Merate (Lc), 18/3/2017, INCONTRO con MARCO VANNINI: “LA MISTICA NELLA CHIESA E NELLA SOCIETÀ DI OGGI”
Ecco il video dell’Incontro con Marco Vannini, filosofo e storico di mistica, sabato 18 marzo 2017, presso l’Auditorium comunale di Merate (Lc). Anche su richiesta dello stesso Vannini, ho tolto la parte finale, quella riguardante le domande di alcuni del pubblico e le risposte del relatore.
Metto il testo della mia relazione introduttiva.
INTRODUZIONE DI DON GIORGIO
Incontro con Marco Vannini
Vorrei partire da una data, l’anno 2013, quando il cardinale Angelo Scola mi ha messo “forzatamente” in pensione, a vita privata. Solo apparentemente è stato l’inizio della fine, in realtà è stato l’inizio di una nuova avventura, che mi ha portato, in questi tre anni e mezzo, a scoperte del tutto imprevedibili.
Usando un’espressione dantesca, “galeotto fu” anzitutto un libro su Raimon Panikkar, e successivamente i libri di Marco Vannini sulla grande Mistica. Come si suol dire, un libro tira l’altro, e le citazioni di altri libri mi portavano ad acquistarli, fino alla scoperta di grandi mistiche (Margherita Porete) e di grandi mistici (Meister Eckhart), di grandi pensatori (Simone Weil, Angelus Silesius, Sebastian Franck), e ultimamente di un monaco benedettino francese, sceso in India, attratto dalla spiritualità induista, Henri Le Saux: ho rubato da lui l’espressione “Caverna del cuore”.
Ma facciamo qualche passo indietro negli anni. Figlio del ’68, ho creduto anch’io ad una rivoluzione strutturale, poi man mano ho capito che le strutture non cambiano o, meglio, cambiano sì ma per lasciare il posto ad altre, magari peggiori. Il cardinale di Milano, Giovanni Colombo, all’epoca degli anni della contestazione accusava noi preti giovani di essere “orizzontali”, ovvero di pensare troppo alle cose sociali, e di essere poco “verticali”, ovvero di pensare poco alle realtà divine. Aveva ragione, e aveva torto. Aveva ragione nel dire che eravamo “orizzontali”, ovvero all’esterno del nostro essere interiore, ma aveva torto perché intendeva per “verticale” il verticalismo puramente religioso, ovvero legato ad una specifica religione, dimenticando che il cristianesimo non è una religione, ma qualcosa di completamente “altro”, di meglio, di essenzialmente interiore.
Poco prima di Natale un amico mi ha regalato un libro: “L’Isolotto: una comunità tra Vangelo e Diritto canonico”: l’ho letto in pochi giorni. Non sto qui a dire le mie sensazioni. Dico solo: la Chiesa e la società civile non vanno contestate sul loro stesso terreno: forse è giunta l’ora di cambiare tattica, ovvero di partire non più dall’uomo nel suo orizzontalismo esistenziale, ma dalla sua dimensione “spirituale”, che non è quella strettamente religiosa, ma dell’essere umano nella sua più intima interiorità.
Tra l’orizzontalismo di carattere socio-politico e il verticalismo di carattere religioso, esiste una terza via, ed è quella della “interiorizzazione”, ovvero della scoperta dell’essere umano nella sua sorgente più profonda.
Non si vince il potere con l’anti-potere, non si vince la struttura con l’anti-struttura, non si vince la gerarchia ecclesiastica con l’anti-gerarchia ecclesiastica, non si vince la religione con l’anti-religione. L’alternativa al potere, alla struttura, alla gerarchia e alla religione non sta in un anti, ma in un intra: l’”anti” ci pone ancora sullo stesso piano di ciò che vorremmo contestare, ovvero ci pone fuori dall’essere umano in quanto “spirituale”, mentre l’”intra” sposta il campo di battaglia: dalla realtà extra l’essere umano al suo interno, nel fondo dell’anima.
Veniamo ora al mio recente libro scritto in occasione del 50° della morte di don Piero Pointinger, che ha esercitato il suo ministero pastorale presso la parrocchia di Rovagnate, dal 1948, appena ordinato sacerdote, fino alla sua prematura morte, 7 giugno 1967.
