Draghi e Draghetta. Ma quale continuità: Meloni non ha ereditato nulla

da www.huffingtonpost.it
18 Luglio 2023

Draghi e Draghetta.

Ma quale continuità: Meloni non ha ereditato nulla

di Alessandro De Angelis
A un anno dalla caduta del “governo dei migliori”, molti dicono che la premier segue le tracce del predecessore. Ma postura e dossier (soprattutto il Pnrr) raccontano tutta un’altra storia: paralisi e ideologia
Circa un anno fa (le dimissioni furono rassegnate il 21 luglio, il giorno prima al Senato si capì che era finita) il game over del governo Draghi. L’esperienza, per intensità e peso reputazionale, con tutti i suoi pregi – la gestione dell’emergenza pandemica prima, economica poi e un ritrovato senso dello Stato – e i suoi limiti – l’impulso riformatore a un certo punto frenato dalle compatibilità di una maggioranza difficile – resta, a tutt’oggi, un metro di paragone per misurare quantomeno il tasso di credibilità e di serietà dei successori. Si dice, con (una certa indulgenza): la Draghetta. E non c’è dubbio che Giorgia Meloni, rispetto ai tempi in cui ululava contro l’euro, sosteneva che debbono essere i mercati ad adeguarsi alla politica e (nel suo libro) definiva la Russia di Vladimir Putin un baluardo per la difesa della cristianità, nei suoi fondamentali (vicolo atlantico e vincolo di bilancio) abbia fatto un bel bagno di realtà. Non solo da quando è approdata a Palazzo Chigi, ma anche da prima, col sostengo alla causa ucraina e un programma elettorale dove aveva depennato il tema dello “sforamento di bilancio”. Per fortuna. Per l’Italia.
E tuttavia nell’euforia da pericolo scampato va di moda sostenere come in fondo questo sia sufficiente per dire che, nei suoi fondamentali, la premier governa dal centro, in continuità col predecessore, derubricando a colore o a concessioni tutto sommato tollerabili le intemerate di qualche fascistello che ha attorno, l’universo reazionario sui diritti, la colonizzazione della Rai, eccetera eccetera. Vale la giornata di oggi per misurare quanto la differenza sia icastica (e la narrazione fallata). Un governo che (tutto in un giorno) respinge con sdegno la proposta sul salario minimo, avvia la discussione sulla maternità surrogata come reato universale e convoca l’ennesima inconcludente cabina di regia sul Pnrr, che sta saltando, è l’opposto di Mario Draghi.
Basterebbe la postura: l’uno che concepiva il suo mandato, certo eccezionale, come costituzionale, con l’idea di unire il paese. L’altra che interpreta il suo legittimo esercizio di un mandato politico come perennemente contro la parte che non l’ha eletta, secondo la logica del nemico – esterno o interno – e con una perdurante sindrome revanscista da polo escluso. Magari è eccessivo dire che il governo Draghi fu il “governo dei migliori” – piuttosto era il governo guidato dal più autorevole di questi tempi – ma questo è il governo dei comprimari, cui la premier, che li ha scelti per fedeltà più che per merito, è legata da un rapporto clanico. Il che non la rende nemmeno del tutto libera, come evidente nella difesa a testuggine neanche davanti agli scandali.
Però vediamo i dossier. Salario minimo, innanzitutto: Draghi, che aveva anche l’abitudine di confrontarsi con i sindacati, aveva annunciato che il governo avrebbe recepito la direttiva Ue in materia. L’idea, su cui stava lavorando col ministro Andrea Orlando prima di cadere, era di assicurare a tutti i lavoratori di un comparto, come compenso base – da cui non si può scendere – quello garantito dal contratto nazionale (negoziato quindi dai sindacati di categoria) più diffuso in quel settore. Con tutte le difficoltà del caso è l’idea di tenere un equilibrio sociale che è l’opposto dell’approccio neo-corporativo del governo Meloni, che ha cuore le categorie più vicine al centrodestra (compensate con condoni e contanti), facendo pagare il prezzo al disagio (lavoro povero e abolizione reddito di cittadinanza per fare cassa). Insomma, la linea è: non vi abbassiamo le tasse (con buona pace delle promesse elettorali) ma ai nostri ceti di riferimento concediamo un po’ di evasione.
