Etty Hillesum: spiritualità

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Etty Hillesum: spiritualità

21 aprile 2025
di: Giordano Cavallari (a cura)
Beatrice Iacopini, Docente di Religione del Liceo Scientifico “Amedeo di Savoia” di Pistoia e della Scuola di Formazione Teologica della Diocesi, è l’autrice del volume Etty Hillesum. Vivere e respirare con l’anima, Gabrielli Editori 2025. Risponde alle nostre domande sulla figura della Hillesum e, in particolare, su la scommessa di una spiritualità laica (dal sottotitolo).
Gentilissima Beatrice, come le è capitato, nella Sua ricerca, di incontrare la figura di Etty Hillesum sino ad un così profondo studio e, presumo, personale coinvolgimento?
Ho letto per la prima volta il Diario quando uscì, in versione antologica, ormai tantissimi anni fa, negli anni ‘80. Ero molto interessata, al tempo, alle testimonianze delle vittime della Shoah e forse fu questo che mi spinse a leggere la Hillesum. Scoprii che il suo scritto aveva in realtà una rilevanza enorme anche dal punto di vista spirituale, e così decisi di leggere anche l’antologia delle Lettere: mi colpì tantissimo, tra le altre cose, il rapporto di questa giovane donna con Dio, in particolare ciò che emergeva dalla cosiddetta “preghiera della domenica mattina”, in cui la prospettiva religiosa comune è ribaltata, laddove si dice che “non è Dio che può salvare noi, ma siamo noi che dobbiamo salvare Dio”. Quelle parole hanno significato per me e per la mia vita cristiana una sorta di rivoluzione: le ho sentite affini a quello che sapevo della mistica di Meister Eckhart.
La lettura del lascito hillesumiano ha poi lavorato in me, e molti anni dopo ho cominciato a pensare di dedicare uno studio approfondito ai legami tra varie figure, facendomi illuminare, appunto, da Eckhart, ma anche da Silesio e Taulero; nello stesso tempo, andavano emergendo similitudini con Simone Weil, ed ecco perché, con Sabina Moser, studiosa di quest’ultima autrice, abbiamo realizzato un lavoro sul problema del male in Etty Hillesum e Simone Weil. Da allora non ho mai smesso di scavare un materiale immenso, che non finisce mai di suggerire nuove riflessioni.
Può ricordare la vicenda umana di Etty?
Quando il lettore inizia a conoscere Etty attraverso il suo Diario, si trova di fronte ad una giovane donna di 27 anni, che vive ad Amsterdam da quando si è iscritta all’università: colta, di intelligenza brillante, spregiudicata nei costumi – è l’amante del padrone della casa in cui vive, un uomo che potrebbe essere suo padre, e nonostante questo inanella una relazione dopo l’altra – ma allo stesso tempo afflitta da grossi problemi psicologici ed esistenziali, che le rendono molto faticoso e difficile vivere.
È ebrea, ma non ha avuto alcuna educazione religiosa è dotata di una «robusta parte razionale, critica ed atea», come da lei stessa scritto. Alla ricerca dell’armonia, dell’equilibrio interiore e della salute psichica, si rivolge a uno psicoterapeuta junghiano, il cui carisma e la cui visione olistica della persona riusciranno non solo a toglierla dalla disperazione, ma la avvieranno su un percorso anche spirituale, che darà frutti inattesi e meravigliosi.
Nel 1942, quando ormai le fu chiaro che i nazisti, che da due anni occupavano l’Olanda, volevano la completa distruzione del suo popolo, decise di chiedere – invece di scappare o nascondersi, come molti amici le avevano proposto – di essere mandata nel campo di concentramento di Westerbork, per condividere lo stesso destino, aiutando gli internati come poteva e tentando di «disseppellire Dio» – quel Dio che intanto aveva incontrato nell’intimo di sé – «dai cuori devastati» delle vittime.
