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IL BLOG
18/06/2021
Una legge per dire “ministra”
Se il genere grammaticale “maschile” ingloba anche quello “femminile”, non è solo grammatica. È cultura
Antonella Boralevi
Scrittrice
Una donna che è alla guida di un Ministero deve essere chiamata “ministra” o “ministro”? Una donna che dirige una orchestra deve essere chiamata “direttore” o “direttrice”? Una donna che opera in sala chirurgica deve essere chiamata “chirurga” o “chirurgo”? Il tema viene spesso liquidato con un risolino di scherno, con la battuta “fossero queste le questioni fondamentali!”. Colpisce che la battuta arrivi sia dagli uomini che dalle donne. E che ci siano non poche donne che incarnano ruoli di prestigio e chiedono espressamente di essere chiamate con il titolo al maschile.
La ministra Bonetti ha posto il tema alla radio ieri a ”Un giorno da pecora”. L’ha fatto con la calma e il garbo che le appartengono. Ha detto che servirebbe una legge per rendere obbligatoria la declinazione di genere nei ruoli professionali. Ed è stata poi sbeffeggiata sui social.
Proprio il contenuto delle obiezioni certifica la necessità di questa legge, secondo me.
Se il genere grammaticale “maschile” ingloba anche quello “femminile, non è solo grammatica. È invece cultura.
Cultura nel significato che attribuisce al termine la antropologia. Ovvero insieme di credenze condivise che fondano una società.
Se un ruolo di prestigio o di potere viene indicato con un sostantivo di genere maschile non è un caso. È l’esito di circa duemila anni di storia in cui questi ruoli sono stati negati quasi sempre alle donne. Il genere grammaticale maschile certifica che quel ruolo compete a un maschio. Che la donna che eventualmente si trovi a esercitarlo è una eccezione.
Non è un caso, io credo, che per le categorie di lavoratori collocati ai livelli bassi o intermedi della scala sociale, esista e sia nella pratica d’uso comune la versione doppia: maschile e femminile.
Per esempio: Cameriere\cameriera. Domestico\domestica. Infermiere\infermiera. Commessa\commesso. Cuoca\cuoco. Sguattero\sguattera. Fattore\fattoressa. Fino a maestro\maestra e professore e professoressa. Mentre non esiste variante di genere per “giudice”, “chirurgo”, ”pilota”, “comandante”, “generale”, “astronauta”. E avanti così. Tranne poche eccezioni. I sostantivi della rappresentanza politica: “deputato\deputata”, “senatore\senatrice”. Esiste, è vero, “presidentessa, ma di rado viene utilizzato. Di nuovo, sia dagli uomini che dalle donne che ricoprono il ruolo. Solo una donna di vera autorevolezza come Angela Merkel ha imposto il femminile di “cancelliere”. Von der Leyen che non possiede, parrebbe, la stessa autostima, oscilla tra presidente e presidentessa.
Perché invece è fondamentale e necessario che anche i ruoli di potere e di prestigio vengano declinati a seconda del genere di chi li ricopre?
Non per una questione di genere.
Per una questione di Futuro.
Ogni lingua è una visione del mondo. Se le nostre figlie vedono e sentono declinare al maschile un ruolo di potere, introietteranno la certezza che quel ruolo non vale in sé, ma vale in quanto attributo dei maschi.
Credo invece che sia nostro dovere far crescere nelle nuove ragazze la consapevolezza che la autorevolezza, il prestigio, il potere non hanno un genere. Sono risultati della persona.
Ma se un ruolo autorevole viene declinato solo al maschile, ciò che la lingua afferma è che una donna che lo ricopre vale perché è stata assunta nell’empireo del potere maschile.
E questo forse spiega la ragione per cui, la sempre crescente presenza di donne di potere non abbia ancora cambiato le modalità secondo cui quel potere viene gestito.
Le donne di prestigio e di potere che chiedono di essere definite col sostantivo maschile creano, secondo me, un danno profondo alla crescita della società.
Ciascuna di noi è il mattone su cui si costruisce la casa della parità di genere. E una legge ci aiuterebbe a cambiare il nostro sguardo.
O no?
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