Achille Serra: «Il mio amico Luigi Calabresi è stato ucciso ogni giorno, per due anni e mezzo»
I funerali di Luigi Calabresi: il giovane Achille Serra è tra coloro che portano la bara (nel riquadro, oggi)
dal Corriere della Sera
Achille Serra:
«Il mio amico Luigi Calabresi
è stato ucciso ogni giorno, per due anni e mezzo»
di Cesare Giuzzi
Il prefetto fu il primo ad arrivare la mattina del 17 maggio 1972 in via Cherubini: «Era ancora vivo, mi attaccai alla radio. Sua moglie aprì la porta e disse: ho capito tutto. Il questore? Mi guardò piangendo»
Nelle due vicende che segnano la storia di Milano, e indelebilmente quella dell’Italia del Dopoguerra, Achille Serra entra in prima persona, da giovane poliziotto. La sua è la prima volante ad arrivare il 12 dicembre 1969 alla Banca nazionale dell’agricoltura di piazza Fontana. Lui, passato alla squadra Mobile, è il primo ad arrivare la mattina del 17 maggio 1972 in via Cherubini. Di Luigi Calabresi era amico, entrambi romani, divisi da solo quattro anni d’età (qui il ricordo del figlio Mario Calabresi).
Prefetto Serra, che ricordo ha del commissario Calabresi?
«Uomo mite, religioso, uno straordinario padre di famiglia, un bellissimo uomo. L’ho conosciuto nel ‘69. Al mio arrivo a Milano, avevo 28 anni e fui affidato a lui che era all’Ufficio politico ma aveva già grande esperienza. Nacque un feeling straordinario. Mi insegnò moltissimo, soprattutto una cosa».
Quale?
«Il dialogo, il punto di riferimento della mia vita professionale».
Lei era il “poliziotto senza pistola”, che è diventato anche il titolo del suo libro. Anche Calabresi non portava mai l’arma d’ordinanza.
«Ho questo ricordo indelebile: un giorno mi dice di salire in auto, usciamo dalla Questura e andiamo in piazza della Repubblica. C’era una manifestazione del movimento studentesco, avevano cattive intenzioni nei confronti del consolato americano».
Erano gli anni delle rivolte di piazza, dei movimenti operai e studenteschi, di Lotta continua…
«Non erano anni facili per la polizia, a quei tempi si discuteva di disarmare gli agenti. Arriviamo in piazza, Calabresi scende e si avvicina agli schieramenti. Io pensavo che stesse per ordinare la carica, mi nascosi dietro la macchina. Invece vidi una scena fantastica: andò prima a parlare con il movimento studentesco, poi con gli agenti».
Immaginava che Calabresi potesse essere ucciso?
«Ne avevo la certezza matematica. Non ero il solo. Sui muri, nei documenti firmati da certi intellettuali famosissimi, nei cortei c’erano striscioni “Calabresi assassino”. Luigi è stato ucciso ogni giorno, per due anni e mezzo».
Una campagna incessante che trasformò il commissario in un simbolo oltre che in un obiettivo. Perché nessuno fece nulla?
«Sono molto inquieto quando penso al governo di allora che non prese provvedimenti che gli avrebbero salvato la vita. Poteva essere trasferito d’ufficio».
Morì senza scorta.
«Eravamo nel cortile di via Fatebenefratelli, gli chiesi: “Gigi, ma perché non te ne vai? Tua moglie è incinta, ci sono i figli”. Lui mi rispose: “Ma perché me ne devo andare, cos’ho fatto? Tu che faresti?”. Ecco, lo avrei fatto anch’io».
Calabresi venne ucciso da un commando di Lotta continua per vendicare la morte in Questura di Giuseppe Pinelli al termine dell’interrogatorio per la strage di piazza Fontana. Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani nel 2000 sono stati condannati in via definitiva.
«Come tutti sanno Calabresi era in un’altra stanza quando morì il povero Pinelli. E questo è assodato. In realtà era in grande confidenza con Pinelli, si scambiavano libri».
Oggi saranno 50 anni dall’omicidio. Cosa ricorda di quella mattina?
«Arrivò la chiamata, avevano sparato a un uomo in strada in via Cherubini. Il capo della mobile mi mandò subito lì. I vicini di casa mi dissero che si trattava di Luigi, il corpo era già stato portato via dall’ambulanza. Era ancora vivo. Mi attaccai alla radio: hanno ammazzato Calabresi, fate venire il questore, tutti i dirigenti. Lui non era ancora morto in quel momento».
Anche in piazza Fontana fu il primo ad arrivare.
«Si pensava allo scoppio di un tubo del gas. In questi casi si manda il più giovane, ero a Milano da pochissimo. Vidi una scena che ho ancora negli occhi e che non dimenticherò mai. Mi attaccai alla radio: mandate cento ambulanze. Mi presero per matto, inesperto. Purtroppo non mi sbagliavo».
In via Cherubini fu lei insieme al questore Ferruccio Allitto a parlare alla moglie del commissario.
«Allitto era un uomo di grande durezza, sapeva che conoscevo bene Calabresi: “accompagnami su dalla moglie”. Lei aprì e disse: “ho capito tutto”. Una grandissima donna, ricordo la sua dignità».
Cosa le disse il questore?
«Mi guardò piangendo: “hanno ucciso il mio migliore uomo”».
Il giorno dei funerali lei fu tra i poliziotti che portarono la bara di Calabresi. Martedì mattina sarà alle celebrazioni in suo ricordo.
«Lottammo contro il capo della polizia Angelo Vicari per accompagnare la bara dalla questura alla chiesa di San Marco. Non volevano si facesse un corteo. Quella fu una vergogna nazionale. Un uomo così grande non poteva essere nascosto. Sono particolarmente onorato di averlo fatto».
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