da www.repubblica.it
11 AGOSTO 2023
Riscoprire Simone Weil,
filosofa rivoluzionaria
di Marco Cicala
Ebrea francese, convertita a una personalissima forma di cristianesimo, morì a soli 34 anni nel 1943. Ma nella sua breve vita volle ripensare tutto, dalla politica alla giustizia, dall’economia all’Europa. Ecco perché vale la pena di rileggerla
Firenze. Pare che dopo averlo letto il generale de Gaulle commentò: «Questa è pazza». Era un fascicolo di poche pagine, si intitolava Progetto di una formazione di infermiere di prima linea. Nell’opuscolo si invocava la creazione di un’unità di pronto soccorso interamente costituita da donne, una sorta di corpo scelto da spedire tra i soldati in battaglia non appena fosse scattata sul continente la sospirata controffensiva anti-hitleriana. “Pasdaran” dell’azione umanitaria, le volontarie avrebbero dovuto essere «presenti sui luoghi di maggior pericolo», «nel punto culminante della ferocia», animate insieme «da una tenerezza materna» e «da uno spirito di sacrificio totale». Cestinato dai responsabili gaullisti come un pur nobile delirio, il Projet era firmato Simone Weil. E, pur trattandosi di un testo “minore”, ci restituisce con intensità gli eroici, per niente astratti, ma inappagati furori che avvolsero la sua vita breve fino a consumarla e a spegnerla, nell’estate di ottant’anni fa.
Da allora l’opera e la figura di Weil hanno conosciuto una posterità perlomeno singolare.
«Negli ultimi decenni, di lei si è scritto e parlato molto in Italia, molto più che in qualsiasi altro Paese, Francia compresa, ma la sua riflessione non ha inciso davvero nel dibattito filosofico, politico, religioso. Direi anzi che è diventata sempre meno attuale, nella misura in cui le grandi questioni con cui si misurava sono andate perdendo di peso fino all’evanescenza» ricorda, con una punta di sconforto, Giancarlo Gaeta. Già professore di Storia del cristianesimo antico all’università di Firenze, è tra gli studiosi che, a partire dagli anni Ottanta, hanno maggiormente contribuito alla “renaissance” del pensiero weiliano. Ma, appunto, una “rinascita” dal bilancio in chiaroscuro. Sebbene dottamente approfondita e chiosata, Simone Weil sembra rimasta ai margini del “canone” filosofico novecentesco. D’altronde, compressa in appena un quindicennio, la sua produzione è spesso frammentaria e per lo più fu pubblicata postuma. Inclusi i vertiginosi testi dell’ultimo periodo, i cosiddetti Scritti londinesi, che «costituiscono una lezione politica di primaria importanza» spiega Gaeta, «ma vennero ignorati dagli interlocutori diretti a cui si rivolgevano. E successivamente, malgrado occasionali attestazioni di ammirazione, non sono mai entrati nel dibattito culturale». Per situarli, si renderà necessario un breve excursus biografico.
Novembre 1942: dopo aver accompagnato i genitori negli Stati Uniti per metterli al riparo dalle persecuzioni antisemite, Simone Weil raggiunge in Inghilterra i ranghi della France Libre, la resistenza in esilio facente capo a Charles de Gaulle. A Londra Simone scalpita, vorrebbe subito entrare in azione, magari farsi paracadutare in patria per unirsi alla lotta contro l’occupante nazista. Invece, con suo sommo scorno, verrà messa a lavorare di concetto. La piazzano in un ufficio, col compito di elaborare progetti politici e istituzionali per la ricostruzione della Francia post-bellica. Orizzonte che in quel momento, nonostante la cruciale disfatta tedesca a Stalingrado, appare ancora passabilmente remoto.
Ma chi è Simone Adolphine Weil in quei primi anni 40? Una ragazza la cui vita ha già assunto i tratti romanzeschi di un’epopea del Novecento. Parigina, figlia della buona borghesia laico-israelita, è stata una brillantissima studentessa di filosofia, poi è andata a insegnarla nei licei di provincia. Dapprima filocomunista, in seguito più convinta militante anarco-sindacalista, ha scioperato accanto a disoccupati e minatori, ha sgobbato nelle fabbriche, nelle campagne, perfino coi pescatori di notte. Ha attaccato lo stalinismo e ospitato Trockij a Parigi, ma litigandoci. Nella Germania all’alba dell’hitlerismo ha registrato con impareggiata perspicacia lo sfascio del movimento operaio e dell’idea stessa di rivoluzione. Allo scoppio della guerra civile spagnola si è arruolata nelle colonne degli antifascisti libertari.
