Autocomplotto. Meloni e Salvini vittime delle proprie macchinazioni

da www.huffingtonpost.it/
18 Ottobre 2024

Autocomplotto.

Meloni e Salvini vittime

delle proprie macchinazioni

di Alessandro De Angelis
Con la doppia bocciatura del modello Albania e di quello dei porti chiusi non c’entrano le toghe rosse, ma la logica emergenziale, invece di un approccio strutturale, a un’emergenza che non c’è. E in Africa non hanno l’anello al naso
C’è un filo che tiene assieme Palermo, dove Matteo Salvini è a processo per Open Arms e Tirana, da dove, dopo il pronunciamento dei giudici, dovranno ripartire tutti i dodici migranti destinati ai costosissimi centri messi su dal governo. E non è solo la “coda” del cortocircuito con la magistratura, che è solo l’effetto finale di entrambe le operazioni: la praticabilità delle politiche prima, poi il conflitto coi giudici, che tornano “toghe rosse” da bersagliere. Il filo è tutto politico, ed è a monte. E riguarda il medesimo approccio al problema, tanto ideologico quanto fallimentare.
Quando Salvini arriva al Viminale, l’emergenza sbarchi non c’è. L’aveva risolta, quando c’era davvero, Marco Minniti, mettendo su un modello strutturale di governo del fenomeno: 120mila arrivi in meno in un anno senza chiudere un solo porto; corridoi umanitari (anche in collaborazione con la Cei); 27mila i rimpatri volontari assistiti; il ritorno dell’Onu in Libia; stipula della pace di Roma tra le tribù del deserto in lotta tra loro; l’accordo con i sindaci dei comuni più coinvolti nel traffico di esseri umani con l’idea: noi vi aiutiamo a costruire città migliori, voi rompete coi trafficanti. Poiché il populismo, per fatturare facili consensi, si nutre del racconto della paura, in cui conta la rappresentazione emotiva più che il merito – “l’invasione”, il “fallimento di quelli di prima”, il “facciamo la storia” – Salvini, approdato al Viminale, lo smantella, sostituendo all’approccio strutturale la logica emergenziale, pur non essendo giustificata dai numeri: porti chiusi, battaglia navale, maniere forti anche se inefficaci. Alla fine, i migranti sbarcavano comunque, diventando poi invisibili in giro per il paese. Ma vuoi mettere la grancassa della “pacchia finita”.
L’Albania risponde esattamente alla stessa logica. L’emergenza non c’è, perché gli sbarchi sono diminuiti di oltre il 60 per cento (dati del Viminale), grazie al controverso accordo con la Tunisia. Sembrava un cambio di paradigma: verificata l’impossibilità del blocco navale e, appunto dei porti chiusi, ha iniziato a occuparsi di Africa, scimmiottando un po’ il modello Minniti. Logica avrebbe suggerito di rivendicare il risultato e di proseguire sulla via di un più incisivo investimento politico in quella direzione. Magari dando corpo politico allo slogan del piano Mattei, che ha il limite, oltre che di un eterno Godot, della logica del paese solo. Occuparsi seriamente di Mediterraneo significa portare l’intera Europa a un accordo quadro con l’Africa – canali legali e lotta i trafficanti – come modello strutturale di gestione del fenomeno migratorio che esso stesso non è una emergenza, ma è un dato strutturale che accompagna il corso del mondo.
E invece: riecco la logica emergenziale del paese terzo, anche qui senza numeri che la giustifichino: Ruanda, Uganda, Albania. Pensato come uno spot pre-elettorale per le europee, poi realizzato in autunno, risponde alla stessa ossessione della ricerca di un modello originale che preserva il racconto populista (e cattivista). Anche se non funziona né in termini di deterrenza, né, come prevedibile, in termini giuridici. Il cortocircuito con la magistratura sull’applicabilità, sia nel caso di Open Arms sia nel caso dell’Albania, è diretta conseguenza degli accrocchi. Non ci voleva un giudice per immaginare che non avrebbe funzionato questo gioco dell’oca sui poveri cristi: li porti in Albania, se hanno diritto all’asilo li devi portare in Italia, sennò li rimpatri nei paesi di provenienza, ma la lista dei paesi sicuri l’ha già bocciata la Corte europea, quindi sempre in Italia tornano. E il conflitto successivo con la magistratura è l’epilogo classico dello spartito populista: non sono i modelli messi in campo non funzionanti, ma i giudici che, assieme ad altri poteri ostili, vogliono fermare la “rivoluzione”.
Politicamente parlando, questo richiamo della foresta, tutto ideologico, non è a costo zero. Non solo in termini di fallimento politico, ma per le conseguenze già innescate. Perché ha rimesso al centro della discussione il tema non del governo dei cosiddetti movimenti primari (dall’Africa all’Italia) ma dei movimenti secondari (il “dove li metto quando arrivano?”). Elementare Watson: da quando si parla di Albania, guarda caso, sono ripresi gli sbarchi a Lampedusa e Porto Empedocle come non si vedeva da tempo. Accade così, a scherzare con l’Africa: loro vedono che diamo 800 milioni a Eddy Rama e riaprono i rubinetti. Ricordate quando il leader dell’Unione Africana disse, nel corso della conferenza di Roma, “buone le intenzioni, ora ci aspettiamo fatti conseguenti”. Ecco: l’anello al naso se lo sono tolto da tempo.
Poiché poi il trattato di Dublino vive e lotta insieme a noi, quello degli accordi secondari rischia di essere un tunnel senza uscita per l’Italia. Ognuno difenderà i suoi confini. Lo si è visto alla riunione europea di giovedì. Olaf Scholz ha sospeso Schengen, Emmanuel Macron vuole ridarci i dublinanti, il democratico Donald Tusk ha sospeso le procedure d’asilo per chi arriva dalla Bielorussia. La rinuncia a un disegno generale eccita la ripresa degli egoismi nazionali. Ognuno difende i suoi confini e il nostro paese, nel cuore del Mediterraneo, diventa il più esposto. E da apripista europeo nel rapporto con l’Africa, si ritrova isolato nella gestione del problema che ha riaffrontato come domestico.
Non a caso la premier va in Libano. Se collassa, il rischio è di un mare di profughi, con tutto quel che significa anche in termini di guerra asimmetrica (terrorismo). Che non andranno da Assad, ma verso l’Europa. Ovvero verso quei paesi, da Malta ai nordici, che hanno fatto capire che non li accoglieranno mai. Morale della favola: l’Italia rischia più di tutti. Caso di scuola di come rimanere vittime delle proprie macchinazioni.
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www.huffingtonpost.it
17 Ottobre 2024

