Mario Draghi, tre ragioni per non dimettersi

dal Corriere della Sera

Mario Draghi,

tre ragioni per non dimettersi

Mario Monti | 17 luglio 2022
Il rispetto e l’eredità: il senso del dovere verso lo Stato, verso i cittadini, è al di sopra di ogni altra considerazione
Non credo che Mario Draghi abbandonerà in questo momento la responsabilità di presidente del Consiglio. Sarebbe una mancanza di rispetto verso il Paese e i cittadini. E potrebbe intaccare la legacy dello stesso Draghi, il suo posto nella storia. È totalmente comprensibile l’amarezza provata dal presidente Draghi di fronte ai meschini giochi praticati da vari partiti, in tempi recenti e meno recenti, a danno del governo e del Paese. Né si può accettare che i fulmini dei giorni scorsi — scariche incrociate di «ira funesta» — carbonizzino la vita politica. E in tal modo «adducano infiniti lutti» agli italiani, in una fase già piena di difficoltà.
L’intervento pacato e fermissimo del presidente Mattarella ha impedito che lo sconquasso si producesse all’istante, ha creato un breve spazio di riflessione e, senza additare nessuno, ha richiamato tutti alla responsabilità. Difficile dire come reagiranno le forze politiche. Dico «forze», ma in realtà sono quasi tutte sofferenti e a brandelli; la «forza» è quella di Draghi. Anche per questo, non solo spero — unendomi al consenso senza precedenti che viene dall’Italia, dall’Europa e dal mondo — ma sono convinto che il capo del governo non lascerà.
In primo luogo, per rispetto del Paese. Quando una personalità esterna alla politica viene chiamata dal capo dello Stato e dal Parlamento a larghissima maggioranza a trarre il Paese da situazioni di grave emergenza, quella persona non accetta un prestigioso incarico, nel contesto di un cursus honorum, magari in attesa di una carica ancora più alta. Nasce, ho sempre pensato, un vero rapporto morale tra quella persona e i cittadini. L’incaricato sa che la capacità o meno del suo governo di conseguire la missione alla quale è stato chiamato è di vitale importanza per il Paese. Il senso del dovere verso lo Stato, verso i cittadini, è al di sopra di ogni altra considerazione. Anche se i politici, all’inizio osannanti, diventano ostili a causa dell’impopolarità di certe misure necessarie e da loro stessi approvate; anche se essi creano ostacoli che possono appannare la reputazione del governo o di chi lo guida, non c’è spazio per considerazioni personali.
Riferendosi alla propria situazione nel giorno della rielezione a capo dello Stato, il 29 gennaio scorso, il presidente Mattarella pronunciò parole nitide: «La grave emergenza che stiamo tuttora attraversando sul versante sanitario, su quello economico e su quello sociale richiamano al senso di responsabilità e al rispetto delle decisioni del Parlamento. Queste condizioni impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati, e naturalmente devono prevalere su altre considerazioni e su prospettive personali differenti». Parole che potrebbero applicarsi oggi al presidente del Consiglio, al quale il Parlamento ha appena rinnovato la fiducia.
In secondo luogo, è anche per rispetto della propria legacy, per salvaguardarla forte e luminosa come è oggi, che a mio parere. il presidente Draghi non lascerà. Egli è stato chiamato a risolvere le difficoltà dell’Italia nel febbraio 2021. Di fronte a lui stavano due anni abbondanti di legislatura. Lavorando a testa bassa sul programma — impegnativo ma gratificante, non di puro salvataggio del Paese ma di costruzione di una nuova Italia con le risorse dell’Europa conseguite dal governo precedente e con la fiducia che l’Europa stessa ripone in Draghi più che in ciascun altro — si sarebbe potuto realizzare moltissimo. Molto sarà comunque realizzato, per la capacità di Draghi e del suo governo.
Se ora si dovesse giungere ad elezioni anticipate, il risultato sarebbe che, di 26 mesi di «bonus Draghi» toccato in sorte al Paese grazie all’intuizione del presidente Mattarella, una parte non sarà stata utilizzata a pieno regime e un’altra parte non sarà stata utilizzata del tutto.
Molto è stato comunque realizzato, dicevo. Ma sotto il profilo economico, finanziario e delle riforme strutturali, il cammino è incompiuto. E mantiene aspetti di fragilità, che richiedono altro lavoro. Ciò vale tanto per il consolidamento della finanza pubblica, quanto per l’attenzione, inadeguata, alla distribuzione dei redditi, anche attraverso un sistema fiscale più favorevole ai giovani e alle fasce deboli. In parte a causa del lavoro ancora da realizzare, la situazione dello spread non è quella che sarebbe lecito attendersi al concludersi di un governo Draghi. Lo spread dell’Italia è aumentato più di quello di vari altri Paesi ed è molto più alto di quello riscontrato all’inizio dello stesso governo. Dato l’andamento di queste variabili nel tempo, se dovessero ulteriormente peggiorare all’indomani di eventuali dimissioni definitive di Draghi, come fortunatamente non è avvenuto dopo quelle della settimana scorsa, sarebbe difficile sostenere che il quadro finanziario italiano sia peggiorato, come ci si sarebbe attesi, a causa della partenza dell’ex presidente della Bce.
In terzo luogo, che cosa si direbbe dell’Italia all’estero, se si dovesse constatare che perfino l’italiano più credibile e rispettato decide di lasciare prima del tempo un impegno di così grande responsabilità? Vogliamo uno scudo antispread o anche uno scudo contro atti inattesi dei più credibili protagonisti della vita italiana?
Per tutti questi motivi, faccio davvero fatica a immaginare che Mario Draghi rassegni in via definitiva le dimissioni da presidente del Consiglio. La forza della ragione, non solo la speranza, mi induce a credere che ciò non avverrà.
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dal Corrierte della Sera
LA LETTERA DELLO SCRITTORE

