Domenica 22 maggio, a Sesto S. Giovanni, nella parrocchia di San Giuseppe arriverà il cardinale Scola

scoladonsesto
di don Giorgio De Capitani
Il 24 aprile scorso, mi telefonava don Leone Stefano Nuzzolese, attuale parroco di San Giuseppe, Sesto San Giovanni, invitandomi alla concelebrazione della Messa, programmata per il 18 maggio, alle ore 20.45, in occasione dei festeggiamenti per il centenario della parrocchia. Invitati tutti i sacerdoti nativi e di ministero della parrocchia.
Rendo pubblica la mia risposta all’invito, che ho spedito il giorno dopo (25 aprile) al parroco, spiegando anche i motivi del mio rifiuto.
Ho saputo che, domenica 22 maggio, arriverà in parrocchia il cardinale Angelo Scola per celebrare la S. Messa solenne delle ore 10.30. Forse qualcuno dovrebbe comunicargli che negli anni tra 1974 e il 1983, un sacerdote, a lui ben noto, di nome don Giorgio De Capitani, aveva dato anima e corpo per le cause in cui egli credeva, e che aveva avuto la fortuna di conoscere un certo cardinale, di nome Carlo Maria Martini.
Lo prevedo: Scola arriverà, dirà due parole vaghe e di circostanza, ringrazierà i preti che hanno lavorato nella parrocchia, ma non sentirà i brividi di una comunità che, negli anni della contestazione, aveva dato qualcosa di nuovo: quel nuovo che proprio lui, Angelo Scola, contesterà mettendomi a riposo forzato, nel 2013, dopo aver vissuto anni di intensa attività pastorale a Sant’Ambrogio in Monte di Rovagnate (Lc).
Non capisco perché abbiano invitato il cardinale Scola. Per dare più lustro alle festività? Credo che, se potessero suonare da sole, le campane, all’arrivo di Scola, suonerebbero a morto.
Scola o senza Scola, in quella che era la “mia” parrocchia di San Giuseppe non potrei più ripetere quelle indimenticabili esperienze, e da come ho visto dal programma delle festività e ho saputo da qualche confidenza l’attuale comunità mi è del tutto irriconoscibile, e totalmente fuori dalle mie visuali di fede.
Se avessi accettato l’invito, mi sarei sentito male, soffrendo l’indicibile.
***
Dal 1983, anno in cui sono stato per così dire “costretto” a lasciare la parrocchia di S. Giuseppe in Sesto San Giovanni, a causa di tensioni sempre più insostenibili, dovute a visuali pastorali completamente opposte, e anche a causa di un Vicario episcopale (don Claudio Livetti) col suo modo di fare pilatesco (sue le parole storiche: “tra il parroco che ha torto e il suo prete che ha ragione, io scelgo sempre l’autorità”, ovvero il parroco!), non sono più stato ufficialmente invitato in parrocchia. Ma, chi mi conosce, sa che, finita un’esperienza, mi butto a capofitto nella successiva. Tuttavia, devo riconoscere che l’esperienza di Sesto, che continuo a considerare la più affascinante e indimenticabile, mi ha segnato profondamente, tanto da crearmi problemi negli anni successivi, che non sto qui a elencare (rimando al mio libro: “Da Introbio a Monte di Rovagnate”), fino a  quando il cardinale Carlo Maria Martini non mi ha preso sotto le sue ali, guidandomi verso la mia nuova esperienza pastorale a Sant’Ambrogio in Monte di Rovagnate (alla fine del 1996). Altra esperienza indimenticabile, ma di tutt’altro genere, diversa, anche se complementare, da quella di Sesto San Giovanni. L’ultima, che mi è costata una “quasi” scomunica: forse avevo tirato troppo le corde, con sempre innovativi tentativi di una pastorale aperta ai tempi, ma non graditi ai superiori diocesani e anche a quelli vaticani. Quando Roma preme, Milano deve cedere, se c’è come vescovo uno che si chiama Angelo Scola.
Attualmente, dal 2013, sono a domicilio coatto, in casa privata, controllato a vista, emarginato anche dai preti locali. Mi sta bene così: approfitto per leggere libri e libri della grande Mistica, e ciò non fa altro che ringiovanirmi nello spirito, anche se sono ormai sulla soglia degli ottant’anni: alla scoperta di quello Spirito, davanti a cui non c’è più alcuna struttura religiosa che possa resistere.
E così diciamo che tutto è Provvidenza, anche l’essere stato messo ai margini da quella struttura ecclesiastica, che dovrà prima o poi riconoscere il proprio fallimento.
E che sia ancora particolarmente “vivo” lo provano due querele in corso: da parte di una giornalista della Rai, che risale al 2011, e recentemente, marzo scorso, da parte di un politico che si chiama Matteo Salvini.
Una delle ragioni per cui non ho accettato l’invito alla concelebrazione del prossimo maggio è perché, dopo più trent’anni da quel 1983, proverei una infinità di forti emozioni da non poterle sopportare. Preferisco tenermele dentro, così come ancora oggi me le immagino con i ricordi che non sono certo svaniti.
Erano anni in cui era “bello” lottare, ed era “bello” fare il prete. Anni in cui la città era ancora “calda” per i postumi del ’68, anche se, devo essere sincero, venendo a Sesto avevo trovato solo cenere e tanto fumo. E il fumo lo ritenni subito ben più pericoloso dei tizzoni ancora accesi.  Anni in cui il terrorismo “di casa” era talmente invasivo da trovarlo ovunque, anche tra gli stessi compagni di lavoro, o tra i vicini di casa. Come non ricordare Walter Alasia? Anni in cui gli immigrati non erano gli extracomunitari, che ancora non esistevano, ma i meridionali italiani che venivano al Nord con tutti i loro problemi di miserie umane, di povertà, alla ricerca di un lavoro e di una casa. Come non ricordare le occupazioni delle abitazioni ancora in costruzione? Ed è proprio pensando ai loro figli che mi venni l’idea di aprire un Doposcuola (via XX Settembre 81) a cui tenevo che avesse come etichetta solo l’aggettivo “sociale”, per distinguerlo da qualsiasi catechizzazione di carattere religioso. Dal Doposcuola sociale nacquero anche i Campeggi sociali, per i bambini meridionali che partecipavano gratuitamente. Il Doposcuola sociale, da non confrontare con nessun’altra esperienza, neppure con quella di Barbiana, è stato ritagliato sulle esigenze delle povertà e delle emarginazioni di quei tempi, a Sesto San Giovanni. Non aveva solo un aspetto scolastico, ma di accoglienza, di integrazione dei ragazzi più disagiati. Ecco perché volli che si chiamasse sociale.
Accanto al Doposcuola sociale, aprimmo e portammo avanti il Centro di Fisioterapia, il cui aspetto sanitario era gestito da un equipe di persone qualificate, e sostenuto economicamente da un gruppo di famiglie che si erano mensilmente auto-tassate. Sia il Doposcuola sociale che il Centro di Fisioterapia, pur non agendo in parallelo alle attività parrocchiali, tuttavia avevano una loro autonomia, senza perciò cadere sotto una qualche etichetta religiosa. Qui nacquero gli equivoci con il parroco e con l’Istituto della Presentazione. Equivoci strumentalizzati bene dal parroco per isolarmi, tanto da costringere l’Istituto a licenziarmi dall’insegnamento della religione e dal mettere piede negli ambienti delle Suore, che allora erano anche la sede dell’oratorio femminile. Tutto ciò, sia il licenziamento che l’avermi tolto l’oratorio femminile, giovò alla mia causa: mi dedicai a tempo pieno per il Doposcuola e per il Centro, fino a quando i superiori non pensarono bene di risolvere il tutto, spostandomi da Sesto.
Quando penso a quelli anni mi vengono ancora i brividi, ma il tempo passa inesorabile, e col tempo cambiano le situazioni. Se tornassi oggi a Sesto a fare il prete, sarei come un pesce fuor d’acqua.
Spero che qualche seme buttato in quel terreno così fertile da essermi stato benevolo sotto tanti punti di vista, abbia prodotto qualcosa di buono. Certo, ci sono state anche spine, ho avuto a che fare con dei rovi, soprattutto con rovi che si chiamavano parroci all’antica. Forse per questo, mi è piaciuto lavorare. Non passava un giorno in cui non ci fosse un ostacolo di troppo. Ma è stata la mia vita. Forse senza quei rovi, tutto sarebbe stato diverso. Senz’altro, non avrei potuto dare un’impronta, anche personale, ma soprattutto di impostazione fuori di ogni schema. Il Centro per forza di cose passò a La Nostra Famiglia, e posi fine al Doposcuola sociale. La struttura è legata ai tempi e alle persone, ma lo spirito non può morire, da far rivivere in altre strutture e tenendo conto dei nuovi tempi. Allora, c’erano i meridionali, oggi ci sono gli extracomunitari.

