Michele Munafò (Ispra): “Non solo climate change. L’Emilia-Romagna è prima per cemento nelle aree alluvionali”

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Michele Munafò (Ispra):

“Non solo climate change.

L’Emilia-Romagna è prima

per cemento nelle aree alluvionali”

di Adalgisa Marrocco
“Il suolo naturale è estremamente permeabile e agisce come se fosse una grande spugna, quindi assorbe l’acqua, la trattiene e la rilascia lentamente. Ma, quando costruiamo e cementifichiamo, sostituiamo questa spugna con una lastra di asfalto”
18 Maggio 2023
Vittime, sfollati, danni: è il bilancio dell’ondata di maltempo che si è abbattuta sull’Emilia-Romagna negli ultimi giorni e che ha mostrato ancora una volta la fragilità del territorio italiano. Le ragioni per cui le precipitazioni stanno avendo conseguenze così tanto gravi non sono legate soltanto al cambiamento climatico: la pioggia cade su un suolo cementificato, asfaltato, impermeabilizzato, incapace di assorbirla. La Regione sconvolta in questi giorni, infatti, è la prima in Italia per cementificazione in aree alluvionali, come mostrano i dati dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), ed è la terza per incremento del consumo di suolo nel 2021: oltre 658 ettari in più ricoperti, equivalenti al 10,4% del consumo di suolo nazionale di quell’anno. Ne abbiamo parlato con Michele Munafò, responsabile del Rapporto nazionale sul consumo di suolo pubblicato annualmente da Ispra.
Professore, cosa raccontano i dati sul consumo di suolo in Emilia-Romagna?
Partiamo da un presupposto: troppo spesso costruiamo in luoghi dove sarebbe stato meglio non farlo, ovvero in aree inondabili, a pericolosità idraulica. Nonostante i rischi, gli ultimi dati di cui disponiamo ci dicono che nel 2021 abbiamo avuto un aumento molto importante delle superfici costruite all’interno di queste aree. Soltanto in Emilia Romagna sono stati realizzati circa 500 ettari di nuovi cantieri, infrastrutture, edifici in aree a media pericolosità idraulica: è la terza Regione che ha costruito di più dopo Lombardia e Veneto, ma è la prima che l’ha fatto in aree inondabili. Gli eventi degli ultimi giorni, dunque, non sono casuali.
A cosa sono stati destinati i circa 500 ettari che cita?
Abbiamo un po’ di tutto: si va dall’edilizia, sia di tipo residenziale che commerciale, fino alla logistica, che sta avendo un impatto crescente sui territori. Poi ci sono molti cantieri aperti, che nei prossimi anni sono destinati a crescere, trasformandosi in nuovi edifici, nuove costruzioni e nuove infrastrutture.
Perché la cementificazione aggrava l’impatto del maltempo sui territori?
Le caratteristiche del territorio hanno un peso, ma il rischio viene incrementato dalle nuove costruzioni. Queste, infatti, causano l’impermeabilizzazione del suolo e la riduzione degli spazi naturali lungo la rete idrografica, privando i territori della capacità naturale di resistere agli eventi meteorologici estremi. Il suolo naturale è estremamente permeabile e agisce come se fosse una grande spugna, quindi assorbe l’acqua, la trattiene e la rilascia lentamente. Ma, quando costruiamo, sostituiamo questa spugna con una lastra di cemento, quindi l’acqua rimane in superficie in quantità assai maggiori rispetto a quanto avverrebbe con il suolo naturale.