Ma nel frattempo si è pure avvicinata al cristianesimo, se ne è fatta “rapire” aderendovi sempre più totalmente, mantenendosi però sulla soglia della Chiesa cattolica, con la quale rimarrà in dialogo fortemente critico. Miscela di mistica, pauperismo, correnti ereticali, filosofia greca e sapienze orientali, quello di Simone Weil è un cristianesimo “fuori serie” su cui gli esegeti continuano a scervellarsi. Anche perché nel suo pensiero la spiritualità è indissociabile dall’azione. È solo nella densità umana, corporea dell’agire politico che Weil ritiene di poter pervenire a una lucidità speculativa. Comprensibile perciò che, seppur assegnata a un ruolo di prestigioso funzionariato intellettuale, Simone si sentisse nell’ufficetto londinese di Hill Street come un animale in gabbia. Alla frustrazione reagì gettandosi in una poligrafia matta e disperatissima. Nei pochi mesi che le restano da vivere, Weil mangia quasi niente, scrive testi folgoranti di tema politico, filosofico, religioso… Il Sacro, la Giustizia, i Partiti, il marxismo, la questione coloniale… Finché un giorno non si presenta al lavoro. I colleghi si preoccupano. Le entrano in casa e la trovano svenuta sul pavimento, tra i manoscritti. È uno straccio, ha la tubercolosi. Sarebbe curabile, ma rifiutando il cibo (per solidarietà, dice, con chi in tempi di guerra ne è a corto) non si aiuta. La sera del 22 agosto 1943, muore nel Grosvenor Sanatorium di Ashford, Kent. Ha 34 anni.
Professor Gaeta, tra quegli ultimi scritti ce n’era uno, incompiuto ma più esteso e articolato degli altri, che può essere considerato il testamento spirituale di Simone Weil…
«Uscì nel 1949, per volere di Albert Camus, col titolo di L’enracinement, “il radicamento”, nella traduzione italiana di Franco Fortini La prima radice. Ma il titolo assegnato dall’autrice era Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano. Fu giudicato editorialmente meno efficace. Però avrebbe evitato una serie di equivoci».
Quali?
«Quelli legati alla nozione di “radici”».
Che oggi, in tempi di ruggiti identitari, è tornata in grande spolvero.
«Tanto in Francia che in Italia ci sono stati tentativi di appropriazione del pensiero di Simone Weil da destra. Quasi che la sua idea di “radicamento” rimandasse a concezioni nazionaliste o patriottarde».
Quelle concezioni erano non solo estranee al suo percorso politico e intellettuale, ma nelle ore più buie del secolo Weil ne denunciò gli esiti calamitosi.
«In lei l’esigenza di radicamento è inseparabile dalla giustizia, dal rispetto verso ogni essere umano senza eccezione. È animata dalla preoccupazione dei limiti da assegnare alle ambizioni, agli appetiti, agli egoismi sociali. Nella sua visione, l’individuo è un essere determinato – cioè fisicamente legato a un ambiente naturale, umano, storico, culturale – ma che, insieme, appartiene all’universale. Nel Preludio Simone Weil esprime la necessità di un nuovo radicamento dopo aver analizzato i processi in atto di sradicamento – operaio, contadino, geografico – che nella modernità hanno estraniato l’individuo a se stesso, lo hanno confinato nei particolarismi nazionali e parcellizzato nel lavoro industriale, lo hanno separato dal proprio passato, ma pure da un futuro ormai schiacciato sull’idea di progresso tecnologico».
Insomma processi che dell’individuo avrebbero atrofizzato la parte di umanità, la sua quota di “universale”. Messa in questo modo, però, Simone Weil potrebbe essere presa per un’antimoderna.
«Non lo è. Nel Preludio tenta piuttosto di ripensare la modernità dai fondamentali della vita sociale: istituzioni, lavoro, economia, giustizia, educazione, o gli stessi concetti di Stato e nazione».
Vasto programma. Tanto più che l’obiettivo non era la ricostruzione della sola Francia, ma dell’Europa.