Sulla riforma del fisco, Draghi fu paralizzato dai veti, lo è anche Giorgia Meloni (in questo caso la competizione è a destra con Salvini) però agì in modo strutturale sul taglio del cuneo (del 2 per cento) agendo al tempo stesso sull’Irpef, con una manovra da 7-8 miliardi che portò le aliquote da cinque a quattro. Per un totale di dieci miliardi. A questo aveva aggiunto l’assegno unico, già finanziato con 18 miliardi, cui ne aggiunse altri sei. Un alleggerimento fiscale dunque di circa 15-16 miliardi. L’attuale governo ha rifinanziato l’assegno unico, sul cuneo ha aggiunto un punto per i redditi bassi a livello strutturale e altri quattro punti ma solo per sei mesi (da luglio a dicembre). Ma non ha toccato l’Irpef, il che riduce l’impatto del cuneo. C’è da augurarsi che, in manovra, saranno trovati dieci miliardi per rifinanziare il tutto, ma al momento non v’è certezza.
La vera macroscopica differenza è il Pnrr, che, essendo una grande questione politica, qualifica il tutto. Il governo Draghi era il “governo del Pnrr”, vissuto, per tensione e concentrazione, non solo come punti di Pil ma come la grande occasione per sanare gli anni del declino italiano. E avviare quelle riforme che ci avrebbero masso al pari con i grandi paesi europei, dall’istruzione alla pubblica amministrazione alla giustizia. Vero: attuarlo sarebbe stato oggettivamente complicato per tutti, considerate le lungaggini dalla macchina pubblica italiana. Di soggettivo c’è che si è data l’idea che fosse un obiettivo burocratico, come se si raggiungesse da solo, mentre la politica discettava di finte priorità, dai rave al contante alla commissione Covid (annunciata canea dei no vax, a proposito di continuità e revanscismo).
E qui si registra una catastrofica discontinuità, determinata da un antico pregiudizio ideologico (Giorgia Meloni, ai tempi del negoziato europeo, era contraria al Pnrr e avrebbe preferito il commissariamento dell’Fmi) e da precise scelte politiche. Che vanno dal cambio della struttura di governance creata da Draghi all’approccio riformatore. Proprio perché l’ex premier aveva fatto di esso la principale questione nazionale, il Pnrr era la bussola che orientava tutto il resto, a partire dalla riforma della giustizia. Per Marta Cartabia l’ossessione era velocizzare i processi, per Carlo Nordio sembra una vendetta postuma di Silvio Berlusconi. In assenza di un disegno di grande riforma, anche il pacchetto limitato presentato in Parlamento con la velocizzazione dei processi non c’azzecca nulla, ma si muove su un terreno tutto politico, amplificato dai tanti proclami che ripropongono l’antico conflitto con i giudici.
Insomma, due parole fotografano la discontinuità rispetto a Draghi: paralisi, frutto anche di una competizione tutta a destra del governo (vedi fisco e Mes), e ideologia. E l’ideologia è il modo per recuperare, sul piano simbolico, l’immobilismo sulla struttura. Per cui – belle soddisfazioni! – magari avremo la maternità surrogata come reato universale (cioè si andrà sotto processo in Italia per una cosa commessa nella civile America, dov’è legale) ma ancora non arriva la terza rata del Pnrr richiesta a dicembre e sulla quarta, che ancora non è stata richiesta, mancano 17 obiettivi su 27. E finora i circa 70 miliardi sono stati spesi quasi tutti da Mario Draghi. Quest’anno abbiamo speso solo 1,2 miliardi su 30, perché non si riescono a fare i bandi.
L’unica cosa che funziona, e qui c’è una granitica coerenza, è quel disegno di occupazione del potere, che è la vera ragione per cui fu posta fine all’esperienza Draghi: le nomine previste (“Big Five”) e quelle messe in agenda con una forzatura, dalla Rai agli apparati dello Stato, inseriti in un irrituale spoil system. Qui la sintesi tra fame atavica e dinamismo è perfetta.

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