Batto e ribatto il solito chiodo, ma entrerà nella testa di qualcuno?

Batto e ribatto il solito chiodo,

ma entrerà nella testa di qualcuno?

di don Giorgio De Capitani
Non dovrei intervenire o interferire negli affari altrui, ovvero in faccende anche complesse che riguardano comunità cristiane, che stanno vivendo momenti di grave difficoltà nel campo pastorale.
Per esperienza so quanto sia già difficile, quando si è sul posto o si fa parte di una comunità o si hanno delle responsabilità, conoscere a fondo e cercare di risolvere i problemi ecclesiali, ovvero quelli che riguardano la gestione pastorale di una comunità di credenti.
Ogni prete ha una propria personalità, e una propria visuale di fede, più o meno aperta, più o meno saggia, più o meno evangelica, e, se ci rimane per parecchi anni, dà alla propria comunità una “sua” impronta religiosa, che talora viene esasperata con un fare o strafare da unico capitano con quell’autoritarismo, che si può così sintetizzare: “il parroco fa tutto lui, come vuole lui”, ovvero accentra intorno al proprio ego anche ciò che potrebbe e dovrebbe essere delegato a laici ben preparati e già maturi, senza tenerli nel grembo di un pragmatismo di comodo.
Non entro nei singoli casi, anche perché potrei dare giudizi poco oggettivi, ovvero non corrispondenti alla realtà delle situazioni locali, per cui non mi riferisco direttamente al caso della comunità di Cernusco Lombardone (Lc), che attualmente sta vivendo un momento difficile di transizione, non solo per il trasferimento del parroco, ma soprattutto in vista di un cambiamento diciamo strutturale, con la domanda: resterà ancora parrocchia a se stante con un suo parroco a tutti gli effetti, oppure farà parte di una Comunità pastorale con Osnago e Montevecchia, secondo quel piano già prefigurato dal card. Dionigi Tettamanzi?
Al di là, ripeto, di questo specifico caso, mi chiedo il motivo per cui i superiori agiscano con il solito sistema di voler coprire decisioni già prese. Che cosa risolvono con questo modo di fare, mai da me sopportato, per cui dicono e non dicono, anche con bugie? E i laici come reagiscono? A un certo punto si stancano, dicendo da rassegnati: “Che facciano come vogliono!”. E si allontanano.
So, d’altronde, che talora i superiori decidono anche in modo brutale scelte che dovrebbero essere prese confrontandosi con le persone interessate, clero e consigli pastorali. Sì, in modo brutale, perché disumano.
Qualcuno mi accusa di essere un “ingenuo”, perché non mi renderei conto che anche il clero milanese ha i suoi difetti, tra cui la poca disponibilità ai voleri del Vescovo. Ci sono preti che creano mille problemi quando vengono trasferiti: alcuni apertamente disobbediscono, altri obbediscono ma solo a metà, ponendo condizioni anche inaccettabili. Basterebbe pensare anche alle difficoltà di trasferirsi materialmente da una casa parrocchiale all’altra. E pensare che da anni sostengo che ogni canonica dovrebbe essere già ammobiliata per qualsiasi prete che venga, senza che ci sia quel vergognoso anche costoso adattamento di mobili ecc. ecc. Certo, i veri problemi sono ben altri, che meriterebbero una particolare attenzione, e perciò riflessioni più articolate. Lo farò con altri interventi.
Per quanto riguarda la disponibilità del clero al proprio vescovo, mi ricordo che ai tempi in cui frequentavo Teologia presso il Seminario di Venegono Inferiore (Va), anni ’60, l’allora Padre spirituale, don Giuseppe Zanoni, aveva ideato e realizzato una specie di Congregazione che mi pare si chiamasse “degli Oblati diocesani”, alla quale facevano parte, per libera scelta, alcuni preti diocesani che emettevano una specie di voto di obbedienza, così da essere disposti “perinde ac cadaver”, ovvero ciecamente, senza porre alcuna condizione, qualora il vescovo diocesano li destinasse in un certo posto a svolgere la propria missione di prete. Già allora, quindi, c’erano preti che creavano problemi di obbedienza alle direttive o alle scelte del proprio vescovo. Tra parentesi. Già l’idea di Padre Giuseppe Zanoni era stata contestata da alcuni teologi del Seminario perché, secondo me giustamente, metteva in dubbio la spiritualità del prete diocesano, che non aveva bisogno di aggiungere il voto di obbedienza. Per chiarezza, i preti diocesani, a differenza dei religiosi, non emettono alcun voto, ma solo una “promessa” di obbedienza.
Ma ripeto: un certo dialogo con la schiettezza del confronto ci dovrebbe sempre essere tra il vescovo diocesano e i suoi preti: non si possono spostare i preti come fossero delle pedine, a tavolino, senza tener conto che sono esseri umani, con i loro limiti, e anche con le loro doti da non mortificare.
