Come lo smart working sta cambiando per sempre la nostra esperienza del tempo

Rassegna sociologica

Come lo smart working sta cambiando per sempre

la nostra esperienza del tempo

di ELENA TEBANO
Lo smart working è molto più che smart working: è una riorganizzazione del tempo di vita e di lavoro delle persone, destinata ad avere conseguenze durature, ad aprire opportunità finora impensate ma anche rischi che è necessario prevenire. Lo sconvolgimento portato tre anni fa dalla pandemia nelle modalità di lavoro di moltissime persone è infatti molto più radicale di quanto non possa sembrare. Ed è iniziato ben prima della pandemia, che lo ha solo accelerato enormemente e trasformato in pochi giorni in un fenomeno di massa. Lo spiega lo storico dell’Università di Stanford Fred Turner in un intervento sul New York Times Magazine. Turner studia l’impatto delle nuove tecnologie sulla cultura e la società e nell’articolo, un vero e proprio mini-saggio, analizza le trasformazioni nella percezione ed esperienza del tempo a partire dalla rivoluzione industriale, che — come è noto — lo ha laicizzato (cioè sottratto all’autorità della religione) e reso uno strumento di produzione e controllo dei lavoratori.
«La gente lavorava da casa da anni, ma non su questa scala. Prima della pandemia, i ritmi della giornata, almeno per i lavoratori d’ufficio, erano rimasti per lo più invariati da cento anni. Ma ora il patto sociale dell’era industriale che ha governato il modo in cui abbiamo vissuto la giornata lavorativa per generazioni si sta rompendo. I termini di questo patto ci sono così familiari che non li nominiamo quasi mai: il lavoro dovrebbe essere misurato in base al tempo, in ore e giorni; le persone dovrebbero essere pagate allo stesso modo per lo stesso lavoro; la giornata dovrebbe essere suddivisa in periodi di lavoro e di svago» scrive Turner. «Fino a poco tempo fa, la distanza fisica tra il luogo di lavoro e la casa contribuiva a garantire questi termini. Il pendolarismo imponeva un confine tra tempo professionale e tempo personale che milioni di persone osservavano ogni giorno. Lo stesso valeva per il calendario, che divideva le giornate in giorni feriali per il lavoro e weekend per il tempo libero. Oggi i computer in rete stanno dissolvendo questa divisione e, con essa, il patto sociale temporale dell’era industriale».
Lo smart working e l’intermediazione digitale dei servizi (come quella che regola il lavoro degli autisti di Uber) hanno portato a una nuova flessibilità del lavoro che per molti lavoratori è positiva, perché permette loro di organizzare i tempi di lavoro in modo che siano compatibili con quelli di vita. Per molti lavoratori — per esempio quelli della conoscenza — avere un portatile o un cellulare che li connette 24 ore su 24 agli strumenti di lavoro ha significato, ben prima della pandemia, portarsi il lavoro a casa ed essere reperibili in ogni momento, anche quando il loro contratto non lo prevede. Ma anche poter svolgere il lavoro quotidiano da remoto, avendo la possibilità per esempio di stare con i propri figli e poi rimettersi a lavorare, oppure di trasferirsi in luoghi più piacevoli della città in cui si trovano i loro uffici. Fino alla pandemia i lavoratori subivano la prima parte di questo cambiamento — una reperibilità di fatto senza limiti — ma potevano godere molto meno spesso della seconda, che è stata possibile per i più grazie alla formalizzazione dello smart work su scala di massa con i lockdown. Chi l’ha provata non vuole più rinunciarci: tutti i sondaggi mostrano che la maggioranza dei lavoratori vuole usufruire della possibilità di lavorare in remoto per più giorni alla settimana, passando gli altri nella propria sede di lavoro, il cosiddetto lavoro ibrido. È bene tenerlo a mente di fronte ai datori di lavoro che si oppongono allo smart working: quasi sempre sono contrari solo alla seconda parte della flessibilità ma non hanno alcun problema a telefonare o mandare mail ai loro dipendenti fuori dall’orario di ufficio.