«Una Europa da rifondare ex novo, in controtendenza con tutto ciò che ne aveva determinato la crisi irreversibile. Crisi culturale, etica, politica che, agli occhi di Weil, rischiava di ridurre l’Europa post-bellica all’irrilevanza, alla subalternità in un mondo polarizzato tra Stati Uniti e Urss».
E difatti le cose sarebbero andate a finire proprio così. Le pagine di Simone Weil respirano di un umanesimo talmente radicale da dare il capogiro. Un umanesimo intransigente, per niente carezzevole. Lei come lo definirebbe?
«È un umanesimo religioso, ma diverso se non contrario da quello di intellettuali cattolici quali Jacques Maritain o Emmanuel Mounier. E d’altra parte critico verso quello marxiano che tende a risolversi in una “religione” senza trascendenza. L’umanesimo di Weil muove dal riconoscimento di una realtà che sta al di fuori di questo mondo e che è il fondamento unico del Bene. Così come la realtà del mondo, che lei chiama “necessità”, è il fondamento unico dei fatti. L’umanesimo di Simone Weil si riconosce nella fede cristiana, ma per lei tutte le religioni autentiche sono testimonianza dell’origine soprannaturale di ogni bene presente nel mondo, di ogni bellezza, verità, giustizia».
Con il proprio ebraismo però Weil ha un rapporto a dir poco complicato…
«Simone proviene da una borghesia ebraica totalmente assimilata. Si sente francese a pieno titolo. Per lei la questione dell’identità ebraica neppure si poneva. Si porrà con la guerra, al momento delle persecuzioni che giocoforza la relegano in una comunità separata. Weil soffre quell’identità imposta dalla discriminazione come una iattura, ma deve accettarla, farsene carico. Però quando a Londra le verrà chiesto di redigere un report sullo statuto delle minoranze non cristiane nella Francia liberata, si esprimerà a favore di un’assimilazione talmente estrema da cancellare nella società ogni traccia di ebraicità. A muoverla non era, come suggerito da qualcuno, un ebraico “odio di sé”, men che meno un qualche “antisemitismo ebraico”, piuttosto immaginava ingenuamente che la totale integrazione avrebbe protetto gli ebrei da future persecuzioni. Un’integrazione che tuttavia avrebbe occultato di fatto l’enorme contributo culturale e spirituale che storicamente l’ebraismo ha dato alla civiltà europea».
Ma la sua critica all’ebraismo aveva anche radici filosofico-religiose. Simone Weil ha in massima antipatia l’Antico Testamento. Al Dio degli eserciti e della forza contrappone il Cristo.
«Nel suo tentativo umanistico di riconciliare la fede con la razionalità scientifica, Weil cerca di saldare il cristianesimo alla cultura greca. Ma è una forzatura. Senza la radice ebraica il cristianesimo non è pensabile, non sta in piedi».
Di fronte al nazismo Weil si spende in azioni umanitarie, però sorprende il suo silenzio sulle persecuzioni antisemite. Certo, non poteva ancora conoscere le dimensioni della Shoah, ma nei suoi scritti non troviamo praticamente una parola di compassione circa il destino riservato agli ebrei.
«È vero. Questo è in lei un cono d’ombra, un punto oscuro che non riusciamo a spiegarci».
Torniamo alla politica. Oggi viviamo nell’epoca dei “diritti”. Mentre, col suo evangelico spirito di contraddizione, Weil insiste sul concetto di “doveri”, di “obblighi” verso l’essere umano. In che senso?
«Senza negare importanza ai diritti dell’uomo come formulati a partire dal 1789, Simone Weil rileva che la nozione di diritto è connessa a quella di “forza”. In un passo scrive: “Il diritto si regge soltanto su un tono di rivendicazione, e una volta adottato questo tono, non lontana, dietro di lui, c’è la forza per sostenerlo”. L’obbligo riposa viceversa su una visione che considera “ogni essere umano senza eccezione come qualcosa di sacro”, qualcosa che esige un rispetto incondizionato perché rinvia a un Bene trascendente, irriducibile all’ambito dei fatti. Ambito dominato e deciso dai rapporti di potere, dalla forza».
In un altro testo degli anni Quaranta propugnava invece la soppressione dei partiti politici. Ovviamente non in chiave totalitaria, ma di democrazia radicale.
