Scuola, pace e compagnia
da rivista.vitaepensiero.it
Scuola, pace e compagnia
09.11.2024
di Josep Maria Esquirol
Chiazze di pace
Ogni terra dovrebbe essere terra di pace. Di fatto, però, non è così, e probabilmente non lo è mai stato. Sparsi qua e là, cumuli di violenza arrivano fino al cielo. A volte ci sono tregue, e anche ‘isole’ o ‘eccezioni’: comunità pacifiche che cercano un posto lontano o che, semplicemente, si mettono ai margini.
Si è palesata persino qualche strategia paradossale, come il tentativo di scacciare la violenza con la minaccia della punizione divina. Dato che una chiesa era considerata uno spazio sacro dove non poteva esserci violenza, si pensò di allargare il raggio. Si decise di delimitare, intorno alla chiesa, un cerchio più grande che fosse considerato sotto la diretta protezione divina. Questo avvenne verso la fine del Medioevo, quando l’istituzione ecclesiastica riuscì a farsi ritenere dai contadini come una certa garanzia contro l’estorsione feudale. Il diritto di asilo sul sagrato prevedeva uno spazio compreso in un raggio di trenta passi intorno a una chiesa o a un eremo che il vescovo delimitava solennemente nel momento della consacrazione dell’edificio di culto. In questo spazio non poteva aver luogo alcun atto di violenza, sotto pena di scomunica. L’effetto immediato di questo diritto fu la concentrazione di edifici accanto alle chiese, come pure l’apertura di magazzini dove stipare gli alimenti ed evitarne così il saccheggio.
Da questo episodio storico potremmo trarre ora una bellissima immagine: sulla vasta mappa del mondo, cerchi o chiazze di pace. Se di queste chiazze ce ne fossero abbastanza, non ci sarebbe neanche bisogno che occupassero tutta la mappa. Con il loro influsso sui luoghi confinanti, la pace si estenderebbe ovunque. Chiazze di pace sull’orizzontalità della terra. Centinaia di chiazze. E poi migliaia. E poi centinaia di migliaia. Fino a trasformare tutta la terra in un immenso sagrato. Ebbene, la conditio sine qua non della scuola è che sia un sagrato. Non vi si può tollerare alcuna violenza reale. E non mi riferisco a una semplice assenza di parolacce o gesti rudi; entrambe le cose possono non avere niente a che fare con la violenza – senza che ci scomponiamo troppo –, mentre un vocabolario elegante e gesti molto ‘educati’ possono nascondere una grande violenza.
Se, attraversata la soglia di una scuola, un bambino, debole per un motivo o per l’altro, è minacciato, disprezzato, maltrattato, ignorato o schernito, lì non c’è scuola. Quando questo succede, e mentre durano gli effetti che ne conseguono, la scuola viene letteralmente annullata. Non c’è una situazione problematica, proprio non c’è scuola. Perché è svanita la pace. E qui sì che si tratta di bianco o nero. Quando uno scherno fa male a qualcuno particolarmente debole, in quel preciso istante la luce della scuola si spegne, diventa buio, cala la notte. Scatta l’allarme silenzioso della verità, e forse qualcuno cerca di venire caldamente in aiuto: è l’unico modo di accendere di nuovo la luce. Durante il tempo straordinario – o santo – in cui la scuola è scuola, essa è una chiazza di pace e irradia onde pacifiche intorno a sé, di modo che il suo raggio si allarga. Qui non c’è bisogno di vescovi che vengano a benedire; la benedizione emana direttamente dalla condotta pacifica delle persone al suo interno.
È assai sintomatico che oggi, in alcune occasioni un po’ estreme, scuole e maestri siano un rifugio per ragazzi che vivono in situazione di violenza domestica. La pace, così difficile, dipende da mezza spanna e trenta passi. Mezza spanna è lo slittamento di ogni cosa che cambierebbe tutto. E trenta passi è la misura della chiazza sulla mappa. Mezza spanna per far slittare ogni cosa, quasi metafisicamente, e trenta passi a partire dal centro, con un grande cerchio di persone che si tengono per mano. La mezza spanna della rivoluzione, e i trenta passi della pace. Luoghi di resistenza; semenzai – vivai – per poter fare di tutto il mondo un sagrato.
E invece il mondo è ancora in guerra. Oggi i trasgressori non sono minacciati con la scomunica divina, ma con istituzioni come la Corte penale internazionale. Eppure le cose non vanno meglio di prima. I ‘potenti’ se ne infischiano di tutto, e tanta gente si lascia portare dalla demagogia e dai propri interessi egoistici, mentre altra – brava – gente vuole solo vivere in pace.