Un passo indietro: prima della rivoluzione industriale il luogo di lavoro erano le case, e le persone spesso lavoravano, mangiavano e dormivano nelle stesse stanze. Con l’affermarsi dell’industria il luogo di lavoro è diventato la fabbrica dove gli operai (compresi i bambini) lavoravano tra le 12 e le 14 ore al giorno. La lotta per la riduzione dell’orario dei lavoro è nata per altro proprio dalla «preoccupazione» per i bambini, con una campagna nell’Inghilterra del 1830 per ridurne l’orario di lavoro a «solo» dieci ore al giorno. Negli Stati Uniti i lavoratori ottennero di ridurre a 8 ore la giornata lavorativa nella seconda metà dell’Ottocento (il loro slogan di lotta era «Otto ore per il lavoro, otto ore per il riposo, otto ore per ciò che vogliamo») e la giornata lavorativa di 8 ore giornaliere e 44 settimanali con l’obbligo di pagare gli straordinaria fu definitivamente formalizzata nel 1938 grazie al Fair Labor Standards Act. Non solo per gli operai, ma anche per gli impiegati. In Italia il limite di 8 ore al giorno e 48 ore a settimana fu introdotto per la prima volta nel 1923 sotto il fascismo.
«In fabbrica, il tempo è diventato uno strumento per lo sfruttamento dei lavoratori. Ma il sistema della fabbrica ha anche contribuito a creare un altro tipo di tempo, lontano dal lavoro, da usare come si vuole. Separando il luogo di lavoro dalla casa, il sistema di fabbrica ha fatto sì che i lavoratori dividessero le loro giornate in ore che appartenevano ai loro datori di lavoro e ore che appartenevano a loro stessi» spiega ancora Turner. «Nel XIX secolo, la casa doveva rappresentare un rifugio dal mondo esterno. Ma all’inizio degli anni Duemila, le sue mura sono state ampiamente superate».
(Una parentesi: nell’analisi di Turner c’è un non detto, ovvero un’assunzione di genere che lui dà per scontata: parla in termini universali di lavoro ma pensa solo ai lavoratori uomini. Per le donne la casa non è mai stata un luogo libero dal lavoro. È stata il luogo del doppio lavoro non riconosciuto e non retribuito. Non bisogna dimenticarlo).
Questo modo di dividere il tempo ha retto per oltre un secolo, ma è stato spazzato via da una nuova rivoluzione tecnologica: quella del digitale. «In breve tempo i computer portatili e gli smartphone hanno reso possibile lavorare da qualsiasi luogo e in qualsiasi momento. Gli effetti di questa trasformazione variano molto a seconda della professione svolta — scrive Truner —. Le stesse tecnologie di base che permettono a uno sviluppatore di software della Silicon Valley di trasferirsi in Colorado e lavorare da un rifugio di montagna tengono sulle spine i baristi di Starbucks e gli operatori sanitari a domicilio. Nell’era industriale, gli orari di lavoro dovevano essere stabiliti in anticipo. Era possibile cambiare i turni all’ultimo minuto, ma un datore di lavoro poteva non essere in grado di trovare i lavoratori che cercava se non si trovavano vicino ai telefoni fissi. Oggi i computer consentono alle aziende di monitorare le richieste del mercato in tempo reale e di modificare al volo gli orari dei lavoratori. I telefoni cellulari permettono ai capi di raggiungere i lavoratori dove e quando vogliono. È diventato facile per i supervisori chiedere ai lavoratori dei servizi di riprogrammare i loro turni come per gli sviluppatori di software decidere quando e dove scrivere il codice. Per molti americani non è più possibile suddividere le proprie giornate in periodi di lavoro e di svago con una certa prevedibilità. Le tecnologie digitali hanno anche ampliato il potere di sorveglianza dei datori di lavoro, che a sua volta riduce la capacità dei lavoratori di assicurarsi di essere pagati equamente».
La flessibilità infatti non è priva di insidie: «La distanza fisica — scrive Turner — non può più tenere a bada i datori di lavoro. Tutto ciò che facciamo online può essere tracciato. I capi possono contare le nostre battute da lontano e misurare i minuti che dedichiamo al nostro lavoro. Possono anche sbirciare nei nostri salotti, imparare molte cose su di noi e usarle per modificare i termini del nostro impiego. In molti settori sta cambiando il rapporto tra tempo di lavoro e retribuzione. In alcuni casi, l’ideale della parità di retribuzione a parità di lavoro non è più valido. Ciò che sta diventando chiaro è che abbiamo bisogno di un nuovo patto sociale per una nuova era tecnologica».