In termini numerici, a fronte di 10 mm di pioggia caduta, qual è la differenza di acqua assorbita da asfalto e suolo naturale?
Su un suolo naturale, di quei 10 mm d’acqua tendenzialmente potrebbe rimanere in superficie una quantità compresa tra il 5 e il 10%. In un’area urbana questa percentuale sale, arrivando fino al 60-70%, e se l’area è completamente sigillata è possibile toccare il 100%. In un grande parcheggio di un centro commerciale di un ettaro, l’acqua non riuscirà a infiltrarsi da nessuna parte, scorrendo rapidamente, in maniera sempre più accelerata. A giocare un ruolo è proprio la velocità di scorrimento, ovvero il tempo che intercorre tra l’evento meteorico intenso e il cosiddetto picco di piena, cioè la portata massima: più è breve e più la situazione si aggrava.
Come agire?
Dovremmo aumentare la permeabilità dei nostri territori, soprattutto nelle aree di pianura e nelle nostre città, dove avremmo un effetto doppiamente benefico di mitigazione degli impatti del cambiamento climatico. Da un lato otterremo la regolazione del ciclo dell’acqua, di cui stiamo parlando, dall’altro, se le nostre città diventassero più verdi e meno cementificate, si ridurrebbe l’effetto “isola di calore” che in estate porta le aree urbane a raggiungere temperature di diversi gradi maggiori rispetto alle aree naturali.
Quali potrebbero essere, a suo giudizio, gli interventi concreti più urgenti da realizzare?
Si parla spesso di manutenzione del territorio, un termine piuttosto generico con cui si identificano diversi tipi di interventi, ma ritengo che sarebbe cruciale approvare una legge nazionale che regoli la nuova impermeabilizzazione sul territorio italiano, permettendoci di essere in linea con gli obiettivi previsti a livello europeo e globale. Non possiamo fermare tutto perché avremo sempre bisogno di nuove costruzioni e infrastrutture, ma possiamo provare a sfruttare il patrimonio esistente: nel nostro Paese abbiamo 10 milioni di abitazioni non utilizzate e tantissime aree dismesse che potrebbero essere destinate a nuovi usi. È uno spreco che non possiamo più permetterci. Ci sono poi effetti decisamente più marginali, ma abbastanza dibattuti, come l’impatto delle nuove fonti rinnovabili: gli impianti fotovoltaici a terra, per esempio, attualmente risultano in modesta crescita ma le previsioni sono importanti. L’impatto di queste strutture non è sicuramente paragonabile a quello di un edificio o di un capannone, ma anche in questo caso sarebbe meglio approfittare del patrimonio costruito esistente, installando i pannelli sul tetto di un palazzo invece che in un campo di grano. Il nostro Paese, in generale, è storicamente carente quando si parla di pianificazione del territorio, ovvero di un quadro organico e completo delle esigenze, dei processi che avvengono sul territorio per andare a collocare le attività giuste al posto giusto, evitando le emergenze.
In definitiva: il cambiamento climatico, che pure amplifica le conseguenze dei dissesti nei territori fragili, non deve farci dimenticare le nostre responsabilità.
Anzi. Il cambiamento climatico aumenta le nostre responsabilità e dovrebbe costituire un monito per una più corretta e attenta gestione dei territori. Al momento, però, i dati sembrano dirci che stiamo andando nella direzione opposta.
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I danni dell’alluvione in Emilia-Romagna