Non ho voluto ricordare don Piero per le sue pur lodevoli opere, che tra l’altro il tempo in questi cinquant’anni ha in parte logorato, ma ho scritto il libro “DAL PARADISO ALLA CAVERNA DEL CUORE” per stimolare i lettori a riscoprire il suo pensiero, rimasto ancora nascosto o dimenticato, giustificandosi che don Piero era difficile nelle sue omelie. Certo, era profondo, ma stanno qui la sua vera ricchezza e la sua vera eredità.
Dunque, non ho inteso spiegare/interpretare e tanto meno banalizzare/ridurre in slogan i pensieri profondi, ritenuti ermetici, di don Piero. Avrei commesso un grosso sbaglio. O, diciamo, lo avrei potuto anche fare, ma con un altro intento: ovvero, togliere qualche velo di quell’ansia di Paradiso che, più che nostalgia (termine che comunque eviterei), era quel mondo interiore di un prete innamorato del Divino/Umano che, prima di fare, pensava, sapendo che il suo pensiero (scusate il gioco di parole) andava ben oltre il suo fare.
Ho voluto invece mettermi quasi di fianco, per camminare insieme, con un certo timore per non essere di incomodo, verso quel mondo (paradiso o caverna del cuore) che non sta in alto (cielo) o in basso (terra), ma intra, dentro, dove ciascuno “è”.
Le cose passano, ma il grande Pensiero lascia tracce così profonde che né il tempo né le ideologie né le banalità della vita riusciranno a distruggere. Non dobbiamo ricordare solo le opere grandiose di chissà quali costruttori della storia del fare; la nostra vera eredità, da rivivere ogni giorno, è il puro Pensiero dei filosofi e la pura Profezia dei Mistici.
Ho detto “grandi”, ma ci sono anche gli umili spiriti liberi, che non mancano neppure nei nostri piccoli paesi. In ogni paese, c’è un riflesso di saggezza antica e sempre nuova.
Inoltre, anche se potrebbe sembrare del tutto azzardato, vorrei tuttavia fare una specie di confronto tra don Piero e don Lorenzo Milani, se non altro perché: morti entrambi quarantenni, per una grave malattia tumorale, nello stesso anno, 1967, lo stesso mese, giugno.
Notevolmente differenti, sotto tanti punti di vista, soprattutto nel campo pastorale e pedagogico (senz’altro più innovativo e rivoluzionario don Milani, la cui popolarità ha varcato i ristretti confini di Barbiana, paese di pochi abitanti), vorrei far notare un aspetto che ritengo interessante: don Lorenzo non ha lasciato nulla in opere (prima di morire ha chiuso perfino il suo doposcuola), ha lasciato solo il suo insegnamento o diciamo la sua pedagogia, che è stata studiata in tutto il mondo, mentre don Piero è ricordato solo per alcune sue opere, e non per il suo pensiero, ritenuto da tutti difficile e incomprensibile.
Ed è per questo che, mentre il don Lorenzo pensiero è più che evidente, sotto gli occhi di tutti, il don Piero pensiero è tutto da riscoprire, approfondire, ripresentare nelle sue profonde intuizioni.
Ma… sarei troppo semplicistico facendo questa distinzione a favore di don Milani, come se il Priore di Barbiana fosse stato bene inteso e non invece anche frainteso.
Paradossalmente, quasi quasi mi azzardo a dire che don Piero, nel suo piccolo, è rimasto almeno incontaminato nel suo pensiero, ancora lì tutto da scoprire, mentre don Lorenzo è stato ed è tuttora strumentalizzato nel suo “extra pensiero”. Mi spiego. Tutti ancora a parlare di un don Milani sessantottino, rivoluzionario social-politico, di sinistra, comunista classista, addirittura costituzionalista, dai modi poco ortodossi, sgarbati, volgari, offensivi; un prete scomodo per la Chiesa per aver messo in discussione il suo metodo pastorale ed educativo, e soprattutto il maestro integralista che ha contestato la scuola italiana.
Mi chiedo: è tutto questo il vero don Lorenzo Milani? E il suo mondo interiore dov’è? Qual era il suo Dio? Credo che sia lecito chiederci in quale Dio don Milani credesse. Don Milani stesso si definiva un “mezzo ebreo” e ha cercato sempre di rimanere il più possibile vicino alla propria origine. Qualcuno parla di un ebraismo in don Milani a tratti latente, nascosto, eppure ben riconoscibile.