Riccardo Magi:

“Ho visto il centro migranti di Gyader:

è un lager”

di Alfonso Raimo
“Bisogna venire qui in Albania per rendersi conto. Stiamo esportando i lager cento anni dopo i totalitarismi. Questo governo ci fa vergognare davanti al mondo
“Bisogna venire qui per rendersi conto. Stiamo esportando i lager cento anni dopo i totalitarismi. Questo governo ci fa vergognare davanti al mondo”.
Riccardo Magi è appena uscito dal centro per rimpatri di Gyader in Albania. Insieme ai deputati Pd Paolo Ciani e Rachele Scarpa ha visitato, in missione parlamentare, i 12 migranti di cittadinanza bengalese ed egiziana, trattenuti nel centro dopo essere stati trasportati dalla nave della marina militare italiana Libra. Ha parlato con quattro migranti, tutti reduci dai centri di detenzione libici, dove avevano subito violenze e ricatti.
Lei aveva già visitato Gyader durante i lavori di costruzione del centro. Ora che è in funzione che impressione hai ricevuto?
Sono venuto in estate quando il centro di Gyader era in costruzione. Ora fa ancora più impressione. Questi capannoni sono colonie penali per cittadini stranieri, costruite in un altro paese, peraltro destinate a persone che non hanno commesso reati. Ho pensato ai totalitarismi novecenteschi. Il centro è una sorta di lager, con una sovrabbondanza di sbarre di detenzione, isolatissimo in mezzo alle montagne. Davvero non si riesce a spiegare la ragione di tanta afflizione inferta a persone innocenti, detenute in attesa che venga esaminata la richiesta di protezione.
Le tutele previste dalla legge sono garantite?
Abbiamo raccolto informazioni sul rispetto delle procedure fissate dal nostro ordinamento. Abbiamo parlato con 4 migranti, sia di nazionalità bengalese che egiziana. Sulla base delle testimonianze raccolte, c’è un tema enorme che motiverà una nostra interrogazione urgente al governo e che riguarda il prelievo in mare dei migranti. Secondo quanto ci hanno riferito, non sarebbero stati presi in acque internazionali, come prevede il protocollo Italia-Albania ma quando erano a poca distanza da Lampedusa. Questo significa che sono stati respinti fuori dalle acque territoriali italiane quando invece andavano accolti e che oggi sono trattenuti illegittimamente. È un punto sul quale chiederemo la massima chiarezza al governo, anche attraverso l’acquisizione dei percorsi delle imbarcazioni che hanno fatto i rintracci in mare. Questo è il punto più critico.
Ci sono altri elementi che vi preoccupano?
Le garanzie previste dalla legge italiana e dal diritto europeo calate in questo contesto vengono stressate fino a spezzarsi, fino a perdere senso. Quello che abbiamo visto e ascoltato lo conferma. Parliamo della procedura di screening, cioè di selezione delle persone che vengono trattenute e portate in Albania da quelle che vengono mandate in Italia. È una procedura arbitraria, che le stesse autorità chiamano pre-screening, tanto è aleatoria. In sostanza in mezzo al mare, su una nave militare, fatti salvi le donne e i bambini, per il resto non si tiene conto della condizione di fragilità, e neppure dell’età. Semplicemente vengono mandati in Albania le persone che non hanno il documento. Per questo erano stati portati a Shenjing 4 migranti che non dovevano starci. Già questo mina il senso stesso della garanzia che dovrebbe essere offerta.