sono l’effetto del cemento?

di Lorenzo Salvia
La Regione è terza in Italia per il consumo di suolo. Le deroghe all’ultima legge criticate da Legambiente
La pioggia eccezionale, certo. Ma c’è anche altro dietro il disastro che ha colpito la Romagna. C’è quella che una volta chiamavamo cementificazione e che da un po’ di tempo ha preso il nome di consumo di suolo. Tecnicamente si tratta della perdita di una superfice originariamente agricola o naturale a causa della copertura artificiale del terreno. Qui una volta era tutta campagna, insomma. E da questo punto di vista, il territorio messo in ginocchio negli ultimi giorni non è messo per niente bene.
I dati Ispra
Secondo l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, l’Emilia-Romagna è la terza regione per incremento di suolo consumato tra il 2020 e il 2021, con 658 ettari. E anche per il totale di suolo consumato sempre nel 2021, con oltre 200.000 ettari. L’anno prima era al quinto posto, adesso davanti ha solo Lombardia e Veneto. Nella classifica dei comuni, poi, al secondo posto c’è Ravenna, preceduta soltanto da Roma.
E i dati peggiori si concentrano proprio nella parte meridionale della fascia costiera, quella finita sott’acqua. Non che nel resto del Paese le cose vadano molto meglio. Nel 2021 in Italia c’è stato il più alto consumo di suolo degli ultimi dieci anni. Una tendenza che trasforma in miraggio quell’obiettivo del consumo zero che secondo l’Unione europea dovremmo raggiungere entro il 2050. In Emilia-Romagna, però, la situazione sembra più complessa che altrove. È vero che, al di là di ogni ambizione di sostenibilità, il consumo di suolo è maggiore nelle regioni dove l’economia tira di più. L’Emilia-Romagna non sfugge alla regola.
Il traino dell’economia
Oltre che per consumo di suolo, la regione è terza anche per ricchezza procapite. Non solo. L’accelerazione nel numero di ettari cementificati del 2021 marcia di pari passo con il rimbalzo dell’economia regionale dopo la pandemia: nel 2021 l’Emilia-Romagna era uno delle cinque regioni già tornate sui livelli pre Covid. Segno che, in attesa di diventare davvero circolare, l’economia continua a procedere in modalità lineare, cioè bruciando nuove risorse, terreni compresi. L’Emilia-Romagna, tuttavia, è una delle poche regioni che sul consumo di suolo, in attesa di una regolamentazione nazionale, si è dotata di una propria legge regionale. Ed è qui che la questione diventa politica.
La scelta
La legge risale al 2017 e dice che l’incremento annuale di superfice cementificata deve restare in ogni Comune al di sotto del 3%. Come sempre, però, ci sono delle eccezioni. Restano fuori dal calcolo le opere pubbliche, gli insediamenti strategici di rilievo regionale, gli ampliamenti delle attività produttive esistenti, i nuovi insediamenti residenziali collegati a interventi di rigenerazione urbana. Abbastanza, insomma, per far salire l’Emilia-Romagna al terzo posto di questa classifica non proprio virtuosa.
Le accuse
Per questo Legambiente ha più volte definito quel testo «un fallimento», chiedendo di intervenire di nuovo. La legge è arrivata durante il primo mandato di Stefano Bonaccini come Governatore della Regione. L’accelerazione del 2021, invece, quando vice presidente della Regione era Elly Schlein, oggi segretaria del Pd. Che tra le sue deleghe aveva anche il cosiddetto patto per il clima, e cioè il «coordinamento delle politiche di prevenzione e adattamento ai cambiamenti climatici e per la transizione ecologica». Temi che, seppure non direttamente, hanno a che fare con gli effetti del consumo di suolo e delle piogge eccezionali degli ultimi giorni. Due indizi che ieri hanno spinto Libero a titolare in prima pagina «Sott’acqua il modello Pd», e qualche parlamentare di centrodestra a mugugnare, ma nulla più, perché questo è ancora il momento dell’emergenza, dei soccorsi e della solidarietà. Più avanti, però, la polemica potrebbe prendere quota.
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19 MAGGIO 2023

L’ambiente dimenticato: 