Fu mandata nel campo come assistente sociale: era previsto che potesse entrare e uscire abbastanza liberamente, ma quando – nella tarda primavera del ‘43 – le maglie del piano della soluzione finale si fecero sempre più strette, fu definitivamente internata, e poi deportata ad Auschwitz – con madre, padre e uno dei fratelli – ove morì poco dopo, nel novembre dello stesso anno.
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Si può parlare di conversione?
Non so: la parola è forse un po’ troppo connotata religiosamente. Ricordo che Etty non passò mai da una religione a un’altra: non si sentiva ebrea dal punto di vista religioso, né aderì mai ad alcuna religione, anche se dalle pagine del suo diario sembra di capire che, in un certo qual modo, intendeva essere cristiana, come d’altronde il suo mentore, lo psicoterapeuta Julius Spier, anche lui ebreo di origine.
Se, tuttavia, per “conversione” intendiamo una metánoia, un cambiamento di sguardo – col passaggio da una sostanziale indifferenza nei confronti di Dio ad un abbandono fiducioso – allora sì, possiamo senz’altro parlare di conversione.
Nessuna parte ebraica e cristiana nella Hillesum?
Sembra che quasi niente dell’ebraismo le fosse passato dai genitori. Quanto al cristianesimo, cominciò, con Spier, a frequentare e ad amare autori spirituali quali il Sant’Agostino delle Confessioni. Si pensi che il suo maestro, come prima lettura, le consigliò L’imitazione di Cristo, e quindi la Bibbia, che presero a leggere e a meditare insieme, con particolare attenzione al Nuovo Testamento.
Etty si appassionò in modo particolare al Discorso della Montagna nel vangelo di Matteo e all’Inno alla Carità di San Paolo nella Prima ai Corinti. Nel circolo di persone che si ritrovavano attorno a Spier, divenne poi amica di Henny Tideman, appartenente a un movimento protestante, di cui stimava molto la fede genuina e diretta.
Lo stesso Spier, in punto di morte, le confidò di aver sognato che Gesù veniva a lui e lo battezzava. Aderivano in sostanza a un cristianesimo che, a loro avviso, consisteva nel lavorare al distacco dal proprio io psicologico, per lasciar fiorire un affidamento totale a Dio, con un amore agapico, universale, che trovava la sua concreta applicazione nell’amore per il nemico, cioè in un atteggiamento profondamente non violento.
Etty Hillesum, una mistica?
Penso che a buon diritto l’esperienza di Etty Hillesum possa essere definita mistica, nel senso che la giovane donna entrò in contatto con quel luogo di sé “in cui Dio è più intimo a sé di sé stessi”, per dirla con Agostino, e imparò a vivere a quelle profondità, facendo diventare Dio – e non più sé stessa – il centro di tutto. Poté «vivere e respirare con l’anima», come diceva lei, guidata da quel che sale dal di dentro, e non più per reazione a ciò che avviene al di fuori.
D’altra parte, amo sempre ricordare che il cardinale Carlo Maria Martini riconobbe in Etty una mistica: dunque, mi sento sostenuta dalla sua autorità nell’affermarlo.
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Quale il significato della parola Dio per Etty?
Ci sono alcune righe del Diario – del settembre 1942 – che, in modo folgorante, rispondono alla domanda: «Io riposo in me stessa. Questo ‘me stessa’, la parte più profonda e ricca di me in cui riposo, io la chiamo ‘Dio’ […] quando dico che ascolto dentro, in realtà, è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che ascolta la parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio».
Nella sua esperienza, ‘Dio’ è la parte più profonda di sé, nel paradosso per cui quella «parte profonda e ricca» di sé è sé, ma allo stesso tempo trascende la piccola persona determinata: e per questo è ‘Dio’.
In altre parole, come in molti altri mistici, Etty scoprì che la precaria piccolezza dell’essere umano è sorprendentemente capace d’infinito e che il principio e l’origine trascendenti della realtà non vanno cercati altrove, né sono altro, bensì coincidono con la verità più profonda di sé stessi.