Forse è difficile rispondere alla domanda: a differenza degli appunti di don Piero, dove è continuo, come in un dialogo spontaneo e serrato, il confronto con il suo mondo divino, certo quello cattolico, ma nello stesso tempo sottoposto ad una severa indagine speculativa e meditativa, negli scritti di don Lorenzo poche volte si parla di Dio, di Cristo, del Vangelo, della fede: sì, si parla della Chiesa ma nei suoi aspetti istituzionali da riformare per una pastorale più aderente agli ultimi e ai poveri.
Eppure, ci sono almeno due indicazioni che potrebbero aiutarci a scoprire la sorgente interiore di don Milani.
Don Lorenzo, ad una domanda sulla scuola, così risponde: «Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio a averla piena… Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter far scuola. Bisogna essere…». Sì, bisogna essere!
La seconda indicazione la trovo nel dialogo tra Lorenzo seminarista e il suo vecchio maestro di pittura, Hans Joachim Staude. Un giorno Lorenzo va a trovarlo. Quando Staude lo vede, esclama: «Ma che cosa è questa tonaca?». E Lorenzo: «Ho deciso di farmi prete. È tutta colpa tua, caro Joachim… Sì, perché tu mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli, di semplificare, di vedere le cose come un’unità dove ogni parte dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada».
Ma, insistendo sul confronto tra i due preti, a differenza di don Piero che non è salito sull’altare di una popolarità mondiale fuori controllo, mantenendo perciò quella incontaminata libertà di spirito ancora tutta da scoprire, don Lorenzo subirà via via il martirio di una “santificazione” soprattutto laicale per non dire laicista, che tradirà la persona don Milani, facendone un personaggio buono per ogni stagione, e tradirà il suo messaggio, riducendolo in slogan populisti per tappare ogni buco e ogni ricorrenza.
L’errore più grosso è quello di rendere qualcuno un mito, metterlo sul piedistallo e quasi venerarlo ponendo un’aureola sopra qualsiasi cosa abbia fatto o sopra qualsiasi parola abbia detto. Anche i santi hanno commesso errori, hanno detto o scritto castronerie. Pur nel suo piccolo, hanno reso un mito anche don Piero: se osi rimarcare qualche suo difetto, sei fulminato, e magari da parte di coloro che, quando don Piero era in vita, lo avevano crocifisso.
Ma vittima della mitizzazione è stato soprattutto don Lorenzo, che torna sul piedistallo, ogniqualvolta ci sono le commemorazioni, quando è d’obbligo parlarne bene.
Ma chi opera queste mitizzazioni? Soprattutto la folla che, come ha scritto un grande filosofo e teologo danese, riesce sempre a farla da padrona e a togliere al Singolo il suo mondo interiore: “In ogni campo, per ogni oggetto, son sempre le minoranze, i pochi, i rarissimi, i Singoli, quelli che sanno: la Folla è ignorante”.
Il Singolo è solitudine, come è stata solitudine estrema quella di Cristo morente che, sulla croce, urla: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. E si chiude così, nel silenzio drammatico del Padre, la vicenda storica di Gesù di Nazaret, il quale, come scrive Giovanni, mentre muore “consegna lo spirito”, che alcuni traducono: “dona lo Spirito santo”.
Don Piero scrive nei suoi appunti: «Quando moristi, dalla tua bocca uscì un soffio: un suono che ciascuno intese, ma che nessuno comprese. Lasciamo pensare che in quell’ultimo anelito ci fosse anche il mio nome. Lasciamo pensare che mi chiamasti con un soffio divino».
Se don Piero è diventato un mito per i rovagnatesi, don Milani non ha certo evitato di dare occasioni alla folla di osannarlo. In una lettera alla mamma scrive: «In quanto a San Donato, io ho la superba convinzione che le cariche di esplosivo che ci ho ammonticchiato in questi cinque anni non smetteranno di scoppiettare per almeno cinquant’anni sotto il sedere dei miei vincitori».
