L’EDITORIALE
di don Giorgio
Demolire la Torre di Babele
Sono stati scritti numerosi libri su Raimon Panikkar, tra cui, molto interessante, è quello di Raffaele Luise: “Raimon Panikkar, profeta del dopodomani”, edizioni San Paolo. Ve lo consiglio.
L’autore immagina un dialogo tra un giovane discepolo e un anziano saggio, appunto Panikkar, che risponde alle domande del giovane, chiarendo alcuni aspetti fondamentali del suo pensiero.
Ora è la volta di alcuni “sutra” (dal sanscrito, e significa “insegnamento sapienziale”) che vorrebbero esemplificare il progetto metapolitico di Panikkar.
Nel precedente articolo avevo presentato i primi due “sutra”: 1. Demonetizzare la cultura; 2. Superare la democrazia con una nuova cosmologia.
Ora presento il terzo: Demolire la Torre di Babele.
Raimon Panikkar ha scritto nel 1990 un agile volumetto, dal titolo: La Torre di Babele, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole, dove il filosofo parla di pace e di pluralismo.
Francesco Lamendola, nel 2005, presenta il volumetto soffermandosi su alcuni principi fondamentali.
Scrive:
«Con la consueta lucidità dialettica e con una forma chiara e incisiva, Panikkar delinea un percorso di ricerca sui temi della pace e del pluralismo culturale “facendo i conti”, tra l’altro, con i nodi filosofici e pratici che contraddistinguono l’odierna crisi dell’Occidente e che chiamano in causa le scelte etiche di ciascuno.
Due ci sembrano, in particolare, i nodi messi a fuoco e analizzati con particolare efficacia: quello della tecnologia e quello della cultura moderna (globalizzata e globalizzante). Riguardo al primo, Panikkar sostiene che noi dobbiamo emanciparci dalla tecnologia, da lui definita “il nemico più grande della sopravvivenza di tutte le altre culture che sono esistite finora sopra la terra.” E aggiunge: “A prescindere da valutazioni di altro tipo, ammettiamo per un momento che non ci sia altro rimedio che tecnologizzare il mondo. Non dovremmo nasconderci che ciò rappresenta la morte di tutte le altre culture. Non possiamo illuderci. O una cosa o l’altra. So che questa affermazione risulta discutibile per molti, i quali pensano che sia necessario passare per la tecnologizzazione del mondo, ma imboccare questa strada significa azionare il bulldozer che eliminerà qualsiasi altro tipo di visione del mondo, di cultura, di religione. Non possiamo farci illusioni sulla compatibilità fra la visione tecnologica della realtà e ciò che finora e per millenni l’umanità ha vissuto. Quello che non mi convince è che mi si dica: è per il tuo bene, la tecnologia rispetterà la tua cultura. Cercare di mettere insieme le due cose mi sembra derivi da una lettura molto superficiale tanto delle culture autoctone come del valore della tecnologia, che non è un semplice strumento che maneggi e puoi abbandonare a tuo piacimento. Si tratta di qualcosa di un ordine molto diverso e, quando i ternocrati dicono che la tecnologia è soltanto uno strumento, sembrano non credere nella tecnologia. (…) L’essenza della tecnologia è l’accelerazione.”
Emanciparsi dalla tecnologia, dunque; non rinunciare ad essa, “perché in Occidente rinuncia significa abbandono di un bene positivo in vista di un fine superiore”; “prendere le distanze da essa” nel momento in cui ci si rende conto che “è strumento di morte e non di vita, come si credeva.” Ma attenzione, prosegue Panikkar: “emanciparsi veramente dalla tecnologia è proprio quello che non si può fare, se non si salta al di là di questa cultura che l’ha creata.”
E conclude: “Finché ci si scomunica dal resto della realtà, finché si pensa che la terra non sia un essere vivente, finché non si ritorna un po’ più animisti – l’animismo che abbiamo disprezzato -, finché non ci rendiamo conto che la solidarietà o la legge del karma è universale e che, di conseguenza, esercitare violenza su una particella infima di materia porta con sé violenze in tutte le parti – senza accorgerci che la causa del cancro dell’organismo dipende dal fatto che abbiamo creato una società cancerosa che ha perduto la omeostasi, cioè che punta al maximum e non all’optimum; finché non esistono ispirazioni interiori per non sapere di più, non mangiare di più, non andare più in fretta, non guadagnare più soldi, non avere più influenza, non essere più potenti e tutto il resto, non siamo sulla buona strada. E poi ci stupiamo che anche l’organismo imiti la civiltà consumista che abbiamo creato…”.
Per quanto riguarda le alternative alla cultura moderna, occidentale e antitradizionale (compresa la tradizione dell’Occidente), con esemplare lucidità di pensiero Panikkar ammonisce che non c’è una alternativa, pena il ricadere (se vi fosse) nello stesso orizzonte esclusivista che in teoria si vorrebbe allontanare. Non c’è, infatti, una cultura globale: non sarebbe cultura. Non esiste prospettiva globale (“nemmeno Dio, dice il Talmud, ha una prospettiva globale”); non c’è e non può esserci una religione universale; non c’è un ordine ideale o perfetto, né politico, né economico, né umano, al livello del concetto e dell’intelleggibilità.
Oltre a questa fondamentale obiezione di ordine logico, Panikkar sostiene che la cultura occidentale moderna non è la soluzione dei nostri attuali problemi anche per ragioni storiche specifiche. In particolare, egli accusa la cultura moderna (in sostanziale assonanza, ci permettiamo di notare, con il pensiero di Guénon e di altri illustri “eretici”) di essere basata sui presupposti di una civiltà tecnocratica; di essere dominata da un’ideologia paneconomica (viene in mente l’uomo a una dimensione di Marcuse); di voler esportare imperialisticamente l’american way of life. Ma la cultura moderna, a ben guardare, non è universale e non è neppure universabilizzabile; essa, inoltre, porta in sé stessa il germe della propria autodistruzione.
Le alternative? Sono soltanto provvisorie, secolari e pluraliste. Si tratta di decentralizzare le strutture economiche, politiche, psicologiche, etiche, fuori di sé e dentro di sé, per ritrovare il senso di una vera centralizzazione: una realtà d’ordine superiore, ove il centro sia dappertutto. “Corpo mistico di Cristo, buddhakaia, atman-brahman, ecc., sono altrettanti simboli tradizionali che esprimono questa intuizione. Il senso della vita umana non consiste allora nello scalare i più alti vertici della piramide umana in una lotta a morte contro il tuo vicino (competizione), ma nel trovare il mio centro concentrico con tutti gli altri centri dell’universo e così collaborare al sostegno del mondo (come lo esprime il concetto di “lokasamgraha della Bhagavadgita)».
(2/continua)
21 settembre 2019
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