Giulia Scomazzon: «Mia mamma morta di Aids quando avevo 8 anni, l’ho scoperto solo da adulta: con lei 17 mila vittime di cui la gente si vergogna»

Giulia Scomazzon oggi, a 36 anni, e, a fianco, da bambina con la mamma Roberta
dal Corriere della Sera

Giulia Scomazzon:

«Mia mamma morta di Aids

quando avevo 8 anni, l’ho scoperto solo da adulta:

con lei 17 mila vittime di cui la gente si vergogna»

di Anna Gandolfi
Nel corso di una ricerca alla Iulm ha deciso di indagare la storia della madre, uccisa dal virus nel 1996: «Era una donna come tante, faceva l’operaia e mi preparava le torte. Anni dopo, un’amica mi ha detto: sei l’unica in paese a non sapere la verità»
«Non riesco nemmeno a immaginare la paura che aveva mia madre a 23 anni». Giulia Scomazzon racconta e sembra di vedere Roberta, la mamma, mentre fissa i fogli dell’ospedale: Hiv positivo. Anno 1986. A fare gli esami l’aveva spinta Andrea, il marito: «Papà scontava alcuni mesi per droga nel carcere di Vicenza. Lì, per stilare il primo quadro epidemiologico sul virus, i medici del ministero battevano a tappeto le “categorie a rischio”: omosessuali e tossicodipendenti. Le disse: sei incinta, fai gli esami anche tu». Andrea risulta in salute. Roberta sieropositiva. Il respiro si spezza in gola. Operaia, futura mamma, una vita con pochi colpi di testa nella sonnolenta provincia veneta, poi paziente nei reparti degli infettivi.
Giulia è nata nel gennaio 1987 – sana -, sua madre è morta otto anni dopo: una 31enne tra le molte vittime dell’Aids «che in Italia abbiamo quasi cancellato. Io stessa a lungo non ho saputo, o non ho voluto sapere, la sua vera storia». Che è poi la storia di una generazione. Originaria di Marostica, Giulia è da poco tornata a casa – fa l’insegnante – dopo avere vissuto per anni a Milano: da studentessa e ricercatrice in Letteratura alla Iulm ha iniziato a riannodare i fili. «Preparavo un documentario biografico per un esame. Quale vicenda raccontare? Sapevo che doveva essere la mia». Poi il lavoro è cresciuto, diventando un diario che ha trovato un editore (Nottetempo). Sempre a Milano «La paura fa male come un coltello arrugginito» ha vinto il premio Bagutta opera prima 2024. Lei non si ferma. Con la pagina social Theaidsmemorial fissa il ricordo di quei ragazzi perduti. «Si sono fatti sentire moltissimi stranieri. Nessun italiano».
Perché, secondo lei?
«Mi sono messa in testa una cosa: da noi questi morti sono usciti dalla coscienza pubblica perché tre quarti di loro si erano ammalati scambiandosi una siringa anziché facendo sesso. Erano solo “tossici”. Nel 1994 il 67% dei malati italiani aveva contratto il virus attraverso l’uso iniettivo di droghe. Nelle statistiche l’Istituto superiore di sanità li etichetta tutti come tossicodipendenti: invece chissà quanti, al momento della diagnosi, erano riusciti a uscire dal giro».
Come sua madre.
«Sì. A lungo mi sono chiesta: come è finita mamma nella scia di morte che parte da Rock Hudson e arriva a Freddie Mercury? Cosa c’entra con Michel Foucault e Derek Jarman? Nel nostro Paese immaginiamo l’Aids negli anni 80 e 90 pensando a maschi gay oppure ventenni eroinomani alla “ragazzi dello zoo di Berlino”. Nella narrazione non esistono le madri e i padri trentenni che si erano lasciati alle spalle l’ondata dell’eroina».
Chi era Roberta?
«Molto di ciò che le dico non sono ricordi – quelli sfumano, congelati chissà dove – ma frutto della ricerca successiva. Roberta, mamma, immaginatela così: operaia dal lunedì al venerdì, al supermercato o in cucina per preparare dolci il sabato e la domenica, negli ospedali per me e per lei forse una o più volte al mese. È cresciuta a Marostica, 10 mila abitanti, in una famiglia di impresari edili – in Veneto negli anni 70 si chiamavano così anche i muratori – si è iscritta a ragioneria, a 16 anni è entrata in fabbrica. La vita tipica del tempo: uomini a lavorare e donne a occuparsi soprattutto della casa. Da qui la sua fase di ribellione».
Cosa accadde?
«Intorno ai 17-18 anni aveva un fidanzato, un falegname, e con lui ha provato le droghe. L’eroina in quell’epoca girava ovunque».
A casa lo sapevano?
«Quando ho preso a far domande, nonna mi disse che mamma si era ammalata perché aveva un fidanzato “untore”: l’aveva contagiata il falegname, primo morto di Aids nel paese. Io non ho mai creduto troppo a questa versione. In verità poi da mio padre ho capito che mamma aveva provato l’eroina, si era scambiata anche lei le siringhe. Un periodo breve, ma per i parenti una vergogna tale da far preferire la versione del contagio sessuale».
I documenti sanitari che ha recuperato parlano di droghe?
«All’ospedale di Vicenza ho chiesto la cartella del parto: “Epatite virale 1983. pos. htlv iii. Faceva uso di eroina sino a un anno e mezzo fa”. E poi “ex tossicodipendente”. Nel 1986 l’allerta aleggiava ma si pensava ai morti negli Usa, tra gli omosessuali, nello spettacolo. Era un po’ come nelle prime settimane del Covid, quando faceva paura ma lo vedevamo da lontano, in Cina. E invece. Percepisco il terrore di mia madre ragazzina, incinta, contagiata. Quando guardo le foto delle vacanze mi vedo da fuori: una bimba che impara a nuotare sotto gli occhi attenti di una giovane sieropositiva».
