Omelie 2024 di don Giorgio: TERZA DOPO L’EPIFANIA

21 gennaio 2024: TERZA DOPO L’EPIFANIA
Nm 11,4-7.16a.18-20.31-32a; 1Cor 10,1-11b; Mt 14,13b-21
Tutti interessanti i brani della Messa. Il primo parla di cibi materiali: carne, manna, quaglie. Paolo parla di un cibo e di una bevanda spirituali, in riferimento a Cristo stesso. Il terzo, che è un brano di Matteo, narra il miracolo della moltiplicazione dei pani, a cui Giovanni darà un significato ancor più che simbolico: il Pane della vita è Gesù stesso.
Potrei soffermarmi a lungo sul primo brano: di cose da dire sarebbero tante e anche con riferimenti all’attualità. Una cosa anzitutto vorrei chiarire. Il cammino degli ebrei nel deserto verso la terra promessa non è stato per nulla facile. Pensavano che, fuori dall’Egitto, terra di schiavitù, avrebbero trovato ad ogni passo la provvidenza divina. Ma Dio non la pensava così: io ti aiuto se tu collabori. Ogni libertà è un cammino, e ogni cammino richiede l’intelletto e la volontà di colui che tende alla libertà più piena.
La cosa diciamo paradossale è quando, usciti da una terra dove si era rimasti schiavi per secoli, alla prima difficoltà di un cibo materiale gli ebrei rimpiangono l’Egitto, dove si mangiava da schiavi, ma gratuitamente, “pesci, cetrioli, cocomeri, porri, cipolle e aglio”.
E avevano la spudoratezza di parlare di un cibo “gratuito”, dimenticando i lavori duri e massacranti al servizio del faraone.
“Gratuitamente”! Anche oggi si è disposti a votare un regime che dà gratuitamente un pezzo di pane e tanti divertimenti: “panem et circenses”, dicevano gli antichi romani.
La stessa Grazia divina, che è la Gratuità per eccellenza, richiede l’impegno di ogni essere umano. E come pensare che un regime, che maciulla ogni senso di bene comune, possa mantenere gratis un popolo troppo a lungo? O, siamo più chiari, il regime solo apparentemente offre al popolo bue una cosa gratis: in cambio ti ruba la libertà interiore.
Una volta dicevano: meglio un pezzo di pagnotta comperata con il sudore della fronte che una vita facile, chini al potere più schifoso.
E dovrei anche dire una cosa sulla parte del mediatore, ovvero di Mosè, sempre tra due fuochi: obbedire a Dio e accontentare il popolo. Ma il dilemma è falso e ingannevole: in realtà non si tratta di scegliere Dio o di scegliere il popolo. Stare dalla parte di Dio significa stare dalla parte della giustizia, e del vero bene del popolo. Accontentare ogni richiesta o ascoltare ogni lamentela del popolo non solo si va contro la giustizia divina, ma contro il vero bene del popolo stesso.
Anche oggi fare la parte del mediatore o dell’intercessore non è facile: «Intercedere – diceva Carlo Maria Martini – non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione. Intercessione vuol dire allora mettersi là dove il conflitto ha luogo, mettersi tra le due parti in conflitto. Non si tratta quindi solo di articolare un bisogno davanti a Dio (Signore, dacci la pace!), stando al riparo. Si tratta di mettersi in mezzo».
E c’è un rischio reale, come lo è stato per Mosè: prendere le botte da una parte e dall’altra, anche da parte di quel Dio religioso che talora non sa più che pesci pigliare, magari sedotto dallo stesso opportunismo diplomatico.
Sarebbe interessante soffermarsi anche sul brano dell’apostolo Paolo, analizzando una comunità cristiana, come quella di Corinto, che già presentava difficoltà di ogni tipo: l’apostolo non sorvola su tutta una serie di problematiche (dissensi, invidie, immoralità, ecc.) che rendevano difficili i rapporti tra gli stessi membri che si vantavano di essere cristiani perché battezzati.
San Paolo dice chiaramente: non basta il battesimo, che è un rito di iniziazione per far parte della Chiesa, come per gli ebrei non bastava la circoncisione per essere fedeli all’alleanza con il Signore onnipotente. Come la circoncisione non garantiva la salvezza per un ebreo, così il battesimo di per sé per un cristiano non garantisce la sua salvezza eterna. Ecco perché san Paolo si rifà alla storia del popolo eletto, quando era nel deserto in cammino verso la terra promessa.
Come un buon esperto rabbino l’Apostolo richiama alcuni elementi fondamentali della fede ebraica, sviluppando l’esegesi della liberazione dall’Egitto del popolo d’Israele in rapporto a Mosé e quindi a Cristo. Gli israeliti hanno seguito Mosé e si sono fidati di lui; hanno camminato sotto la nube, hanno attraversato il mar Rosso, hanno mangiato la manna, hanno bevuto l’acqua scaturita dalla roccia (una leggenda dice che la roccia seguiva l’accampamento ovunque si posasse).
«Ma, dice san Paolo, la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto». In poche parole, scrive l’Apostolo: non basta una fede di belle parole, una fede di riti, di osservanze legali, occorre un impegno coerente come testimonianza di ciò in cui si crede.
Attenzione: non significa che le opere siano più importanti della fede, ma significa che la fede senza una testimonianza concreta di vita non basta.
Basterebbero queste parole di San Paolo per metterci in crisi: «Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi».
Lo stesso brano evangelico della Messa ci avverte: Gesù non ha compiuto la moltiplicazione dei pani per saziare solo il ventre di una folla, che tra l’altro aveva sfidato il deserto per ascoltare l’insegnamento del Maestro.
Vorrei brevemente farvi notare le partole di Gesù ai suoi discepoli, quando gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare».
Il greco permette una duplice traduzione: voi stessi (soggetto) procurate il cibo per la folla, oppure, traduzione da tanti preferita: voi (soggetto) date voi stessi (complemento oggetto) da mangiare alla folla. Capite quale potrebbe essere il senso pieno di ciò che intendeva dire Gesù, anche a noi, se vogliamo essere veramente suoi discepoli. Il quarto evangelista spiegherà: Gesù è il vero cibo per la vita eterna, bisogna nutrirsene se vogliamo vivere non solo come corpo o psiche, ma soprattutto come spirito.
Così noi: bisogna dare noi stessi, la nostra vita, al mondo, non solo come corpo e spiche, ma come spirito, testimoniando nel piccolo ambiente ciò in cui crediamo, ovvero in quanto grembo sempre disponibile alla rinascita del Logos eterno in noi. La gente capisce se viviamo nello Spirito santo, e, anche se inizialmente attratta da preti canterini o youtuber, presto si allontana alla ricerca di un cibo più sostanzioso. Gesù ha detto alla samaritana: “Viene l’ora, ed è questa, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito o verità”.

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