Ma che uomo sei?

delpini[1]
di don Giorgio De Capitani
Mi ha subito incuriosito l’occhiello “Riflessione dopo l’8 maggio”. Senza probabilmente, l’8 maggio richiama lo Spettacolo della Croce, in Piazza Duomo. Uno spettacolo-spettacolo, che mi ha lasciato veramente esterrefatto. Quella sera si è assistito a qualcosa di puramente teatrale. Parlare di fede sarebbe grottesco! Eppure si trattava di una “professione di fede”! Così doveva essere nelle intenzioni di chi ha promosso la serata.
Almeno un esame di coscienza, per un’auto-critica sincera! No, si insiste nel voler sostenere che tutto è riuscito nel migliore dei modi. Certo, non metto in dubbio l’organizzazione e la professionalità degli artisti. Ma il Mistero della Croce forse richiedeva qualcos’altro che non c’è stato, e non ci poteva essere, per come è stato organizzato l’evento.
Quarantamila presenze in Piazza! E che cosa sono? Ancora una volta si è cercata una Chiesa trionfante, ma ci vuole ben altro per dare una mossa ad una Diocesi in affanno!
Ed ecco che cosa trovo? Alcune riflessioni di monsignor Mario Delpini, Vicario Generale della Diocesi milanese. Le emozioni di quella serata dell’8 maggio lo hanno stimolato a pensare alla sua e “nostra” gente. Che si sia di colpo svegliato dal coma? Ma non ho colto bene se il Vicario parla in prima persona, o se è un modo di dire impersonale. Qualche dubbio mi viene sulla sua reale conoscenza delle problematiche della gente comune.
Ad ogni modo, non è di questo che vorrei parlare. Mi sto chiedendo da tempo, se noi preti diocesani facciamo parte della gente che Delpini dice di conoscere e di sentirsi solidale. Non ho trovato nemmeno nella seconda carica della mia Diocesi un padre amorevole e misericordioso, stavo per dire umano. No! Degli incontri che ho avuto con lui, l’anno scorso, proprio come in questi tempi, ho un brutto ricordo: come di una mummia che non parla con il cuore, ma esegue ordini, senza discutere. Questi superiori che non fanno mai vibrare la coscienza, ma si limitano, come castrati, a far eseguire gli ordini del capo!
Domenica l’altra, 11 maggio, nel pomeriggio, monsignor Mario Delpini ha amministrato la Cresima a Castello Brianza, che fa parte della Comunità pastorale di Dolzago. Ero quasi certo (sono il solito ingenuo!) che avrebbe chiesto al parroco qualcosa sul mio conto. Nulla! Del tutto ignorato!
Da quando me ne sono andato da Monte, il 14 settembre del 2103, il Vicario Generale, che conosce bene la mia storia, non si è mai fatto vivo! Il cardinale, dopo varie sollecitazioni da parte di qualche sacerdote, mi aveva telefonato (mi pare che fosse il mese di ottobre) per dirmi che potevo incontrarlo. Le condizioni erano state rispettate, ovvero che avevo lasciato finalmente la comunità di Monte. Prima no! Non mi avrebbe ricevuto! E qual è stata la mia risposta? Un no deciso all’incontro!
Da allora, più nulla!
Mi chiedo: ma che uomini siete?
E avete il coraggio di parlare di umanesimo? Di fare poesia sulla gente comune? Di dire che vi sentite vicini ai problemi degli altri?
Ma che uomini siete?
dal sito ChiesadiMIlano
RIFLESSIONE DOPO L’8 MAGGIO

Monsignor Delpini:

«Elogio per la nostra gente…»

«Ha come un istinto per la verità, una specie di irresistibile inclinazione al buon senso e alla misericordia – scrive il Vicario generale -. Perciò, con tutti i suoi difetti, può vincere lo scoramento, far fronte senza far rumore, risuscitare alla fierezza e consumarsi in una dedizione»
di monsignor Mario DELPINI
Vicario Generale
15.05.2014
Lasciate che io faccia l’elogio della nostra gente.
Conosco la nostra gente,
l’ho vista in piazza del Duomo e l’ho vista nelle chiese,
l’ho vista nelle strade e l’ho vista là dove si lavora e si discute,
dove si studia e dove si patisce, dove si fatica e dove si fa festa.
Conosco la nostra gente e le voglio bene.
Ho stima della nostra gente
e mi commuove quel fare il bene, quel prendersi cura degli altri,
così naturale, come fosse una cosa ovvia,
tanto che se dici: «grazie!», la nostra gente addirittura si sorprende,
come fosse scontato che siamo al mondo per far del bene.
La nostra gente è come quel ragazzo che ha solo due pani
e si sente quasi sopraffatto dal numero degli affamati:
eppure si fa avanti: «Ecco, questo è quello che ho. Può servire?»
Serve! Serve!
Voglio fare l’elogio anche del volto della nostra gente:
hanno il volto serio le donne e gli uomini di Milano.
Certo potrebbero sorridere un po’ di più,
ma hanno il volto serio, come chi considera la vita una cosa seria:
si alza ogni mattina la nostra gente e ricomincia a far funzionare il mondo:
non si stupisce che ci sia da fare,
fare in fretta, fare bene, fare quello che si deve fare.
È gente seria la nostra gente.
Mi impone di essere serio la nostra gente,
anche con quell’inclinazione a “far la tara”,
che diffida dei chiacchieroni e degli esibizionisti,
che legge i giornali senza crederci troppo.
Riconosce invece, per una sorta di sapienza naturale,
quello che vale e chi merita d’essere ascoltato.
E si lascia commuovere – senza piangere, però –
dalla bellezza del suo Duomo, dal virtuosismo della sua musica
e dal cielo che indora la Madonnina.
Voglio fare l’elogio anche del malumore della nostra gente:
ci sono momenti in cui non ne può più
delle complicazioni inutili, delle perdite di tempo senza costrutto,
delle code incomprensibili, delle inefficienze esasperanti.
Merita più rispetto la nostra gente!
Conosco i difetti della nostra gente e le ferite della città,
so dei drammi e delle complicazioni,
della fatica di vivere e della consunzione della speranza,
dell’apprensione per l’inedito e della troppa solitudine,
delle idee strampalate e delle sentenze perentorie.
Però, c’è nella nostra gente, come un istinto per la verità,
una specie di irresistibile inclinazione al buon senso e alla misericordia.
Perciò la nostra gente, con tutti i suoi difetti,
può vincere lo scoramento, far fronte senza far rumore,
risuscitare alla fierezza e consumarsi in una dedizione.
Io faccio l’elogio della nostra gente.
E benedico nel nome di Dio la nostra gente.
C’è, tra la nostra gente, anche chi non sa più che nome invocare.
Ma io benedico tutti,
perché tutti possano alzare lo sguardo,
stare diritti e contrastare l’ingiustizia e la disperazione,
l’illegalità e il qualunquismo,
porre mano all’impresa
di costruire la nuova Milano e l’Europa dei popoli,
e di prepararsi a ospitare il mondo l’anno prossimo.
Concedi, Padre di tutti,
che tutti possano alzare lo sguardo
e sorridere un po’ di più.