«CARO PRESIDENTE,

ECCO PERCHÉ NON DEVE MOLLARE»

di Antonio Scurati 17 lug 2022
Esimio Presidente Draghi, mi scuso in anticipo di queste mie parole. Le sto, infatti, scrivendo per chiederle di umiliarsi.
Le sue dimissioni non sono verosimilmente dettate da un moto d’orgoglio ma, par di capire, da un contesto deteriorato al punto da rendere impossibile il grave compito che si era assunto. Invitarla a rinnovare la sua disponibilità a governare il Paese dopo quanto accaduto credo, però, che significhi anche chiederle di rinunciare a una quota del suo amor proprio. Scendere a patti con la misera morale che spesso, troppo spesso, accompagna la condizione umana dei politicanti è mortificante per chiunque. Eppure, sicuro di interpretare il sentire di moltissimi italiani, è proprio questo che le chiedo di fare.
Qualunque cosa si voglia pensare di lei, non si può negare che la sua sia la storia di un uomo di straordinario successo. Durante tutta la sua vita, lei ha bruciato le tappe di una carriera formidabile. Prima da Governatore della Banca d’Italia e poi da Presidente della Banca centrale europea, lei ha retto le sorti di una nazione e di un continente; le ha tenute in pugno con il piglio del dominatore, sorretto da una potente competenza, baciato dal successo, guadagnando una levatura internazionale, un prestigio globale, un posto di tutto rispetto nei libri di storia. Ha conosciuto il potere, quello vero, ha conosciuto la fama degli uomini illustri, la vertiginosa responsabilità di chi, da vette inarrivabili, decide quasi da solo della vita dei molti.
Poi, però, è sceso in politica. Non che in precedenza le fosse estranea, tutt’altro. Però, quando ha accettato di presiedere il consiglio dei ministri, per lei è, in un certo senso, cominciata la fase discendente della sua parabola. Dall’empireo della più importante istituzione monetaria europea – dove immagino che le lotte di potere siano comunque feroci ma combattute ad altezze olimpiche – ha accettato di battersi nelle fosse della politica politicante dove il combattimento è quasi sempre brutale, rozzo, sleale e meschino. A capo di un Governo di unità nazionale, sostenuto e, al tempo stesso, ostaggio di numerosi partiti e di ancor più numerosi leader e leaderini, lei, all’età di 73 anni, ha acconsentito a scendere in quell’arena dove la politica è «sangue e merda».
Personalmente non prediligo i banchieri a capo del governo né apprezzo i governi usciti da combinazioni parlamentari e non delle urne. So, però, che la politica è la figlia bastarda della storia. Letta in una prospettiva storica, la sua disponibilità a governare l’Italia in un momento di crisi epocale mi apparve e mi appare come un indubbio gesto di generosità al servizio del Paese. Si narra che questi diciassette mesi di governo siano stati per lei fonte di amarezza crescente. Non so se sia vero ma non credo che la questione sia di ordine psicologico. L’ultimo anno e mezzo è stato sicuramente, oggettivamente, per lei e per noi tutti, tra i più difficili e terribili della storia recente.
Ciò che sta accadendo in queste ore ripropone, purtroppo, un copione già andato in scena molte volte sulla ribalta del nostro Paese, irresistibilmente sedotto dalla commedia: la tragedia che scade in farsa. Ora lei, pur dovendo fronteggiare una pandemia, una guerra, una crisi economica con pochi precedenti e una ambientale senza uguali, è spinto alle dimissioni da un accanito torneo di aspirazioni miserabili, da sudicie congiure di palazzo, da calcoli meschini, irresponsabili e spregiudicati di uomini che, presi singolarmente, non valgono un’unghia della sua mano sinistra. Si racconta che un giorno un funzionario disonesto sia stato trascinato al cospetto di Talleyrand. Pare che il piccolo uomo, per giustificare le sue malefatte, abbia detto: «Eccellenza, si deve pur campare». Si racconta che il grande uomo, pari di Francia, lo abbia fulminato con queste parole: «Non ne vedo la necessità». Ebbene, è la sola giustificazione che molti dei parlamentari italiani responsabili della attuale crisi potrebbero addurre. È la sola risposta che noi dovremmo opporre.
Io non sono un politologo. Interpreto, più modestamente, la realtà da romanziere. Tutto ciò premesso, devo concludere che se lei domani, dopo le sue risolute, dignitose e sdegnose dimissioni, tornasse sui suoi passi e rinnovasse la sua disponibilità a guidare il paese in questa crisi epocale fino alla scadenza della legislatura, la sua diverrebbe la storia di una caduta. Ed è proprio questo che io e moltissimi italiani le chiediamo: faccia torto a se stesso, rinunci perfino al senso della sua dignità personale, si sminuisca nello stillicidio quotidiano del governo di uomini che hanno a cuore soltanto l’imminente tornaconto elettorale. Quel che tanti italiani le chiedono sarebbe, me ne rendo conto, davvero un grande sacrificio personale in nome dell’interesse generale. Il suo personaggio ne uscirebbe, forse, diminuito ma la sua persona conoscerebbe un nuovo genere di grandezza.

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