Omelie 2025 di don Giorgio: SECONDA DOPO PENTECOSTE
22 giugno 2025: SECONDA DOPO PENTECOSTE
Sir 18,1-2.4-9a.10-13b; Rm 8,18-25; Mt 6,25-33
I tre brani della Messa ci invitano a prostrarci davanti al Creato, in atteggiamento contemplativo, che è pura adorazione. Dire Creato è dire Natura, e dire Universo. Ogni parola ha un suo significato. La parola “natura”, che deriva dal latino, significa: “ciò che sta per nascere”. Dunque, è come un grembo perennemente in gestazione. E davanti a una vita che sta per sbocciare non ci sono parole, né sentimenti che possano supplire a un atteggiamento interiore di contemplazione, senza aggiungere altro. La parola “creato” rimanda a un Creatore, che non è il Caos che si diverte a mettere ogni particolare in un recipiente, scuotendolo ben bene per combinare strani giochi di colori, o un intruglio magari disgustoso. E davanti all’Onnipotente che sa quello che fa, perché, essendo puro spirito, è anche puro intelletto, ovvero luce e grazia, non ci rimane che un atteggiamento interiore di meraviglia. Infine, la parola “universo”, che significa “verso l’uno”, ci coinvolge in quella “attenzione”, che significa “tendere a”: siamo venuti dall’Alto per tornare verso l’Alto.
Partiamo dal primo brano, tolto dal capitolo 18 del Siracide, un libro dell’Antico Testamento, tra l’altro molto letto nelle comunità ecclesiali, tanto da essere chiamato anche “Ecclesiastico” (“libro da leggere nell’assemblea”), proprio per il suo ricco insegnamento sapienziale, rivolto a ogni categoria di persone e valido per le diverse situazioni della vita.
A differenza del libro di Giobbe che pone interrogativi angosciosi, o del libro di Qoèlet che assume atteggiamenti provocatori, il libro del Siracide presenta una visione serena del mondo e della vita, sorretta dalla presenza di Dio e della bontà della sua provvidenza. E davanti alla grandezza di Dio l’uomo si sente povero, si fa contemplativo in tutta la sua essenzialità di creatura, che sta sempre per nascere di nuovo (ricordiamo il colloquio notturno di Gesù con Nicodemo), dunque bisognoso dell’Eterno presente.
Ed ecco le parole: “Il Signore soltanto è riconosciuto giusto”. Che cos’è la Giustizia divina? Dobbiamo uscire dal concetto di diritto come viene inteso nei nostri rapporti umani, sociali e politici. Già dare priorità al diritto, e stabilire sul diritto la giustizia, è sbagliato: anzitutto ci sono i doveri da rispettare. I diritti senza doveri sarebbero delle pretese assurde. E questo già nelle nostre relazioni sociali. Pensate anche al mondo dei bambini, che, non c’è bisogno di dimostrarlo, nascono già con quell’ego che privilegia i diritti, e poi li sentiamo dire: “Questo è mio”. Se anche solo in parte riuscissimo ad armonizzare i diritti e i doveri, dando la giusta priorità ai doveri, avremmo un mondo diverso.
Stupendo poi quando leggiamo: “La potenza della sua maestà chi potrà misurarla? Chi riuscirà a narrare le sue misericordie? Non c’è nulla da togliere e nulla da aggiungere”.
L’essenzialità divina è semplicità, per cui non possiamo togliere se non ciò che noi abbiamo aggiunto. Se uno coglie l’essenzialità, non gli rimane che adorare, contemplare, anche pregare senza usare parole inutili.
Ancora: “Quanto al numero dei giorni dell’uomo, cento anni sono già molti. Come una goccia d’acqua nel mare e un granello di sabbia, così questi pochi anni in un giorno dell’eternità”.