3 Commenti

  1. cinzia ha detto:

    che dire, san Giuseppe e` da sempre la mia parrocchia, a scuola dale suore ho trascorso lunghi anni e il vecchio parroco lo ricordo bene.
    poi un giorno d Giorgio e` sparito e con lui anche le uniche omelie che avessero sapore, e senso. siamo caduti nel piattume.
    ora e` tutto straordinariamente cambiato nel quartiere, i meridionali sono diventati come i settentrionali e il ‘diverso’ parla arabo o cinese.

  2. Luigi ha detto:

    Citando C. M. Martini che l’aveva preso sotto le sue ali, mi è venuto in mente quello che ho letto questa mattina nel suo libro “IL PADRE NOSTRO non sprecate parole”:“Ho conosciuto pochi preti capaci di ringraziare Dio per la loro comunità. Ne ho conosciuto molti che, al contrario, si lamentavano ….” Aprendo il suo sito ho pensato di fargliele conoscere.

  3. GIANNI ha detto:

    Che dire?
    Mi pare che anche le vicende personali, il trascorso di vita ed esperienze insegnino come il cattolicesimo possa essere vissuto in modi molto diversi, se non addirittura antitetici.
    Ma questo è un punto che ho già ripreso diverse volte.
    Penso anch’io che non avrebbe avuto molto senso partecipare alla manifestazione, cui è stato invitato Scola, che, questo è poco ma certo, esprime una visuale di fede ovviamente diversa e non per tutti condivisibile.
    Non so come la pensasse il parroco, nel periodo della contestazione sessantottina, ma, pur essendo ormai passata molta acqua sotto i ponti da allora, credo vi siano tuttora visuali molto diverse, quindi sicuramente non avrebbe senso accomunarle, per così dire, in un’unica celebrazione, dove sarebbero presenti il quasi scomunicatore ed il quasi scomunicato, se mi si passa l’espressione.

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