«Negli anni Trenta, Weil aveva assistito al declino di partiti e sindacati che si erano trasformati in “chiese” ideologiche, in meri agglomerati di potere. Per la Francia e l’Europa post-belliche immaginava un nuovo modello democratico dove sarebbe stata centrale quella che oggi diremmo la “società civile”. Una realtà fatta di movimenti, associazioni, riviste, dibattiti di idee… Quella realtà avrebbe dovuto esprimere i rappresentanti eletti del parlamento. Esponenti politici non più vincolati a interessi e consegne di partito, ma alla propria coscienza, alle responsabilità del mandato, al bene pubblico. Tutte nozioni che adesso, nello stato di deliquescenza in cui versa la politica, suonano astratte, idealistiche, utopiche. E tuttavia, per Simone Weil la vita democratica non dovrebbe risolversi nell’immanenza del gioco politico, ma radicarsi nel sentimento della trascendenza. Il sentimento racchiuso, appunto, nel concetto di “obbligo”, che stabilisce la sacralità di ogni essere umano, e che come tale dovrebbe ispirare il governo della cosa pubblica».
Nella denuncia della “partitocrazia”, Weil sarà pure stata profetica. Però noi sappiamo che, nel bene e nel male, la ricostruzione del dopoguerra si fece anche grazie ai grandi partiti popolari. Dei quali oggi c’è chi ha nostalgia…
«Certo, quei partiti incarnavano ancora un’idea di società, di emancipazione, di futuro e, se vogliamo, di “uomo” che ormai si è persa. Ma poi sono tornati a essere le organizzazioni di potere denunciate da Simone Weil. I grandi partiti popolari si sono dissolti, ma la logica partitica domina ancor più la politica, ridotta agli interessi di parte verificati attraverso il puro consenso elettorale».
Lavorando in fabbrica, Weil aveva vissuto e sofferto la condizione operaia nel sistema tayloristico-fordista di produzione. Anche per questo auspicava che la ricostruzione economica ripartisse da un modello diverso, imperniato su quelli che lei chiamava i petits ateliers, diciamo una piccola-media impresa a misura umana. Ma la storia del capitalismo post-bellico avrebbe imboccato una direzione diametralmente opposta: grandi concentrazioni, monopoli, poi globalizzazione, economia delocalizzata, ora digitale… Insomma il perfetto contrario di un “nuovo radicamento”. Anche qui le analisi di Weil peccavano di velleitarismo?
«Tutte le sue riflessioni, e specie quelle politiche, sono discutibili. Ma per coglierne il significato profondo andrebbero ricollocate nel contesto temporale ed “esistenziale” nel quale vennero elaborate. Weil ha di fronte un’Europa ridotta al grado zero. In quel paesaggio di rovine avvista però una grande occasione storica. È come se si dicesse: più in basso di così non si può scendere, dunque non ci resta che ricominciare, ricostruire, ripensare radicalmente tutto… Società, politica, istituzioni, industria… Se non ora quando? Negli ultimi scritti si avverte con forza questo senso di urgenza, l’impellenza di una chance da afferrare prima che sia troppo tardi. Quando, alla fine degli anni Quaranta, intellettuali come Camus scoprono il pensiero politico di Weil sentono che quell’occasione è già sfumata».
Da quel sentimento emergenziale Simone uscirà frustrata, battuta, distrutta. A dispetto della sua vitalità, non si uccide, ma quasi: piomba in un cupio dissolvi, si lascia morire.
«Nell’impossibilità di passare all’azione, si abbandona alla morte. Dalle ultime lettere emerge un senso di sconfitta. Come se tutto quello che aveva intrapreso fosse finito in un fallimento. L’idea della fama postuma non la sfiorava nemmeno. Per lei il pensiero, tutto il pensiero, deve operare nella realtà del presente e riceverne la verifica, qui ed ora. In questo, il confronto finale a Londra col circolo politico del generale de Gaulle è esemplare, se ne potrebbe trarre un dramma».
Si è parlato di un suo battesimo ricevuto in articulo mortis. Che cosa c’è di vero? Che cosa ne sappiamo?
«Ne sappiamo solo quanto riferito da Simone Deitz, l’amica che la trovò svenuta in casa e che la fece ricoverare. Deitz, un’ebrea convertita, raccontò di aver chiesto a Weil se avrebbe accettato di farsi battezzare agonizzante. Weil le avrebbe risposto che se fosse stata incosciente, la cosa le sarebbe stata indifferente. Una risposta che dovrebbe metter fine a tutti gli interrogativi. Simone Weil si considerava già da tempo cristiana. L’unico motivo che avrebbe potuto convincerla a battezzarsi non era entrare nella chiesa cattolica, ma ricevere l’eucaristia, sacramento da cui senza il battesimo rimaneva esclusa».