Si rese anche conto che il significato che attribuiva al termine ‘Dio’ non era probabilmente quello inteso dai molti: più ne faceva esperienza, e più era consapevole che quello che lei chiamava ‘Dio’ non corrispondeva all’immagine comune, ossia quella dell’Essere-Oggetto (o Soggetto), di cui si possono predicare le qualità e a cui si possono attribuire volontà e interventi nella storia.
Infatti, in diverse pagine, sente il bisogno di specificare che lei, con quella parola, intendeva piuttosto indicare «le sorgenti originarie», la «corrente sotterranea» che scorre nel fondo dell’anima, così come in ogni atomo della realtà.
Si comprende in questo modo la citata “preghiera della domenica mattina”: il ‘Dio’ di cui fa esperienza non è l’idolo di cui si predica questa o quella qualità e che i più immaginano per rivolgergli innumerevoli richieste o per ringraziarlo quando le cose vanno bene; ‘Dio’ sta nel profondo di noi e del cosmo, a “Lui” siamo chiamati a dare sempre più spazio, e proprio quando saremo «grande sala accogliente» – vuota di noi e abitata da Lui – allora saremo così forti da accettare ogni cosa, persino la morte prematura in un campo di sterminio.
Attraverso quali “pratiche” Etty ha raggiunto un tale atteggiamento?
Quella che, inizialmente, è stata solo un’intuizione – che si concretizzò in sporadici momenti di grazia seguiti poi da ricadute nel disequilibrio e nella disarmonia – divenne piano piano un atteggiamento, un costante modo di rapportarsi alla vita.
Il percorso, per quanto veloce, non fu esente da fatiche: Etty mise insieme una serie di esercizi e di strategie per rafforzare l’attitudine a vivere e respirare con l’anima. Consapevole della propria tendenza al caos e alla disorganizzazione, cercò, per esempio, di mantenere una scansione ordinata della giornata, dedicando quotidianamente tempo alla meditazione silenziosa e alla ginnastica, così come alla scrittura del suo diario, strumento terapeutico e di scavo interiore; si impegnò a non coltivare sentimenti meschini nei confronti degli altri e a non spargere parole di odio; imparò a inginocchiarsi spesso, per mantenersi raccolta in sé, in ascolto delle fonti profonde; si impegnò a essere «fedele ai propri momenti migliori» e ad ogni momento presente, senza caricarlo di ulteriori preoccupazioni, secondo l’indicazione del vangelo, per il quale «ogni giorno porta già la sua pena».
Cosa significa essere un «cuore pensante»?
Etty aveva sondato la filosofia alla ricerca di una soluzione al problema del male e del senso della vita, ma era arrivata alla conclusione che la sola ragione – che è in grado di offrire magnifiche costruzioni e sistemi – la formula risolutrice non la può trovare mai. Altrettanto bene aveva sperimentato cosa significhi lasciarsi andare agli istinti, ma questa via si era rivelata fallace e distruttiva.
Nel cammino spirituale intrapreso grazie al suo terapeuta-maestro, ebbe la grazia di provare una terza strada, quella dello spirito: rintracciò, cioè, la fonte interiore, il centro di sé e del cosmo, Dio insomma, e allora scoprì che tutto si illuminava di luce nuova e le contraddizioni, perfino il male e la cattiveria, sembravano comporsi in un quadro sensato.
L’intelligenza diveniva capace di com-prendere, nel senso di abbracciare amorevolmente tutto e tutti. Mentre era a Westerbork, coniò quest’espressione così bella, appunto: il «cuore pensante», che richiama l’idea di tanti maestri spirituali cristiani, per cui la mistica è sintesi di intelligenza e di amore. Nel campo di Westerbork voleva essere il «cuore pensante» della baracca, il centro sempre vigile, intellettualmente amorevole; quindi, capace di non farsi ridurre alla bestialità, in quello che altrimenti non avrebbe potuto essere altro che un inferno. Intendeva mantenere viva, insomma, una scintilla divina in mezzo al girone infernale.
