Sergio Rizzo – Io so’ io. Come i politici sono tornati a essere intoccabili

Io so’ io.

Come i politici sono tornati

a essere intoccabili

Un ministro con 83 persone di staff. Un altro che fa visita al quasi suocero incarcerato il giorno dopo che questi è finito dietro le sbarre. E un governo dove il conflitto d’interessi è di nuovo la regola e per cui le critiche sono reato di lesa maestà. Tutto questo mentre il Parlamento accoglie senza battere ciglio i pregiudicati, e troppo spesso dimentica che la Costituzione impone a chi «sono affidate funzioni pubbliche […] di adempierle con disciplina ed onore», e mentre affiorano venature nostalgiche di un passato che mette in dubbio le stesse radici della nostra Carta. Il degrado di una classe politica con la credibilità compromessa, e il suo distacco dalla società civile, sembrano inarrestabili. I partiti sono ridotti a macchine di potere e clientela. La logica del clan domina ovunque alla faccia di preparazione e merito, senza riguardo per le istituzioni. Né il taglio dei seggi alle Camere ha migliorato le cose. Nonostante il 36,5 per cento di onorevoli in meno, spendiamo come prima. Il finanziamento ai gruppi politici è rimasto invariato e ogni deputato e senatore costa oggi alla collettività un terzo in più. Le due Camere appaiono invecchiate di cinque anni, piene di incompetenti e con ancora meno donne: dice tutto la regola non scritta per cui molti eletti anziché pagare i collaboratori devono girare quei soldi ai partiti in debito d’ossigeno. Che si arrangiano come possono, talvolta con metodi discutibili. Sergio Rizzo torna sul luogo del delitto de “La casta” (il bestseller scritto insieme a Gian Antonio Stella) con una nuova requisitoria impietosa contro il mondo degli intoccabili, sordo a ogni richiesta di trasparenza, responsabilità e cambiamento.