Perché leggere o rileggere oggi Simone Weil?
«L’approccio al suo pensiero è ormai sempre più privato e nient’affatto politico. Una lettura che ne mutila notevolmente la forza, la capacità critica di opporsi allo stato delle cose e ai poteri che le governano. Purtroppo, in questi ottant’anni, né la Sinistra né il cattolicesimo politico sono stati in grado di recepire una riflessione che si era impegnata fino allo spasimo per impedire la deriva a cui si vedeva esposta l’Europa, deriva di cui ora stiamo subendo gli effetti. Non si è capito che il suo pensiero rappresentava l’antidoto sia al dogmatismo che al liberismo e apriva ad una concezione più comprensiva della politica. Ciò detto, gli scritti di Weil restano un potente aiuto a sviluppare l’interiorità, a sentire malgrado tutto la bellezza del mondo, il mistero della creazione intellettuale e artistica, a non smarrire il desiderio della trascendenza, comunque la si intenda».
A un livello di fede come quello di Simone Weil, che Dio esista oppure no, alla fine è davvero l’ultimo dei problemi.
«Sì, conta il desiderio di Dio, un rapporto d’amore vissuto nella contraddizione tra la necessità e il Bene».
Sul Venerdì dell’11 agosto 2023
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Imparare ad amare
Simone Weil
Esce un saggio per far luce sulla complessità del suo pensiero scritto da Giancarlo Gaeta, grande studioso della filosofa francese. Che parte dalla lettura, “un dono soprannaturale”, diceva lei
di ALFONSO BERARDINELLI
11 APRILE 2018
Di Simone Weil si conosce il nome e forse qualcosa della vita, ma se ne ignorano le opere. Fra i grandi autori del Novecento è ancora la più misconosciuta. Solo eccezionalmente si fa riferimento a qualcuno dei suoi scritti per ricavarne frasi fuori contesto. La sua stessa esistenza, così interamente votata all’impegno morale e alla conoscenza, continua a turbare e infastidire. Anoressica? Sessuofobica? Estranea alla vita? Tradizionalista? Qualche ragione per liberarsene si trova sempre. Ma benché lontana dalla modernità culturale fino al punto di apparire antimoderna, per originalità di pensiero, energia e purezza stilistica, universalità di formulazioni e di interessi, Simone Weil, come saggista, probabilmente non ha uguali nell’ultimo secolo. La radicalità e lucidità con cui ha analizzato l’organizzazione sociale, la cultura e la politica che hanno portato l’Europa all’autodistruzione fra il 1914 e il 1945, ne fanno, accanto a Karl Kraus e a George Orwell, un interprete imprescindibile del suo tempo. Ciò che più respinge nella sua opera e nella sua vita è forse una cosa sola: l’eccesso di consapevolezza e di coerenza. Un eccesso che non esclude nulla: sensibilità estetica e intuito psicologico, intelligenza politica e ispirazione religiosa.
La sua vita fu breve. Nata a Parigi nel 1909 in una famiglia ebraica agiata e laica, già a dieci anni si definiva bolscevica. Ebbe come professore di liceo Alain, umanista e saggista amico di Paul Valéry e insegnò filosofia in un paio di licei femminili impegnandosi contemporaneamente in attività sindacali e corsi serali per minatori. Alla sua compagna di scuola (e più tardi biografa) Simone Pétrement aveva confessato di non amare gli operai solo per spirito di giustizia: “Li amo naturalmente, trovo che sono più belli dei borghesi”.
Nel 1932, a ventitré anni, passa alcuni mesi a Berlino e scrive una serie di articoli di straordinaria acutezza politica sugli errori della sinistra tedesca, sia comunista che socialdemocratica, incapace di contrastare l’ascesa di Hitler. Nel 1934 lavora a uno dei suoi saggi fondamentali, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione che, partendo da Marx e utilizzandone il materialismo, ne critica come mitologiche le idee di progresso e di rivoluzione. Critica il rivoluzionarismo di André Malraux e Georges Bataille. Di quest’ultimo scrive: “La rivoluzione è per lui il trionfo dell’irrazionale, per me del razionale (…) per lui la liberazione degli istinti, per me una moralità superiore”.