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Quale senso aveva pregare per Etty?
«Una volta che si comincia a camminare con Dio, si continua semplicemente a camminare, e la vita diventa un’unica lunga passeggiata»: scrive così Etty il 14 luglio del ‘42, e queste sue parole mi sembrano un’ottima definizione di cosa significhi, al fondo, pregare: per lei come per chiunque.
Pregare è camminare con Dio, ci dice la Hillesum, portarlo con sé e dunque farne il proprio interlocutore in ogni situazione, in ogni momento; assicurarsi di mantenere vivo il contatto con la sua presenza intima, abbeverarsi continuamente alla sua fonte che zampilla dentro di noi, se ci premuriamo di tenerla ben sgombra dai detriti.
Pregare è insomma un atteggiamento esistenziale, che può esprimersi anche in parole; molte pagine del diario sono rivolte a Dio, soprattutto proprio nel 1942: mai per chiedere, piuttosto per ringraziare di aver avuto il dono di disseppellire in sé la divina Presenza.
Come amare, sino a condividere la sorte più infausta?
L’amore agapico che la Hillesum volle coltivare e che sentiva come originario – presente nel fondo poiché coincidente con Dio stesso – fiorisce e si dilata fino ad avvolgere persino i propri aguzzini, quanto più si smette di leggere ogni cosa a partire dal nostro piccolo io come fossimo noi il centro dell’universo.
Etty si dedicò molto a imparare questo modo di guardare le cose, senza giudizio, nel completo abbandono: ha scritto pagine alte e indubbiamente non facili da accettare – al suo tempo come oggi – sull’amore per i nemici, sul rifiuto di odiare e di spargere parole d’odio intorno a sé. L’odio è una malattia dell’anima, diceva, e metterlo in parole avvelena l’atmosfera, contagia come un virus.
Credo che si tratti di un atteggiamento profondamente cristiano e, più in generale, profondamente religioso: forse è per questo che l’unico giudizio davvero tranchant che troviamo nelle pagine del Diario e nelle Lettere è rivolto a quei componenti del Consiglio ebraico che brigavano con i nazisti contro il proprio stesso popolo per tentare di assicurarsi privilegi. La durezza di Etty nei loro confronti è dovuta, penso, oltre che all’infamia del tradimento, anche alla totale assenza di quella compassione e attenzione per i derelitti che la tradizione biblica avrebbe richiesto.
Quali le possibili obiezioni ad Etty?
Molti – i più – non capivano queste posizioni: come biasimarli? La accusavano di non difendere le vittime, la pensavano rassegnata, passiva. Ma lei faceva suo l’insegnamento di Spier: «nella scontentezza, nell’arrabbiarsi c’è una passività attiva, mentre nella vera sofferenza c’è un’attività passiva … l’attività passiva consiste nel nostro accettare e sopportare qualcosa di irrevocabile, e proprio così si liberano nuove forze».
Il primo atteggiamento spreca energia e paralizza la persona, tenendola bloccata alla sua rabbia. La sua postura – tutt’altro che arrendevole – è stata invece definita ‘resistenza esistenziale’, ovvero una resistenza pari a quella degli oppositori politici, ma condotta, anziché con le armi, con tutta sé stessa, con tutta la propria vita, con tutte le proprie forze, messe al servizio di quei valori che altri volevano distruggere.
La sua scelta di donazione di sé, oltre che i suoi scritti, lo testimoniano: testimoniano la volontà ferrea di «esserci» laddove si soffre di più, senza scappare, senza nascondersi. In questo modo, Etty ha dimostrato che dedicarsi con attenzione alla vita spirituale è proprio il contrario del chiudersi in una “bolla” fuori dal mondo, come spesso si pensa. Dalla autentica spiritualità fioriscono «un’estrema compassione» e la necessità di essere laddove c’è più bisogno, nel modo che ciascuno sente più proprio.
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Quali teologi cristiani hanno considerato la figura di Etty Hillesum?