Quando ha iniziato a stare male sua madre?
«Fino al 1992-1993 nelle foto appare in salute. È morta l’11 gennaio 1996».
Oggi, con la stessa patologia, Roberta vivrebbe probabilmente decenni.
«Ci penso, sì. Forse sarebbe ancora qui se fosse riuscita a superare il crinale della svolta medica, con il passaggio dall’uso dell’Azt, iniziato nel 1987, alla terapia Haart, dal 1996. Mi fa rabbia pensare che il virus per lei si è manifestato quando si usavano come terapia farmaci chemioterapici, che erano come Napalm su persone immunodepresse».
Come ha cominciato a ricostruire la vicenda?
«Il lavoro per l’università ha dato lo spunto, il diario è stato frutto anche di un percorso di psicoterapia. La prima a farmi riflettere è stata un’amica, avevo 19 anni: è strano – diceva – che tu non sappia di preciso di cosa è morta tua mamma. Io, a Marostica, sono stata l’ultima a sapere che Roberta l’aveva uccisa l’Aids».
E perché tutti lo sapevano?
«Non di lei soltanto, più in generale. In quegli anni c’era quasi un caso in ogni cerchia familiare. La provincia non segregava, almeno non in modo violento, perché tutti avevano a che fare col problema».
Però non se ne parlava.
«Indicibile. Aids era una parola impronunciabile, guai a confessare. Mamma aveva un cugino parrucchiere che la aiutava ad acconciarsi quando era malata. Lui stesso non sapeva nulla, e dire che era uno di famiglia. Disse di aver capito solo perché lei implorava: usa i guanti. Ho qui anche una lettera in cui sento l’ansia del non dire, della vergogna mista all’ansia per gli altri».
Cosa racconta?
«L’8 gennaio 1990 mamma scrive a papà, che era lontano: “Oggi ho iniziato a lavorare e alle 4 mi hanno accompagnata al pronto soccorso perché con un taglierino mi sono tagliata un dito (che tonta!). Mi hanno medicata e non servivano punti, in compenso mi hanno dato 8 giorni di infortunio. ’Sto giro ho avuto un bel culo, così giovedì pomeriggio vengo a trovarti”. Era felice perché poteva andare da mio padre, ma sono certa del fuori campo angosciante: c’è il sangue è contagioso, la necessità (forse o sicuramente?) di dover comunicare ai colleghi, al capo, ai medici la propria condizione clinica, il rischio di esporsi al giudizio, all’umiliazione».
Lei è nata sieropositiva?
«Sieropositiva ai test: gli anticorpi poi si azzerano se non c’è virus. In un paio di anni mi sono negativizzata».
Ricorda episodi in cui si è sentita discriminata?
«No. Perché, come ho detto, probabilmente c’era una sorta di accordo tacito. Una cosa però la ricordo: vero panico a scuola – frequentavo dalle suore – dopo una caduta in cui mi ero tagliata. Anche allora mi era parsa esagerata. Oggi so il motivo».
Come si sono conosciuti i suoi genitori?
«Frequentavano gli stessi locali a Bassano del Grappa, papà era di 7 anni più grande».
Bassano che non era propriamente la Berlino di Christiane F.
«Vita sociale tra centro e giardinetti, giardinetti e centro. La droga era tantissima perché la zona è crocevia tra le città e la provincia profonda. C’era il giro in piazza Libertà: arrivavano ragazzi a prendersi la roba col trattore o con l’Ape Piaggio, scendevano dall’Altopiano di Asiago dopo il lavoro nei campi o nelle stalle e si compravano eroina e hashish sotto i portici con i loro guadagni modesti e sudati. Perché sì: non tutti i tossici rubavano l’oro ai genitori, quasi nessuno in provincia scippava le vecchiette o si prostituiva…».
L’Aids è un modo strano di morire per una mamma che lavora in fabbrica e prepara dolci nei fine settimana.
«Non è strano, nel senso di bizzarro o statisticamente anomalo, semmai è straniante. La morte per Aids di una giovane adulta veneta nella prima metà degli anni Novanta non ha niente di anomalo. L’Aids era la seconda causa di morte tra le donne trentenni della regione e la prima tra i coetanei maschi».
Quali sono i numeri?
«Dal 1993 al 1996 il virus ha ucciso più di 17 mila giovani adulti italiani. Un picco di mortalità che in alcune aree – grandi città, regioni produttive del Nord, Lazio – ha assunto i caratteri di una vera e propria strage generazionale».
Che però non è percepita come tale.
«Zero. Quando ho pubblicato il libro ho pensato che mi avrebbero cercato persone con la mia stessa storia. I numeri sono tali da renderlo quasi scontato».
Dove sono i figli come lei?
«Sono lì, da qualche parte. Non trova assurdo che l’unico caso che ho conosciuto bene sia quello di Valentino Talluto, solo perché finito nelle cronache e condannato per avere contagiato volontariamente decine di donne?».
L’untore seriale.
«È quasi mio coetaneo (nato nel 1984, ndr), orfano per via dell’Aids. Non ha attenuanti, però mi interrogo: cosa è passato per la sua testa? Come ha conosciuto la storia dei suoi genitori? Ho sperato di essere contattata da qualcuno vicino a me, magari figli di amici o conoscenti dei miei genitori, invece nulla. Veniamo da quegli anni ma è come se li avessimo cancellati. Mia madre era giovanissima, ha avuto paura: chissà quanti come lei. Ragazzi che non possono, non devono più essere invisibili. Ho scritto questo libro per mia mamma Roberta. E anche per me».

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