Decide subito dopo di lavorare come operaia prima alla Alsthom e poi alla Renault, sperimentando gli effetti fisici e soprattutto mentali della “schiavitù” di fabbrica. Nel 1936 parte per la Spagna e partecipa alla guerra civile nella colonna internazionale dell’anarchico Buenaventura Durruti. Fisicamente provata da queste esperienze, delusa dal burocratismo e dalla dipendenza da Mosca delle organizzazioni operaie, riprende a studiare. Due viaggi in Italia risvegliano la sua sensibilità per l’arte e la religione, a lungo rimossa. Tra i suoi artisti più amati, Monteverdi e Bach, Giotto, Leonardo, Giorgione, Rembrandt. Le sue letture preferite sono l’Iliade (su cui scrive in quanto “poema della forza”), Re Lear, il Libro di Giobbe, la Bhagavad Gita. L’evento del 1938 fu l’improvvisa, inaspettata esperienza estatica in cui sente di incontrare Cristo.
Da questo momento in poi, con la stesura dei Quaderni, vera e propria opera a sé, con il suo sentirsi cristiana fuori della Chiesa (“nell’intersezione del cristianesimo e di tutto ciò che il cristianesimo non è”), con l’angoscia per l’inizio della Seconda guerra mondiale, in tutta la sua riflessione si intrecciano più strettamente etica, filosofia sociale, religione e soprattutto una revisione dell’intero percorso culturale dell’Occidente. Il cristianesimo di Simone Weil è evangelico, ma non esclude, anzi richiama corrispondenze speculari con “le parti più belle e pure del Vecchio Testamento”, con la Grecia dei pitagorici, di Platone, dello stoicismo, con la Cina taoista, l’induismo e l’arcaica sapienza egizia. Le sue diagnosi e il suo testamento culminano negli Scritti di Londra e nell’ampio saggio La prima radice, dedicati a un’Europa da rifondare dopo le rivelazioni demoniache dei suoi errori storici con il nazismo e lo stalinismo, le cui origini le appaiono remote e i cui effetti potranno prolungarsi in altre forme nel futuro. A Londra, nel 1943, mentre cerca di rientrare in Francia per combattere nella resistenza antinazista, muore di tubercolosi a soli trentaquattro anni.
Ciò che può dare le vertigini al lettore di Simone Weil è il cortocircuito continuo fra esperienze dirette, impegno pratico e l’ininterrotta meditazione sui fondamenti della vita mentale e sociale. Tutta la sua filosofia è una lotta contro l’irresponsabilità delle astrazioni. Il maggior pericolo morale e politico, che dall’antica Roma è arrivato allo stato assoluto di Luigi XIV e Napoleone per arrivare a Hitler e Stalin, è nel controllo totalitario sulla vita di ognuno e di tutti. Mito della grandezza storica, nazionalismo, culto della forza, burocrazia di stato e di partito, sovranità della macchina economico-produttiva, nascondono e cancellano un principio essenziale: che è la società ad avere doveri verso gli individui, non viceversa.
Grande merito di Giancarlo Gaeta, che ora pubblica da Quodlibet Leggere Simone Weil, è stato di aver vissuto fin dagli anni Sessanta l’esperienza di esplorare il pensiero della Weil, traducendo e introducendo (soprattutto per Adelphi) la maggior parte delle sue opere. Il libro ripropone introduzioni e saggi e costituisce la migliore trattazione d’insieme che abbiamo per tornare su questa autrice.
Il problema della Weil e la sua soluzione, in effetti, sono interamente nel leggerla. Nell’onestà di traduttore e commentatore (Leggere Simone Weil è un’enorme glossa al servizio dell’autrice e dei lettori) il lavoro di Gaeta ha avuto qualcosa di ascetico. Massima aderenza alla lettera per cogliere lo spirito. Vengono in mente due aforismi della stessa Weil: “Il genio è l’attenzione” e (ancora più audace e misterioso) “Il dono della lettura è soprannaturale, e senza questo dono non c’è giustizia”. Giancarlo Gaeta ha avuto l’intelligenza di applicare alla Weil il metodo della Weil: leggere con un’attenzione limpida e prolungata, usando il suo autore come un ispiratore e non come un semplice “oggetto di studio”.