L’ipertrofia dell’ego di don Lorenzo forse non è solo una invenzione dei suoi detrattori, ma sembra talora evidente dal suo modo di agire e da alcune sue affermazioni. Nel libro “Non so se don Lorenzo”, Adele Corradi riporta il seguente episodio: «“Voi non ci credete”, ripeteva don Lorenzo un giorno sì e uno no a quegli otto ragazzi che stavano scrivendo la Lettera a una professoressa, “ma io sono un grande maestro. Voglio scriverlo su un cartello a caratteri cubitali: IO SONO UN GRANDE MAESTRO e appenderlo sulla mia testa qui sopra il mio letto, perché voi non lo capite che io sono UN GRANDE MAESTRO”».
Eppure, credo che valgano ancora le parole di Cristo: «Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8). E queste altre parole, sempre di Cristo: «… dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17,10).
Don Piero scrive: «Ciò che avvicina l’uomo a Dio è innanzitutto una relazione di presenza nel silenzio. Poiché Dio è l’Infinito, possederlo significa imporsi il silenzio d’ogni personalismo egoistico. Poiché Dio è l’Amore e l’amore è ineffabile, solo il silenzio può esprimerlo. Come il bimbo che, guardando una cosa bellissima, subito disse: “Oh mamma!” poi tacque, questa relazione di presenza nel silenzio si completa in quella di “donazione in consumazione”. Poiché la materia si spiritualizza, consumandosi nel dono, come la goccia che sale all’amplesso del cielo, sublimando la sua natura, mentre par che la terra la perda. Poiché solo quando l’uomo è discreto come una goccia, allora Dio ne fa una perla del suo cuore».
Qualcuno potrebbe pensare che io abbia cambiato idea su don Milani e che ora quasi lo disprezzi. Ma si sbaglia. Non è così. Certo, metto in discussione il don Milani manipolato, frainteso, usato e strausato, citato in ogni occasione opportuna e inopportuna. Vorrei che uscisse fuori il vero don Lorenzo, cioè che si riscoprisse sotto la sua scorza ruvida e orgogliosa quello spirito interiore che lo animava nel suo agire e che col tempo si è quasi disperso tra osanna sperticati e oblii di una generazione che facilmente si immerge nel presente, staccandolo dalle eredità di un passato segnato da grandi maestri e da grandi profeti. Così vorrei che uscisse fuori il vero don Piero, al di là delle tre o quattro opere che sono ancora rimaste, oramai logore. D’altronde, non dimentichiamo: i tempi cambiano, per tutti. Se fossero qui oggi don Piero e don Lorenzo, probabilmente non sarebbero lo stesso don Piero e lo stesso don Lorenzo. Se dovessi tornare a fare il prete a Cambiago (erano gli anni ‘70), anzitutto non ci tornerei, e se dovessi tornare non sarei più il don Giorgio di 60 anni fa.
Che significa, allora, commemorare don Piero e don Lorenzo? Cerchiamo almeno di non restare all’esterno del loro essere. Farne dei miti sarebbe l’errore più grossolano, scimmiottarli ancor peggio.
In fondo, siamo tutti piccole gocce che vanno a far parte dell’oceano dell’infinito divino. Gocce d’eternità! Se sono appesantite, vanno a fondo.
Prima di lasciare la parola a Marco Vannini, vorrei caldamente ringraziarlo: per avermi fatto dono di una bella Introduzione al mio libro, e per aver accettato di essere qui stasera a tenere questa conferenza.
la definizione della parola “mistica” che dà il vocabolario Zingarelli è:
“Dottrina e pratica religiosa che intendono determinare un diretto contatto o una comunione dell’uomo con il mondo divino o trascendente”.
Praticamente il “mistico” fa a meno dell’intermediario sacerdote e del vescovo per interfacciarsi con Dio, perché il mistico trova Dio in se stesso. Per questo motivo i mistici non piacciono alle autorità religiose e vengono emarginati, dimenticando che l’intermediario tra l’uomo e Dio non è tanto il sacerdote o il vescovo, ma è lo Spirito, chiamato anche spirito di verità che il fedele riceve, secondo la dottrina cattolica, con il rito della Confermazione tramite il Vescovo che fa da ministro intermediario.