otto miliardi non spesi e task force mai nate

di Fabio Tonacci
Contro il dissesto idrogeologico per ora solo proclami dal centrodestra. “Il piano anti-cambiamenti climatici annunciato ma non finanziato”.
Una riga e mezzo. “Programma straordinario di resilienza delle aree a rischio dissesto idrogeologico con interventi mirati”. Quale programma straordinario? Non è specificato. Quali interventi mirati? Non vengono detti. Rimane tutto appeso alla fantasia dell’elettore che legge. Quella riga e mezzo è lo spazio dedicato all’Italia che frana, che esonda, che travolge, che crolla e che uccide, nelle diciassette pagine dell’accordo di governo della coalizione di centrodestra siglato durante la campagna elettorale. Si trova al capitolo dodici, diluita tra altri punti sotto al titolo: “L’ambiente, una priorità”. I primi sette mesi a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, però, dimostrano come le priorità in realtà siano altre. E neanche l’alluvione di Ischia del 26 novembre scorso (12 morti) ha portato il tema della fragilità del territorio lì dove dovrebbe stare, e dove i governi, non solo l’attuale, si rifiutano di mettere: al centro dell’agenda.
Lo spettro dell’unità di missione
Più vecchia degli allarmi degli ambientalisti e dei geologi c’è solo l’attitudine, tutta italiana, di racimolare miliardi di euro dal bilancio pubblico senza poi essere in grado di spenderli. Nelle casse dello Stato ci sono 8,4 miliardi di euro dedicati alla mitigazione del rischio idrogeologico che potrebbero essere utilizzati subito, ora, per argini, invasi, casse di laminazione, canalizzazioni e quant’altro serva ai bacini idrici del Paese, ma che dal 2018 sono intonsi. Transitano da un capitolo di spesa all’altro, da quando il governo giallo-verde di Giuseppe Conte, appena insediatosi, decise di cancellare Italia Sicura, la struttura di missione diretta da Erasmo D’Angelis e voluta dall’allora premier Renzi.
Il risultato è stata la paralisi per cinque anni: il Conte I e il Conte II, alla voce: “idee per salvare il territorio”, non hanno scritto niente di significativo, gli 11 mila progetti catalogati e sistematizzati dalla struttura di missione (per realizzarli servono 33 miliardi di euro) sono rimasti un mesto elenco su un file excel. I miliardi trovati razionalizzando risorse interne non sono stati spesi. Alla fine il governo Draghi li ha messi nel Pnrr. E lì giacciono.
La rivogliono, ma senza fondi
Che però serva un soggetto per mettere a terra i progetti aiutando gli enti locali, evidentemente, è chiaro a tutti: a febbraio di quest’anno il Senato vota un ordine del giorno col quale chiede alla premier di ripristinare quel sistema. Lo approvano 130 senatori, di tutti gli schieramenti, si astengono 25 onorevoli del M5S. Il Senato dà due mesi di tempo al governo, che però passano nel silenzio. “Allora siamo riusciti a inserire un emendamento al dl Fitto sulle semplificazioni del Pnrr”, dice la senatrice renziana Raffaella Paita. “Prevede la ricostituzione di un’unità di missione, però la maggioranza ne ha stravolto il senso, trasferendola al ministero dell’Ambiente, facendo così venire meno la trasversalità tra ministeri che facilitava l’attuazione delle opere”.
Oltretutto, segnala Paita, non vi hanno messo su neanche un euro. E non sono indicate modalità operative. “È una scatola vuota, vittima dei veti incrociati tra ministri dell’Ambiente e della Protezione civile. La premier deve venire a riferire in Aula per spiegarci cosa succede”.
Le dighe di Musumeci
Dopo Ischia, il ministro per la Protezione civile Nello Musumeci rivela che è stato costituito un gruppo di lavoro interministeriale, affidato a lui stesso, per ricostruire il quadro degli interventi anti-dissesto in corso. “Dal 2019 al 2027 messi a disposizione 21 miliardi per la tutela del territorio”. Quali risultati abbia portato il gruppo di lavoro interministeriale non è chiaro. Il giorno dopo l’alluvione che ha colpito Emilia e Marche, Musumeci si aggrappa a parole troppe volte già sentite e lancia promesse vaghe. “Cabina di regia sul dissesto”, “step di interventi, a breve, medio e lungo termine”, “lista delle maggiori criticità”, “messa in sicurezza dell’Italia in dieci anni”, e così via. Si fa concreto, invece, sulle dighe. “Serviranno decine di nuove dighe regionali: sono quarant’anni che non se ne fanno. Pensiamo a un sistema di raccolta d’acqua che possa assorbire 500 mm in 48 ore”.
Il commissario (senza soldi)
Alle accuse d’inerzia, Palazzo Chigi risponde opponendo la fresca nomina di Nicola Dell’Acqua a commissario all’emergenza siccità. L’idea è di coinvolgerlo nella lotta al dissesto, pur avendo un incarico ridotto, che dura fino al 31 dicembre, rinnovabile di un anno. Una partita, questa del commissario, che all’interno del governo ha vinto il leader della Lega: il veneto Dell’Acqua, infatti, fa riferimento alla cabina di regia che è stata affidata al ministro Salvini. Finora appare come un’altra scatola vuota, senza risorse. “Intanto c’è un contenitore e sono fiducioso che verrà riempito”, ragiona, con l’ottica del bicchiere mezzo pieno, Massimo Gargano, direttore dei Consorzi di Bonifica.
Il piano climatico dimenticato
Il governo di “Ambiente, una priorità”, dunque, fatica a finanziare l’oggetto dei suoi proclami. Nel programma elettorale, Giorgia Meloni scriveva “aggiornare e rendere operativo il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici”. È un piano cruciale, da sette anni fermo alla fase preliminare, che definisce la strategia per convivere con l’innalzamento della temperatura per i prossimi 30 anni, in agricoltura (si prevede una perdita di fatturato di 12,5 miliardi nel 2050), turismo (-52 miliardi con un innalzamento di 4 gradi), e così via. Il piano individua 361 azioni per attenuare l’impatto. A dicembre il governo ne pubblica una bozza aggiornata, lasciandolo in consultazione per due mesi al fine di raccogliere osservazioni. “Dopo febbraio non ne abbiamo saputo più niente”, sostiene Stefano Ciafani, presidente di Legambiente. “Se ne sono dimenticati. E soprattutto, nella legge di bilancio non hanno stanziato niente per realizzarlo”.

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