Prefazione
di Gian Antonio Stella

Basteranno 83 persone a soddisfare la bulimia operativa di Sua Eccellenza il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste Francesco Lollobrigida? L’angoscioso interrogativo (ci sarà lo spazio fisico per una scrivania a testa nella sede pur capiente di via XX Settembre?) emerge dalla lettura delle 521 pagine del dossier Legge di Bilancio 2024, dove si legge appunto d’un “incremento delle risorse” (per un paio di milioni di euro) destinate “all’indennità accessoria di 83 unità di personale preposte agli uffici di diretta collaborazione” del dicastero.
Traduzione: lo staff che lavora gomito a gomito col ministro e due sottosegretari. In cima, in cima, in cima alla massa di dipendenti ministeriali. Un po’ scelti tra quelli già precedentemente a disposizione della struttura, un po’ presi da altri uffici o direttamente da Fdl e dintorni. Ma tutti fedeli. E così numerosi da formare una falange tebana.
ln altri anni la cosa sarebbe finita in prima pagina. Tanto più trattandosi del cognato della presidente del Consiglio. Oggi no. Questione di ondate. Di storture denunciate con lo stesso spirito di servizio giornalistico a destra e sinistra da chi vorrebbe un Paese migliore, ma cavalcate da questa e quella fazione politica con scandalizzata indignazione o flemmatica noncuranza, a seconda della convenienza del momento: “Cui prodest?”. A chi giova?
Nessuna sorpresa. Basti ricordare lo sdegno sacrosanto per certi “voli blu” come quello dell’allora presidente della Camera Fausto Bertinotti a Parigi per un evento simil-mondano, o dell’allora ministro Clemente Mastella, che col figlio si fece dare un passaggio sull’aereo di Stato di Francesco Rutelli che andava a Monza per la premiazione del Gran Premio, e pochi anni dopo, all’opposto, l’indifferenza assoluta e complice per l’elicottero della Protezione civile usato da Silvio Berlusconi per andare a farsi un massaggio in Umbria da Mességué. Altri tempi. Al punto che proprio nella bellissima beauty farm attuale di Mességué si daranno appuntamento per un conclave nel gennaio 2024 i democratici di Elly Schlein.
«Il reato di finanziamento illegale dei partiti è uno di quelli che vanno e vengono. Dieci anni fa non sarebbe venuto in mente a nessuno», disse un lontano giorno del novembre 1992 Gianni De Michelis, sbuffando per la tempesta di Mani Pulite dalla quale era stato travolto. La questione morale? «Sono come un atleta che ha subìto una frattura. Per un po’ so che devo stare fuori. Ne prendo atto e buonanotte».
Aveva ragione, nel suo amaro cinismo. È passato poco più di un decennio dalla legge Severino «per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, che passò nell’ottobre 2012 col voto favorevole di 480 deputati di sinistra e di destra (era favorevole anche la Lega, pur essendo all’opposizione del governo Monti) con 19 contrari e 25 astenuti, tra cui il futuro braccio destro di Giorgia Meloni, Alfredo Mantovano. Eppure quella legge rifiutata allora soltanto dai “talebani” dipietristi (sembrava loro troppo poco severa coi corrotti anche se poi sarebbe stata determinante nel 2013 per far decadere il Cavaliere da senatore) pare adesso non andar più bene a nessuno. Men che meno alla destra di governo, che non perde occasione per ribadire la necessità di «ritocchi». Del resto già applicati nei fatti. Basti ricordare il caso di Augusta Montaruli, piazzata come sottosegretaria all’Università e Ricerca a dispetto d’una condanna definitiva in Cassazione per peculato presa quando era consigliera regionale in Piemonte. Un tempo («Aspettiamo il giudizio di terzo grado!») sarebbe stato impensabile. Oggi no.
Eppure è proprio in tempi come questi, in cui l’attenzione per le storture che dicevamo è decisamente meno vigile rispetto al passato, che un libro come Io so’ io di Sergio Rizzo, col titolo ispirato alla tracotanza guascona del potere del Marchese del Grillo di Mario Monicelli ripresa dal celebre sonetto romanesco di Giuseppe Gioachino Belli, è indispensabile. Perché dimostra come, sopita la rabbiosa indignazione popolare per i costi spropositati della cattiva politica, da non confondere con quella buona quale che sia il suo orientamento, certi andazzi siano ripresi come se nulla fosse successo esattamente come prima.
Perché sì, l’abnorme aumento delle spese per gli affitti delle diverse sedi della Camera e del Senato, che nel giro di trent’anni si erano moltiplicati per 41 volte (quarantuno!), non esiste più. E va riconosciuto. Come vanno riconosciuti altri tagli imposti dai fatti. Nel suo nuovo reportage però, oltre a ciò che riguarda la smisurata falange tebana di Lollobrigida, Rizzo ha raccolto una serie di denunce da lasciare sconcertati. Com’è possibile, per esempio, che un Parlamento amputato di circa un terzo dei suoi deputati e senatori costi esattamente come prima se non di più?
Ma lo ricordate lo striscione trionfale dei grillini nell’ottobre 2019 davanti a Montecitorio per festeggiare quel taglio passato con 553 voti a favore, 14 contrari e 2 astenuti? «Meno 345 parlamentari. 1 miliardo per i cittadini». Boom! «Secondo un calcolo fatto con Tito Boeri il taglio di 345 parlamentari permetterà di risparmiare 22 milioni di indennità all’anno, 35 milioni di rimborsi spese, diaria e assistenti e altri 20 milioni per i vitalizi e la doppia pensione per un totale di un’ottantina di milioni l’anno, ma non abbiamo calcolato alcuni costi variabili: con meno eletti il Parlamento spenderà meno in computer, pulizia e produzione di carta» precisò in realtà I’economista Roberto Perotti. Con un risparmio «oscillante tra gli 80 e i 100 milioni di euro l’anno. Quasi mezzo miliardo a legislatura». Il ministro grillino Riccardo Fraccaro era d’accordo: «Mezzo miliardo a legislatura». Ma il capogruppo alla Camera Francesco D’Uva raddoppiava: «Un miliardo! Da reinvestire in servizi ai cittadini: nuovi treni, più personale medico, aule nuove nelle nostre scuole. E così fu, la promessa.