Tra gli effetti di questa rivoluzione digitale c’è anche un ritorno del lavoro a cottimo: un modo di misurare il lavoro che non si basa più sulla durata della prestazione lavorativa, ma sulla quantità di lavoro prodotto. «Come i sigarai di cento anni fa, gli autisti di Uber e Lyft sono pagati a pezzo, in questo caso a corsa. In passato, la forma del sigaro prodotto determinava il compenso dei sigarai. Gli arrotolatori che producevano gli stessi tipi di sigari guadagnavano la stessa cifra, in linea con il principio dell’epoca industriale della parità di retribuzione a parità di lavoro. Oggi, le tecnologie digitali consentono alle aziende di infrangere questo principio. Le società di ride-sharing tengono traccia di tutto, dall’offerta e dalla domanda in tempo reale alle abitudini di lavoro degli autisti. Poiché non fanno sapere ai conducenti di veicoli a noleggio come utilizzano questi dati per stabilire i prezzi, i conducenti non hanno modo di sapere se il “prezzo iniziale” che Uber o Lyft offrono di pagare loro per una corsa è in realtà lo stesso prezzo che offrono agli altri conducenti» spiega Turner. Chi detiene i mezzi di produzione digitali ha un potere molto più grande di chi non li possiede, basato su una asimmetria totale di conoscenza.
È un fatto carico di conseguenze per i diritti dei lavoratori: saranno al centro delle lotte sindacali dei prossimi anni. Ancora Turner: «Le tecnologie digitali amplificano chiaramente il potere dei datori di lavoro, ma rendono anche possibile per molti di noi lavorare e riposare nelle stesse stanze, a casa, tra i nostri amici e parenti, e quindi reintegrare parti delle nostre vite separate dalla Rivoluzione industriale. La domanda è: come possiamo strutturare il tempo in modo da bilanciare il desiderio di controllo dei datori di lavoro e il desiderio di autonomia dei lavoratori? E come possiamo farlo in modo vantaggioso per tutti? Quando i lavoratori si sono battuti per la giornata di otto ore, non volevano solo lavorare meno. Volevano creare condizioni in cui le famiglie avessero il tempo di stare insieme, i cittadini avessero il tempo di riunirsi e votare e tutti avessero il tempo di leggere, scrivere e prosperare. Quando gli operai portavano i loro orologi in fabbrica, cercavano di garantire un’equa misurazione del lavoro e la parità di retribuzione a parità di lavoro. In fondo, le lotte dell’epoca industriale su come strutturare la giornata e la settimana erano lotte su come dare ai lavoratori più controllo sulle loro vite e più risorse con cui prendersi cura gli uni degli altri. Oggi i lavoratori devono perseguire questi obiettivi a condizioni tecnologiche nuove. I telefoni cellulari e i computer portatili hanno reso impossibile per molte persone riservare otto ore della giornata al lavoro retribuito e altre otto a tutto il resto, e minacciano di riportare tutti noi a un’epoca di lavoro non-stop e sottocompensato. Ma se i lavoratori riusciranno a cogliere questa nuova flessibilità e a trasformarla a loro vantaggio, come i lavoratori del XX secolo hanno colto la logica dell’orario della fabbrica, potrebbe trasformare tutte le nostre vite. Potrebbe aiutarci a occuparci dei nostri amici, dei nostri figli, dei nostri genitori anziani. Potrebbe rendere più conveniente, se non necessariamente più facile, fare avanti e indietro tra i nostri doveri verso i datori di lavoro e le cose che dobbiamo fare per noi stessi e per le nostre comunità. Ora abbiamo bisogno di una nuova serie di norme e regole che ci aiutino a godere dei vantaggi della nuova flessibilità».
L’insistenza soprattutto delle nuove generazione sul ridimensionamento del peso del lavoro nelle loro vite — a cui le generazioni precedenti guardano con sorpresa se non con sconcerto — viene anche da qui: l’esperienza di un lavoro che, se non si trova il modo di imporre regole certe ed eque, rischia di colonizzare tutta l’esistenza. E insieme la consapevolezza che le nuove forme flessibili di lavoro debbano essere usate per migliorare e ampliare il tempo di vita, non per ridurlo.
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dal Corriere della Sera