Gli anni si misurano non dal loro numero, ma dalla loro qualità, e la qualità del tempo sta nell’eternità divina. L’antica lingua greca aveva più termini per indicare il tempo, due in particolare: il tempo come “crònos”, è il tempo che passa, fatto di secondi, minuti, ore, giorni, mesi e anni; e il tempo come “kairòs”, è il contenuto che non passa con il trascorrere del tempo, è il “kairòs” come Grazia, come Eternità divina. Un termine che si trova soprattutto del Nuovo Testamento. I Mistici medievali parlano dell’Eterno presente: è Dio come presente che conta. Il futuro sta già nell’Eterno presente. Il futuro sarà come io oggi vivo il presente, ovvero l’Eterno presente.
Infine, “il Signore rimprovera, corregge, ammaestra e guida come un pastore il suo gregge”. Qui non mi soffermo, perché si aprirebbe un lungo discorso sui vescovi e sulle diocesi che devono saggiamente guidare. Sono già intervenuto su questo argomento, e lo farò ancora.
Una riflessione sul terzo brano della Messa. Gli esegeti ci invitano a leggere il brano partendo dal versetto precedente: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza”. Così capiremo il pensiero di Gesù quando usa il verbo “non preoccupatevi”. In realtà il significato è molto più pesante. Si dovrebbe dire “non affannatevi”: il verbo greco, nel brano, è ripetuto sei volte e significa letteralmente “non andate in pezzi”, a causa dell’avere eccessivo. Nella lingua di Gesù il danaro viene chiamato “Mammona”, termine che fondamentalmente indica “ciò che si possiede”, ovvero i beni. La cosa curiosa è la radice di questa parola: in ebraico, “aman” (come il nostro Amen) vuol dire “stare saldo, cercare appoggio”. Perciò mi affido, mi appoggio, trovo garanzia nel possedere. Ma Gesù dice: “Facilmente ciò che possiedi si trasforma e passa, da mezzo che dà fiducia e sostegno a potenza, unica realtà importante, quasi un dio a cui tutto rivolgi e a cui dedichi la tua vita”.
Qui vorrei riportare un testo del nostro Sant’Ambrogio, che nel libro “Esamerone” (un commento sui primi dei giorni della creazione), così scrive: «Ma quale spettacolo è quello di un campo in pieno rigoglio: quale profumo, quale attrattiva, quale soddisfazione per i contadini! Come potremmo spiegarlo degnamente con le nostre parole? Ma abbiamo la testimonianza della Scrittura, dalla quale vediamo paragonata la bellezza della campagna alla benedizione e alla grazia dei Santi, quando Isacco dice: “L’odore di mio figlio è l’odore d’un campo rigoglioso” (Gen 27,27). Perché descrivere le viole dal cupo colore purpureo, i candidi gigli, le rose vermiglie, le campagne tinte ora di fiori color d’oro ora variopinti ora color giallo zafferano, nelle quali non sapresti se rechi maggior diletto il colore dei fiori o il loro profumo penetrante? Gli occhi si pascono di questa gradevole visione, e intorno ampiamente si sparge il profumo che ci riempie del suo piacevole effluvio. Perciò giustamente il Signore dice: “E la bellezza del campo è con me” (Sal 49,11). È con lui, perché ne è l’autore: quale altro artefice infatti avrebbe potuto esprimere una così grande bellezza nelle singole creature? “Considerate i gigli del campo” (Mt 6,28), quale sia il candore dei loro petali, come questi, l’uno stretto all’altro, si rizzino dal basso verso l’alto in modo da riprodurre la forma d’un calice, come nell’interno di questo risplenda quasi un bagliore d’oro che, difeso tutt’intorno dalla protezione dei petali, non è esposto ad alcuna offesa. Se si cogliesse questo fiore e si sfogliassero i suoi petali, quale mano di artista sarebbe così abile da ridargli la forma del giglio? Nessuno saprebbe imitare la natura con tanta perfezione da presumere di ricostituire questo fiore, cui il Signore diede un riconoscimento così eccezionale da dire: “Nemmeno Salomone in tutta la sua gloria vestiva come uno di questi” (Mt 6,29). Un sovrano ricchissimo e sapientissimo è giudicato da meno della bellezza di questo fiore».
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