19 aprile 2020: SECONDA DI PASQUA
A t 4,8-24a; Col 2,8-15; Gv 20,19-31
Il terzo brano della Messa riporta la conclusione del Vangelo di Giovanni. Il capitolo che segue, il 21, è un’aggiunta posteriore.
Giovanni, dunque, chiude il suo Vangelo con queste parole: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome».
Don Angelo Casati commenta: «Una fede – bellissimo! – in funzione della vita! Ultimissime parole di un vangelo: la beatitudine della fede e la vita che ne scaturisce».
Segni
Anzitutto, vorrei far notare ancora una volta – non è mai esagerato farlo – che Giovanni usa la parola “segno”, in greco σημεῖον, a indicare i miracoli o le cose strepitose. “Segno” significa qualcosa che rivela una realtà misteriosa, una realtà che va colta al di là del fatto o del miracolo in sé.
Che cos’è dunque un segno? Sant’Agostino ha una risposta concisa e splendida: «Il segno è una cosa che ne fa venire in mente un’altra».
Gesù non ha mai compiuto miracoli fini a se stessi, tanto per far colpo sulla gente, anche se la gente, anche ai tempi di Gesù, correva dietro ai cosiddetti santoni taumaturghi.
Ogni gesto di Gesù aveva uno scopo ben preciso: rivelare il Mistero divino, o educare la gente a cogliere il significato profondo nascosto nelle cose.
Potrebbe sembrare paradossale: è più facile cogliere la presenza di Dio nelle cose più semplici che nei miracoli, in cui prevale l’aspetto spettacolare, l’onnipotenza divina che interviene colpendo o meravigliando i nostri sensi. Per aprire i nostri occhi interiori basterebbe un pizzico di Grazia o di Luce divina.
Solo alcuni segni in vista della fede e della vita
E non servono numerosi ”segni”, ecco perché Giovanni ne ha nominati solo alcuni, lasciandoci racconti (pensiamo al pozzo della samaritana, al dialogo con Nicodemo, al cieco nato o alla risurrezione di Lazzaro), che sono stati a lungo, per decenni e decenni, ricostruiti anche con arte narrativa e soprattutto con fede mistica da una comunità matura e profetica, come lo era quella di Giovanni.
Giovanni stesso conclude il suo Vangelo dicendo chiaramente il motivo per cui Gesù compiva i “segni”: «perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome».
Giovanni termina il suo Vangelo, così come lo aveva iniziato col Prologo, in cui troviamo in anticipo i temi che saranno poi sviluppati nel Vangelo: il tema della luce e il tema della vita. Luce, ovvero fede mistica; vita, ovvero grazia.
Ecco allora il commento di don Angelo Casati: «Una fede in funzione della vita! Ultimissime parole di un vangelo: la beatitudine della fede e la vita che ne scaturisce».
Se la vita fisica proviene dalla luce, per cui secondo gli scienziati prima ci sarebbe stata la luce, poi la vita, così secondo la Mistica prima c’è la Luce divina, poi la Vita eterna.
Giovanni, non a caso, e neppure per un motivo cronologico, ha raccontato prima il miracolo del cieco dalla nascita, poi la risurrezione di Lazzaro.
E già dal racconto del cieco nato possiamo anche capire il rapporto tra la vista e l’acqua. Gesù mette il fango sugli occhi di quel cieco, poi lo manda a lavarsi nella piscina di Siloe, e il cieco va, si lava e ci vede. Un discorso anche questo da fare: sul rapporto tra luce, vita, acqua e Spirito santo (pensate all’episodio della samaritana e del battesimo di Gesù nel Giordano). Però una cosa sarebbe da dire: non si può interpretare i “segni” compiuti da Gesù solo tenendo conto di un aspetto: della luce, o della vita, o della grazia, o dell’acqua, o dello Spirito santo.
Basterebbe pensare alla Croce, quando Gesù muore. Giovanni vede la Croce come una glorificazione, quindi nella Luce. Gesù dice: “Ho sete!”. Di quale acqua aveva sete? Gesù, mentre muore, ci consegna il suo spirito, ovvero lo Spirito santo, che è l’energia vitale.
Non solo i pittori, ma anche i teologi e la stessa liturgia della Chiesa, interpretando in senso negativo certe espressioni evangeliche, hanno visto e tuttora vedono il mistero della Croce come qualcosa di fosco, di opprimente, di violento: un Crocifisso scarnificato, quasi disperato, in un contesto di radicale solitudine, nel momento di una eclissi totale di sole, ma la Mistica non vede così il momento più drammatico di Cristo che muore. Cristo, mentre muore, ci dona lo Spirito santo, ed è già risurrezione ed è già pentecoste.
Tommaso e il rimprovero di Gesù
L’episodio dell’apostolo Tommaso che, incredulo, vorrebbe per credere una prova tangibile del Cristo risorto, ovvero vedere e toccare le sue piaghe, permette al Risorto di darci una lezione di fede. «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Tommaso vuole “vedere” fisicamente, dunque con gli occhi carnali, e Gesù dice che la vera beatitudine non sta qui, ma sta nel credere senza vedere o toccare fisicamente o carnalmente. «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Una Chiesa che vive di carnalità, di esigenze esteriori che esigono prove tangibili non solo non merita la beatitudine del Risorto, ma è già morta in partenza.
Ecco perché insisto, e lo faccio ripetutamente, nel distinguere tra il Cristo storico e il Cristo della fede. Insisto perché non mi sembra che ancora oggi la Chiesa abbia compreso la differenza tra il Cristo storico e il Cristo della fede.
Il Cristo storico è morto definitivamente sulla storia, e dalla morte è nato lo Spirito santo, ovvero il Cristo della fede.
Il Cristo storico è quello dell’incredulo Tommaso, mentre il Cristo della fede è la beatitudine di chi crede senza vedere, senza toccare, senza sperimentare emozioni o sensazioni particolari.
Ripensiamo alle parole di Gesù a Marta, sorella di Lazzaro: «Io sono la risurrezione e la vita»: Gesù parlava già da Risorto. Era già il Cristo della fede.
“Io sono la Risurrezione”, ovvero io sono il Risorto della fede.
“Io sono la vita”: la vita dunque scaturisce dalla Risurrezione, ovvero dal Cristo della fede.
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