Il lavoro ibrido batte lo smart working:

quali sono i vantaggi di questa modalità

di Valentina Iorio
Tra smart working e ritorno in ufficio vince il lavoro ibrido. Nel 2022 il settimanale The Economist l’aveva indicato come parola dell’anno. Secondo un nuovo sondaggio del Pew Research Center, negli Stati Uniti il 41% di coloro che hanno un lavoro che può essere svolto da remoto lavora alcuni giorni da casa e altri in ufficio. Un dato in aumento rispetto al 35% del 2022. La percentuale di coloro che lavorano solo in smart working, invece, è scesa al 35% a febbraio 2023 dal 43% dell’anno precedente. La quota di coloro che non ricorrono quasi mai al lavoro da remoto è rimasta pressoché invariata passando dal 22% del gennaio 2022 al 24% a febbraio 2023.

I vantaggi del lavoro ibrido per la salute

Secondo i lavoratori che hanno partecipato al sondaggio condotto dal Pew Research Center, il principale vantaggio dello smart working è la possibilità di conciliare lavoro e vita privata. Il principale svantaggio, invece, è l’impossibilità di avere un contatto diretto con i colleghi. La modalità ibrida ha il pregio di tenere insieme i vantaggi del lavoro da remoto senza perdere quella parte di relazioni che si creano in ufficio. Secondo una ricerca condotta da Iwg su oltre 2.000 lavoratori in modalità ibrida i benefici di questo tipo di lavoro sono molteplici, soprattutto sul fronte della salute e del benessere delle persone. Dallo studio emerge che chi lavora in modalità ibrida dedica in media 4,7 ore la settimana all’esercizio fisico, rispetto alle 3,4 precedenti la pandemia. Non essendo più costrette a spostarsi tutti i giorni per andare a lavoro le persone dormono di più: il tempo in più trascorso a letto ogni mattina equivale a 71 ore – o tre giorni – di sonno in più all’anno, spiega la ricerca. Anche le abitudini alimentari migliorano. Il 70% ha dichiarato che lavorare in modalità ibrida consente di preparare una colazione sana ogni giorno, mentre più della metà (54%) ha più tempo da dedicare alla preparazione di pasti nutrienti durante la settimana.

Gli effetti sulla produttività

Secondo una ricerca di Nicholas Bloom, economista della Stanford Graduate School of Business, a beneficiarne è anche la produttività, che nel complesso è aumentata del 3%-4% grazie al lavoro ibrido. Grazie a una maggiore produttività sul lavoro e più tempo libero fuori dal lavoro, due terzi degli intervistati da Iwg (66%) ritengono che la loro salute mentale sia migliore. L’81% dichiara di avere più tempo libero rispetto a prima del 2020 e la maggior parte sostiene di impiegarlo in attività che aumentano il benessere psicofisico.

Le aziende che chiedono di tornare in presenza

Il lavoro ibrido rappresenta un buon compromesso tra la richiesta di maggior flessibilità da parte dei lavoratori e la necessità delle aziende di avere una maggior numero di persone presenti sul luogo di lavoro. Diversi grandi gruppi, infatti, hanno dichiarato di voler far rientrare i dipendenti in ufficio. Amazon e Apple hanno chiesto ai lavoratori di essere presenti almeno tre giorni alla settimana. Disney sta facendo pressione per avere i dipendenti in presenza almeno quattro giorni a settimana. Persino Mark Zuckerberg, amministratore delegato di Meta, ha recentemente dichiarato che dalle prime analisi sulle prestazioni fatte dall’azienda emergerebbe che gli ingegneri che lavorano in presenza avrebbero ottenuto risultati migliori di coloro che lavorano da remoto. “Questo richiede ulteriori studi”, ha precisato Zuckerberg, “ma la nostra ipotesi è che continui a essere più facile costruire la fiducia di persona e che queste relazioni ci aiutino a lavorare in modo più efficace”

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