5 Commenti

  1. Patrizia ha detto:

    Ma faccia il piacere, ma chi cavolo conosce.
    Sempre forza don Giorgio!

  2. PietroM ha detto:

    Un prelato , un semplice sacerdote o parroco che sia, consapevole dei propri limiti è colui che offre il miglior sevizio alla comunità. Come non dare ragione a don Giorgio quando t’imbatti in barbose omelie di preti che non starebbero bene neanche come sagrestani ?
    Non vorrei offendere nessuno, per carità. Ma se si avesse un minimo di senso della misura, se ne gioverebbe ogni cristiano, tornandosene a casa riedificato.
    Mi meraviglia alquanto quella capacità, che hanno soprattutto i politici, di parlare tanto e non dire niente . Ci vuole un’arte !

  3. trevize ha detto:

    Dopo la bella “ninna nanna” di Mario Delpini, una ruffianata neppur troppo celata condita con l’abituale benedizione finale, c’è solo una cosa da dire:

    SVEGLIA!!!

  4. Giuseppe ha detto:

    Mi sorge spontanea una domanda: “ha più valore una messa celebrata in una situazione di fortuna, senza paramenti sacri e vasi preziosi, in un luogo non consacrato e con poche persone presenti, o una messa solenne, magari concelebrata da un vescovo o un alto prelato davanti a una folla di fedeli festanti?”. La risposta in teoria dovrebbe essere scontata, non c’è alcuna differenza, perché la messa ha valore in sé, a prescindere dalle circostanze in cui si svolge. Eppure qualcosa mi dice che quei pochi presenti che hanno condiviso in una situazione arrangiata alla meglio la semplicità dell’emergenza, abbiano partecipato con maggiore convinzione al rito e siano rimasti più coinvolti rispetto alle migliaia di persone che hanno assistito alla messa solenne. Una volta qualcuno mi disse “non ti dispiacere se non posso trattenermi quanto avrei voluto, la cosa importante non è la quantità del tempo passato insieme, ma la qualità”.
    Potrei anche sbagliarmi, ma credo che adattando queste parole a quello che ho descritto, in ogni cerimonia religiosa, la cosa più importante non sia la solennità, ma la qualità di ciò che si sta facendo.

  5. GIANNI ha detto:

    Che dire?
    Sullo spettacolo, cui non ho assistito, va ricordato che esiste nella tradizione occidentaleun’arte, definita sacra.
    Essa si ispira, o dovrebbe ispirarsi, a temi religiosi, ma non comporta necessariamente una professione di fede.
    Può essere apprezzata nel suo lato espressivo anche da chi ateo.
    Non occorre certo essere credenti, per ammirare un corale di Bach.
    Se poi si è fedeli, è molto soggettiva la reazione…diciamo….spirituale.
    Al suono dell’organo, ad esempio, c’è chi medita meglio e chi si distrae.
    Quanto ai rapporti umani, io nel commento di ieri cosa dicevo?
    Talora contrassegnati da sostanziale pochezza, per non dire nullità.
    Ma, forse,nei rapporti con questi ecclesiastici, meglio così.
    Interpreto infatti la posizione di un Delpini anche nel suo risvolto positivo, cioè nella mancanza di ipocrisia di chi a don Giorgio nulla ha da dire.
    Posizione simmetrica quella del nostro padrone di casa, verso il vescovo.
    A me, sinceramente, è sempre ritornata l’immagine non di una chiesa, ma di due chiese separate e non comunicanti, quella di don Giorgio e quella dell’episcopato.
    Come due realtà che poco o nulla centrano tra di loro, ma credo che ognuna sia consapevole di questo, e che don Giorgio sia contento di non assomigliare ad un certo tipo di ecclesiastico, e simmetricamente,ovviamente, questo vale per quelli come Delpini.
    Di qui anche una certa indifferenza.

Lascia un Commento

CAPTCHA
*