Da parte mia, non penso di aver rifiutato un solo trasferimento, certamente non ho accettato quello da Monte, perché quello non era un trasferimento, ma una “ingiusta punizione” come una condanna a vita, tanto più che c’era stato un contesto di vergognose bugie e di palesi contraddizioni. Avrei preferito sentirmi dirmi: “Te ne vai, perché non approviamo le tue idee o il tuo modo di fare pastorale”, e non invece: “Lascia la comunità, perché hai compiuto i 75 anni”. Che dire di quei miei compagni, anche di parrocchie vicine, vedi don Adriano di Sartirana, e don Enrico di Viganò, che sono rimasti ancora a lungo in parrocchia, ben oltre i 75 anni? Già, la legge non è uguale per tutti, soprattutto se di mezzo c’è la libertà di pensiero.
E così è successo e succede anche per la composizione delle Comunità pastorali, che aggregano magari parrocchie che, per diversi motivi, anche geografici, non stanno bene insieme. Lo stesso cardinale Dionigi Tettamanzi, colui che diede inizio alla formazione delle Comunità pastorali, in un colloquio privato quando risiedeva a Triuggio mi confidò di aver commesso diversi errori anche gravi.
Siamo sempre al solito punto: quando si introducono novità, bisogna mettere in conto anche gli sbagli, ma ciò che non sopporto è la mancanza di buon senso, di saggezza, di prudenza, di discrezionalità, di discernimento, e questo esige un cammino, un confronto, anche una vivace dialettica.
Posso dire, per esperienza, di aver subìto tristemente l’imbecillità di una scelta sbagliata, quando come parroco di una nuova comunità pastorale (composta di 4 parrocchie!) venne scelto un prete con poco cervello e con una visuale di fede preconciliare. Una vicenda davvero allucinante!
E, tenendo presente ancora il mio caso personale, ad essere ottusi e ciechi non sono i preti, più o meno limitati e problematici, ma quei vescovi e i loro collaboratori che scelgono preti magari bravi per posti sbagliati, o preti sbagliati per comunità già fiorenti. E quando sento dire che il vescovo rappresenta Gesù Cristo e che anche eventuali sbagli rientrano nella Provvidenza di Dio che sa sempre correggere il tiro, allora vorrei urlare la mia disapprovazione: smettiamola di dire che ogni volere del Vescovo è Volere divino e smettiamola di provocare stupidamente lo Spirito santo.
Potrei citare tantissimi casi, uno lo accenno: la comunità di Perego, quando era parrocchia a sé, e anche dopo. Ha avuto buoni pastori, ma c’è stato un periodo in cui i parroci creavano seri problemi, e quando dicevo ai superiori: “Che il prossimo sia un po’ più decente, che possa risollevare la parrocchia disastrata”, mi rispondevano: “Sei sempre il solito che non si fida di noi!”. Infatti, immancabilmente arrivava un altro parroco peggiore del primo.
Perché scandalizzarci della scelta dei preti, quando tutti vediamo la situazione della nostra Diocesi, che, dopo Dionigi Tettamanzi, è finita nelle mani sbagliate? Prima con Angelo Scola, poi con Mario Delpini la Diocesi milanese sta arrancando, o meglio è entrata in un vicolo cieco.
E allora mettiamo insieme un po’ tutto: sia il clero con tutti i suoi difetti, sia le comunità cristiane con tutte le loro manchevolezze, sia vescovi che non sono all’altezza: che cosa potrebbe succedere? Una miscela che potrebbe esplodere da un momento all’altro; e noi siamo qui con le mani in mano, tacendo, subendo, borbottando, in attesa che arrivi il messia? No, arriverà un altro vescovo ancora peggiore, magari don Di Tolve Michele: siamo già abituati ai grandi “osceni” ritorni… Via da Milano, tornano a Milano, per fare altri danni, sempre più danni.
E voi credete che in questa Diocesi, che sotto gli occhi di tutti sta subendo una delle sue peggiori “deficienze” pastorali, ci sia qualche altro prete diocesano che alzi la voce? Eppure noto un certo malumore tra i preti, ma il clero milanese è famoso perché borbotta e borbotta, ma obbedendo, a modo suo, salvando in ogni caso la sedia del proprio più o meno piccolo potere.
Dovrei proseguire affrontando il problema della fede nelle comunità cristiane, visto che ogni giorno escono statistiche non certo confortanti sulla frequenza dei cosiddetti cristiani alla Messa o ai sacramenti in genere, per non parlare della pastorale in senso stretto. Le colpe non certo ricadono tutte sui credenti o falsi cristiani, ma soprattutto sulla gerarchia, dal papa al vescovo e al clero, che, invece che fari o punti di orientamento, sembrano ombre confuse nella nebbia di un opaco cristianesimo, ridotto a una forma di religiosità a pezzi, e il motivo è semplice: la gerarchia è fuori di sé o di quel Sé divino, perché vittima di una idolatria strutturale, per cui ciò che conta è quel dio senza Spirito ancora tenuto sul piedistallo di un ego tanto borioso quanto imbecille.
Cristo tornerebbe a ripetere: “Metanoèite”, cambiate il vostro modo di pensare, perché è carnale, ma si rivolgerebbe anzitutto alla gerarchia ecclesiastica, oramai uscita dai binari evangelici.
“Tutto da rifare”, ripeterebbe ancora Gino Bartali. Ma bisogna pur partire.

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