C’è molta violenza fuori. Facciamo in modo che non ce ne sia dentro!
L’incontro con gli altri, e farli diventare compagni
Che cosa succede al di là della soglia di scuola? […] Dobbiamo parlare dell’incontro con gli altri, per farli diventare compagni. Perché, in effetti, la compagnia si crea. Si crea quando si condivide qualcosa. Etimologicamente, quando si condivide il pane, ma, per estensione, quando si condivide qualcosa che ci fa piacere, o anche quando si condivide qualcosa di triste, per alleggerire un po’ il peso tra tutti quanti. A casa si condivide il pane, e a volte anche il mondo. A scuola si condivide il mondo, e a volte anche il pane. Ebbene, è necessario condividere la bellezza delle cose del mondo con tutti gli altri, e non solo con i più simili a noi, o con i ‘più amici’. Con tutti gli altri, e in particolare con il diverso e debole. La scuola è una repubblica, perché tutti a scuola devono essere tenuti in considerazione. Sto ripetendo che scherno e indifferenza sono prove di non-scuola. E non lo sostengo sulla base di una sorta di zelo morale particolarmente rigido, lo sostengo in accordo con il legame essenziale tra scuola e pace. Ognuno si vede confermato nella sua solitudine, sì. Ma questo processo va di pari passo con il vedersi confermato nei propri rapporti, con i genitori, con i fratelli, con il maestro, e con altri come me…
Se le parole inaudibili ma precise che dal maestro arrivavano all’alunno erano queste: «Sei solo, ma vale la pena conoscere il mondo», le parole inaudibili ma precise che gli arrivano dal compagno sono: «Non mi lasciare solo, fammi compagnia». La solitudine che io sono non è un invito all’egocentrismo ma alla fraternità. Il condividere a scuola prende la forma del sostenere chi hai vicino. È una risposta difficile. Con modulazioni che vanno dal farsi strada senza calpestare l’altro al non calpestare l’altro come strada.
Soprattutto, non fare del male. Riconoscere che c’è solo un mandato che viene dall’altro: non fare del male. E non fare del male è già fare del bene. Perché l’indifferenza è uno dei modi più taglienti di fare del male.
Durante una gita scolastica, mentre il gruppo saliva su un sentiero ripido, l’accompagnatore vide uno dei bambini che portava a cavalcioni il suo fratellino. Sentendosi osservato, il bambino, tutto sudato e rosso in viso per lo sforzo, disse all’accompagnatore: «Non pesa, è mio fratello». «Non pesa, è mio fratello»: è questa la parola d’ordine. E sì, la fraternità ha intensità ed espressioni diverse. Bisogna intenderla in senso lato, come si fa quando appare come ideale rivoluzionario.
È ovvio che a scuola non si chiede la fraternità familiare dei fratelli, ma la fraternità del rispetto e della solidarietà. È già molto, moltissimo. Che la fisionomia degli altri non sia mai un invito al disprezzo, ma un’opportunità per diventare e sentirsi compagno. Potrebbe addirittura essere un errore pretendere di riprodurre l’affetto più intenso che si può avere nel seno di una famiglia. La scuola è il luogo del rispetto; il luogo in cui si tengono in considerazione gli altri e li si tratta con cura. È già molto; di fatto, è tutto. Di conseguenza, nulla è più allarmante delle situazioni di violenza, troppe volte affrontate con inefficacia e senza energia. E persino con episodi che lasciano attoniti, come quando l’insegnante di una bambina di nove anni dice alla madre: «Abbiamo un problema. Sua figlia è troppo buona. Dovremo fare qualcosa». Esattamente il contrario! Bisogna fare qualcosa con i bambini che non sono così; aiutandoli ad avvicinarsi agli altri; aiutandoli a capire che l’interesse per farsi spazio non deve mai essere a scapito degli altri.
Estratto da La scuola dell’anima. Dalla forma dell’educare alla maniera di vivere (Vita e Pensiero)
Josep Maria Esquirol
Josep Maria Esquirol (1963) insegna Filosofia all’Università di Barcellona, dove dirige anche «Aporia», gruppo di ricerca sulla filosofia contemporanea, l’etica e la politica. Il saggio La resistenza intima. Saggio su una filosofia della prossimità (tradotto in italiano da Vita e Pensiero nel 2018), in Spagna ha ricevuto il prestigioso Premio Nazionale per la Saggistica ed è diventato un caso editoriale di successo, avvicinando anche il grande pubblico ai concetti portanti della riflessione filosofica sull’umano.
Commenti Recenti