E’ così un po’ per tutto. Nel sistema giudiziario italiano, per esempio, la figura dell’avvocato fa da intermediario tra il giudice e il cittadino, per cui il cittadino non può interfacciarsi direttamente con il giudice senza un avvocato, per ricevere giustizia, se non per casi particolari.
Il mistico ama il “fai da te”.
Grandiosa esposizione, che rende intellegibile ai più, pur in modo sintetico, i cardini della mistica, lungo percorsi non sempre facili per tutti.
Che riflessioni proporre?
Tra le tante, quella che mi ha assillato da sempre.
Un punto fondamentale è il non sovrapporre, necessariamente, la mistica con l’esperienza metafisica, che può anche non essere il naturale punto di arrivo in questo tipo di percorso.
La mistica, quindi, come rifugio da tutto quello che pare transeunte, contingente.
Ma se i fatti esterni, che accidentalmente ci riguardano, compreso il proprio nome e cognome, ed altri di questo tipo, sono appunto solo contingenti, alla fine, cosa resta?
Certo, si può ipotizzare che esista lo spirito, o comunque qualcosa di assoluto, che può anche ricondurre alla metafisica, ma…..
Questa è solo una delle conclusioni possibili.
Peraltro fondata come mera ipostasi, quasi un dogma, basato su una ragione che conduce al metafisico.
E cioè: se tutto quello che appartiene all’esperienza sensibile umana altro non è occasione, contingenza, mero accadimento transeunte, per forza ci deve essere qualcosa di assoluto.
In pratica, un’affermazione che, a mio modesto avviso, non è fondata logicamente, perchè potrebbe anche essere che esista, certo, il contingente, ma senza che necessariamente questo implichi l’assoluto.
E, se si arriva a siffatta conclusione, o alla definizione di un assoluto, di un’ontologia puramente ipotetica?
E cioè: d’accordo, molti mistici dicono che arrivi all’assoluto, ma se io, seguendo analoga via, non lo colgo, o meglio, lo colgo, ma in via solo ipotetica, dicendo: d’accordo, forse se esiste una sfera della realtà che è mero accadimento contingente, il resto deve per forza essere assoluto, ma aggiungo: ma questo assoluto, io riesco solo a teorizzarlo, non riesco a coglierlo direttamente?
Di qui una fondamente divaricazione tra chi giunge ad una concezione metafisica, e chi no.
Alcuni, per via diretta, o tramite tecniche varie, meditazzione etc., forse riescono ad avere financo esperienze che ben possiamo considerare metafisiche, o quanto meno paranormali, ma molti altri, probabilmente la maggior parte, arrivano solo alla affermazione di un assoluto definito per via di esclusione razionale, come abbiamo visto sopra.
Di qui un fondamentale dubbio: e se fosse solo una conclusione meramente speculativa?
Di qui, necessariamente, anche il dubbio filosofico ed esistenziale, di fondo: ma se questo assoluto non lo colgo, o non esiste?
Ecco, allora, che viene spontaneo fare questo ragionamento: allora, forse, non resta che il contingente, di cui siamo schiavi.
E ciò che volevamo annullare, o meglio, non considerare, rischia di tornare prepotentemente alla fine del percorso: ci volevamo liberare del contingente, ma se alla fine del percorso non troviamo l’assoluto, rischiamo che lo stesso contingente diventi assoluto, e che l’uomo, quindi, altro non possa fare che lasciarsi andare ad un triste esistenzialismo fenomenologico, in balia delle più diverse circostanze.
Del resto, chi l’ha detto che basti cercare, per trovare?
Ad esempio mi furono sottratti cari ricordi, che potrebbero rientrare nel discorso che Vannini ha fatto sull’anima, distinta dallo spirito, ma chi mai li ha riavuti?
Io, no di certo…..
E l’assoluto… forse per via di una trasmissione in linea paterna e comunque maschile, ho certo avuto esperienze che riconducono al paranormale, ma non in senso positivo.
Ecco qui la seconda considerazione: ammesso che trovi l’assoluto, chi dice che trovi necessariamente un Dio?
Potresti trovare anche un demonio.
Oppure, appunto, neppure questo, nulla di assoluto, e quindi torni a considerare la tua identità e la tua realtà come necessariamente basati sul contingente.
A volte veleggiamo verso mete che non si raggiungono, e siamo costretti a far ritorno alla base.