Quali altri punti critici avete rilevato.
Le 4 persone con cui abbiamo parlato erano state mesi tutte per lunghi periodi, mesi se non anni, nei famigerati centri libici. Lì hanno subito pestaggi, ricatti, sono stati indotti al lavoro forzato e hanno riottenuto la libertà perché i familiari hanno pagato il riscatto ai libici. Alcuni di loro portano ancora i segni delle torture subite addosso. Ora questa realtà così drammatica nella procedura prevista dal protocollo non emerge come motivo di vulnerabilità per non essere condotti in Albania. Alcuni migranti sono provatissimi, uno piange da quando è arrivato a Gyader. Eppure questo rischia di non essere considerato. Non riesco a spiegarmi come faccia il ministro Piantedosi a dire che il costo di questa detenzione va scorporata dal costo dell’accoglienza. Che si tratta di un investimento. E’ lunare, è folle. Mi chiedo come si possa individuare in questo un modello da difendere.
Meloni vi accusa di non comprendere. Mentre il resto dell’Europa, dice, ci copia. Oggi in effetti ha tenuto una riunione con la presidente della commissione Ue Ursula Von Der Leyen. Era presente anche la premier danese, socialista.
Il fatto che il Cpr albanese possa essere visto come un modello dice molto della crisi dello Stato di diritto e della democrazia in Europa. Non è una medaglia per il governo italiano. Dice invece della rinuncia che c’è stata tra i paesi europei a trovare soluzioni diverse. Ricordo che il parlamento europeo aveva individuato un diverso modello, votando per due volte la riforma del regolamento di Dublino, poi bloccata per due volte in consiglio europeo dal veto dei paesi conservatori. Adesso indietreggiano anche le forze progressiste e democratiche. Ma questo modello impatta con la realtà, non reggerà. Alla fine saranno di più le persone che torneranno in Italia di quelle rimpatriate. Perché questa è la risposta sbagliata ai processi migratori.
Dall’Albania negli anni novanta in tanti sono venuti in Italia per costruirsi un futuro. All’epoca i migranti erano soprattutto gli albanesi. Trent’anni dopo, noi portiamo in Albania persone che non vogliamo a casa nostra. Un cortocircuito della storia. Che effetto le ha fatto?
Mi ha fatto vergognare. Vergognare a livello del globo terracqueo, per usare un’espressione che piace a Meloni. Perché noi stiamo esportando il modello dei lager. E c’è poco da essere contenti, fossi nella presidente del consiglio non mi vanterei di essere considerata come un punto di riferimento. Bisogna parlare con queste persone, perché non sono numeri, non sono pedine di una dinamica astratta. Sono persone esattamente come lo erano gli albanesi trent’anni fa. Arrivavano in Italia ed erano considerati con lo stesso disprezzo con cui oggi nelle società europee molti guardano ai migranti. Eppure non vediamo che oggi molti di quegli albanesi sono perfettamente inseriti da noi, e i loro figli hanno preso o stanno per prendere la cittadinanza italiana. A questa storia, una storia che unisce Italia e Albania, dovremmo guardare, anziché impiantare un nuovo lager tornando indietro di 100 anni.
Tornerete a Gyader?
Ci organizzeremo con una staffetta che garantisca la presenza costante di parlamentari, associazioni e giornalisti perché tutti tengano costantemente aperti gli occhi su questa vergogna.

 

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