Ormai Etty Hillesum è molto amata, soprattutto nel mondo cattolico: è citatissima un po’ da tutti, è diventata davvero un punto di riferimento quasi imprescindibile, sia nella teologia che nella pastorale.
Io penso che sia un caso più unico che raro: una donna ebrea, non battezzata, rimasta sempre fuori da ogni confessione religiosa, viene portata ad esempio di una fede profonda, e non da qualche teologo dalle posizioni particolarmente avanzate, ma addirittura da figure eminenti della gerarchia cattolica.
Si pensi al già citato cardinal Martini che, in un suo testo sulla preghiera, non esitò ad accostarne l’insegnamento a quello del Nuovo Testamento, a Sant’Agostino e a Fëdor Dostoevskij; e, poi, a papa Benedetto XVI, che la portò addirittura ad esempio di conversione e di radicamento nella fede in un’udienza generale, quella che seguì l’annuncio delle dimissioni.
Penso, tra l’altro, che prendere a maestra una donna non cattolica e così eterodossa, anche dal punto di vista morale, segni un passo avanti enorme, per quanto silenzioso, da parte del magistero cattolico.
Quella di Etty è la nuova spiritualità dei giovani?
Credo che la spiritualità di Etty non sia, in realtà, nuova, ma si ritrovi molto simile in tante mistiche e mistici, cristiani e non solo, in ogni epoca. Certamente lei l’ha incarnata a suo modo, secondo la sua personalità e il tempo in cui ha vissuto. La novità sta nel fatto che la sua vicenda si è espressa senza iscriversi all’interno di alcuna appartenenza religiosa, senza adesione a dogmi, senza iniziazioni particolari o partecipazione a riti, con un linguaggio non religioso, in una quotidianità del tutto laica, all’interno di un’esistenza ordinaria, segnata da fragilità, confusione esistenziale, disordine morale.
Tutto questo la rende particolarmente vicina ed eloquente per gli abitanti del nostro secolo, specialmente i giovani. Ciò non toglie che la sua via proponga un cammino assai impegnativo, che richiede – com’è sempre stato e sempre sarà – sforzo e fatica.
Dunque, se, per un verso si tratta di una spiritualità assolutamente aperta a tutti, rimane una via per pochi, ovvero per coloro che intendono dedicare le proprie energie migliori alla vita spirituale.
Quali sono le fonti da conoscere?
Gli scritti di Etty (Diario e Lettere) sono pubblicati da Adelphi, sia nell’edizione integrale che in quella, più facilmente leggibile, antologica. Mi permetto di segnalare, inoltre, una breve antologia che ho curato qualche anno fa per Le Lettere: Il gelsomino e la pozzanghera che può essere un buon punto di partenza per un primo approccio a questa figura.
Consiglio tuttavia di avvicinare i suoi scritti direttamente, piuttosto che partendo da una monografia su di lei: la scrittura diaristica ed epistolare risulta di immediata comprensione e non necessita di alcuna introduzione previa per essere capita; e questo è un altro grande merito del suo lascito.
Qual è la specificità di questo suo saggio dedicato ad Etty Hillesum?
Il mio lavoro vorrebbe partire dall’itinerario spirituale di Etty Hillesum per tracciare una proposta di spiritualità laica – di qui il sottotitolo del libro – aperta, cioè, a tutte le persone che vogliano coltivarla, al di là di ogni categoria e appartenenza strettamente religiosa.
Viviamo in tempi in cui le religioni sembrano essere in crisi, ma non lo è la ricerca spirituale, che connota l’essere umano da sempre: ciò forse significa che i linguaggi – mitologici, simbolici, metafisici – delle religioni non sono più in grado di parlare oggi; per questo, penso si debba tentare di riproporli rinnovandolo, recuperando il patrimonio spirituale accumulato nei millenni. C’è un lavoro profondo di inculturazione e di trasformazione che in questo cambiamento d’epoca chiede di essere fatto. Etty è una che ci ha provato, riuscendoci splendidamente.

 

 

 

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