità di fornire rifugio ai sopravvissuti del peggior genocidio conosciuto dall’umanità.
Inoltre, la presenza ebraica stava facendo fiorire il deserto, mentre allo stesso tempo cancellava virtualmente le ingiurie inferte alla Palestina (ulteriormente sminuite dal racconto dell’arretratezza palestinese in contrasto con il coraggio modernizzatore israeliano), e più tardi dipingeva in modo caricaturale i due popoli, contrapponendo l’adesione ebraica ai valori occidentali e il presunto abbraccio palestinese del terrorismo.
SVILUPPI RECENTI nei domini simbolici della politica, che controllano l’esito delle guerre di legittimità, hanno segnato diverse vittorie per la lotta palestinese. La Corte penale internazionale ha autorizzato l’indagine sui crimini dello Stato di Israele nella Palestina occupata dal 2015, nonostante la veemente opposizione della leadership israeliana, pienamente sostenuta dagli Stati Uniti. Solo pochi anni fa, un rapporto accademico commissionato dalle Nazioni unite che accusava Israele di apartheid è stato bollato da Washington e da Israele come prova della parzialità delle Nazioni Unite. Negli ultimi mesi sia B’Tselem – la principale organizzazione non governativa israeliana per i diritti umani – che Human Rights Watch, hanno pubblicato studi accuratamente documentati che arrivano a una conclusione impressionante: Israele amministra effettivamente un regime di apartheid in tutta la Palestina storica, cioè i Territori occupati e Israele stesso.
QUESTI DUE SVILUPPI non alleviano le sofferenze palestinesi né gli effetti della perdurante negazione dei diritti fondamentali. Tuttavia, sono vittorie simboliche significative, che rafforzano moralmente la resistenza palestinese e i legami di solidarietà globale. Sulla base dei precedenti storici a partire dal 1945, si può legittimamente pensare che la parte che vince la guerra della legittimità, alla fine controllerà il risultato politico, anche se è più debole militarmente e diplomaticamente. L’esito dell’apartheid in Sudafrica rafforza questa ricalibratura dell’equilibrio delle forze nella lotta palestinese.
Il regime razzista di Pretoria, malgrado avesse, almeno in apparenza, un controllo efficace e stabile della maggioranza nera della popolazione, grazie a brutali strutture di apartheid, implose sotto il peso combinato della resistenza interna e della solidarietà internazionale. Le pressioni esterne comprendevano una campagna Bds (boicottaggio, disinvestimenti, sanzioni) ampiamente diffusa e che godeva dell’appoggio delle Nazioni Unite. Israele non è il Sudafrica in una serie di aspetti chiave, ma la combinazione fra resistenza e solidarietà è aumentata in modo evidente nella settimana scorsa.
È forse opportuno ricordare la celebre osservazione di M.K. Gandhi: «Prima ti ignorano, poi ti insultano, poi ti combattono, poi vinci».
* professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton. Nel 2008, il Consiglio sui Diritti Umani ONU (Unhcr lo ha nominato per due mandate triennali Rapporteur speciale dell’Onu su “la situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967”.

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