Demagogia. Ricorda Rizzo che nella legislatura avviata nell’ottobre del 2022, «sebbene il numero dei parlamentari sia ridotto del 36,5 per cento, le dotazioni finanziarie di Camera e Senato non si riducono di un centesimo». Totale, a dispetto degli impegni: «Poco meno di un miliardo e mezzo: 943.960.000 euro alla Camera, 505.360.500 euro al Senato». Risultato: «Se dividiamo il totale per il numero degli onorevoli scopriamo che il peso sull’Erario di ogni seggio alla Camera, tutto compreso, è di 2.359.900 euro: 861.559 euro in più. Mentre al Senato il costo è di 2.465.173 euro: 885.922 euro in più».
Una delle tante segnalate nel libro. Da quella di Renato Brunetta, che prima guida Forza Italia come capogruppo a votare per abolire il Cnel e poi, fallita l’abolizione, ne diventa il presidente su nomina dei partiti contro cui s’era dimesso perché avevano buttato giù Draghi, fino alla rivendicazione d’appartenenza a Fdl («il nostro partito») del dirigente Rai Paolo Corsini dopo anni di polemiche (giuste) contro l’occupazione dei partiti dell’azienda radiotelevisiva pubblica e la promessa di «far entrare aria fresca». Dal conflitto di interessi di Marina Elvira Calderone, che per diventare ministra del Lavoro si dimette dalla presidenza dei Consulenti del lavoro lasciando la poltrona al marito Rosario De Luca, alla coppia formata da Nicola Fratoianni ed Elisabetta Piccolotti, marito e moglie che a Montecitorio «rappresentano quasi un quinto del gruppo parlamentare Alleanza Verdi e Sinistra» e sono forse l’esempio più conosciuto, coi «Melones», della parentopoli politica che coinvolge non solo mariti e mogli ma fratelli e sorelle, cognati e cognate, figli e cugini con ramificazioni nelle Regioni, nei Comuni, nelle aziende di Stato, nel retrobottega del potere nazionale e locale.
Un andazzo antico, che Giorgia Meloni liquida nel gennaio 2024 in un’intervista a «Quarta Repubblica»: «Adesso le do io le carte, nel senso che le danno gli italiani. L’Italia è una Nazione nella quale vige l’amichettismo, ci sono questi circoli di amichettisti dove c’è un indotto. È finito quel tempo, com’è finito il tempo in cui per arrivare da qualche parte serviva la tessera di partito, questo è il tempo del merito». Parole comprensibili, se ogni singola nomina del suo governo non fosse stata nuovamente dettata dall’ansia di piazzare finalmente «amichetti» (a volte anche di valore, ma «amichetti», melonianamente parlando) propri.
Come furono parole d’oro, sul fronte opposto, quelle dette da Matteo Renzi nel gennaio 2018 a «Matrix», la trasmissione di Nicola Porro: «C’è l’idea che chi fa politica sia un po’… traffichino, si dice a Firenze. Siccome credo alla trasparenza, mi sono portato qua il conto corrente di quando ho iniziato a fare il presidente di Consiglio e il conto corrente di oggi pomeriggio… Avevo 21.395 euro il 30 giugno 2014, oggi 15.859. È molto importante per me questo passaggio. Io sulla trasparenza non faccio sconti a nessuno. E le dico, Porro, e voglio dirlo a chi sta qui e voglio dirlo a chi ci segue da casa: se volete fare i soldi non fate politica. Fai politica perché hai un interesse, hai un ideale, hai passione. Poi puoi essere più o meno bravo… Se vuoi fare i soldi vai nelle banche d’affari, non ti metti a fare il politico. Chi fa il politico ha questi conti correnti, se ne ha altri c’è qualcosa che non va». Va da sé, scrive Rizzo, che davanti a una dichiarazione di 3.187.769 euro come quella presentata dallo stesso Renzi per il 2022 dove veniva «moltiplicato per 201 volte quel conto corrente mostrato in tv» è legittimo chiedere: non ci sarà qualcosa che non va?
No, risponde il fondatore di Italia Viva: anche Bili Clinton e Barack Obama, Tony Blair e Nicolas Sarkozy hanno fatto i soldi con i libri e le conferenze dopo essersi dimessi da presidenti e da premier. «Dopo» però, insiste l’autore di Io so’ io: «Dopo aver lasciato il potere ed essere usciti dalla politica. Mentre Renzi, pur non essendo più un capo di governo, è senatore e pure il capo di un partito capace di condizionare i governi, com’è successo nel passaggio dal secondo esecutivo di Giuseppe Conte a quello di Mario Draghi». Un lobbista di se stesso elevato al cubo. Cosa che in Italia purtroppo no, ma nei Paesi seri è vietata.
Sarebbe un peccato, però, non ricordare ancora uno dei punti nevralgici qui toccati dal giornalista oggi a «L’Espresso». Il rischio di un moltiplicarsi di conflitto tra le Regioni e lo Stato avviati con la forzatura sul titolo V della Costituzione voluta dalla sinistra (con una maggioranza risicatissima) nel 2001 nel tentativo di rubacchiare voti alla Lega Nord: «Dal 1995 al 2000 il governo ha impugnato davanti alla Corte costituzionale quarantasei leggi regionali: una media di nove l’anno. Ma dal 2001, quando i poteri regionali sono stati ampliati improvvisamente, al 2014 le impugnazioni sono state 871 in media 62 l’anno». E dopo la bocciatura del referendum renziano del 2016 la situazione è precipitata. Al punto che, cinque anni fa, l’allora ministro Francesco Boccia sbottò: «Ogni anno vengono impugnate oltre 120 leggi regionali. Così non si può andare avanti».
Nel 2023, col governo di destra e gran parte delle Regioni in mano alla stessa destra, la conflittualità è stata più contenuta: 83 ricorsi dei quali 68 promossi dallo Stato e 15 promossi dalle Regioni contro leggi statati. Ma se poi, in condizioni diverse, passasse la riforma sull’autonomia differenziata fortissimamente voluta da Roberto Calderoli ma assai meno appassionatamente vista da Giorgia Meloni? Auguri.

 

 

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