Quando nel 1995 Patrizia Cavalli, Carlo Cecchi e io inventammo un Premio Elsa Morante che durò solo due anni, lo assegnammo subito a Gaeta in quanto curatore delle opere di Weil, amatissima da Elsa. Nella foto ricordo della serata si notano fra gli altri Goffredo Fofi, Raffaele La Capria, Geminello Alvi, Mario Martone… Al centro, accanto a Gaeta, vedo a sinistra Piergiorgio Bellocchio e Giorgio Agamben a destra (o se volete viceversa). Leggere Simone Weil oggi è possibile solo se ci si libera dalla tentazione di trascinarla a sinistra o a destra, fra i mistici o i rivoluzionari o i mistici della rivoluzione. Della Weil una cosa è certa: amava i diseredati, gli espropriati, chi non ha niente. Meglio i folli che i ricchi.
Sul Venerdì del 13 aprile 2018
***
da www.repubblica.it
11 AGOSTO 2023
Simone Weil:
contro Hitler, schieriamo le donne
di Simone Weil
Durante la Seconda guerra mondiale, la filosofa ideò il suo “Progetto di una formazione di infermiere di prima linea”: un corpo femminile che avrebbe dovuto assistere i soldati al fronte. Incarnando i valori per cui combattevano gli Alleati
Il Projet d’une formation d’infirmières de première ligne risale alla primavera del ’40 e fu presentato alla Commissione per l’esercito del Senato. Riveduto durante il periodo trascorso da Simone Weil a New York, fu inviato nella stesura definitiva all’amico Maurice Schumann a Londra nell’estate del ’42 per meglio definire lo spirito con il quale intendeva impegnarsi nella Resistenza. In concreto essa chiedeva o di poter realizzare questo progetto, che De Gaulle definirà una follia, oppure di essere inviata sul territorio francese per una missione operativa.
Questo progetto concerne la costituzione di una formazione speciale di infermiere di prima linea. Questa formazione dovrebbe essere molto mobile e dovrebbe trovarsi per principio sempre nei punti più pericolosi, per fare del «first aid» in piena battaglia.
Si potrebbe iniziare l’esperienza con un piccolo nucleo di dieci, o anche meno; e si potrebbe cominciare in un lasso di tempo anche molto breve, perché la preparazione necessaria è pressoché nulla. Sarebbero sufficienti delle conoscenze elementari da infermiera, perché sotto il fuoco non è possibile fare altro che fasciature, applicare lacci emostatici, forse fare delle iniezioni.
Le qualità morali indispensabili non sono di quelle che si acquisiscono. L’esclusione delle donne che si presentassero senza possederle sarebbe un problema di facile soluzione. Gli orrori della guerra sono oggi così presenti all’immaginazione di tutti, che una donna disposta a offrirsi volontariamente per una simile funzione si può considerare capace con tutta probabilità di assolverla.
Questo progetto può sembrare a prima vista impraticabile perché è nuovo. Ma un po’ di attenzione permette di riconoscere che esso non è solo praticabile ma anche molto facile da eseguire; che in caso di fallimento gli inconvenienti sono quasi nulli; che in caso di successo i vantaggi sono veramente considerevoli.
È facile da eseguire, perché per un primo tentativo è sufficiente un piccolo nucleo di volontarie. Non sarebbe necessaria alcuna organizzazione, per il semplice fatto che il numero sarebbe all’inizio molto piccolo. Se la prima esperienza riuscisse, questo nucleo iniziale si accrescerebbe poco a poco, e l’organizzazione si costituirebbe secondo le necessità richieste dalle dimensioni di questa formazione. Del resto, per la natura stessa del suo compito, una simile formazione non potrebbe in alcun caso diventare molto numerosa; ma non è necessario che essa lo sia.
L’esperimento potrebbe fallire solo per l’incapacità delle donne membri di tale formazione ad assolvere il proprio compito.
Si possono temere solo due cose. L’una che il coraggio di queste donne venga meno sotto il fuoco. L’altra che la loro presenza tra i soldati abbia un effetto negativo sui costumi.
L’una e l’altra saranno impossibili se la qualità delle donne che si offrono come volontarie corrisponde alla loro decisione. Un soldato non mancherà mai di rispetto a una donna che dia prova di coraggio davanti al pericolo. L’unica precauzione da prendere sarebbe di lasciare queste donne a contatto dei soldati solo in combattimento e non durante il riposo.
Evidentemente sarebbe indispensabile a queste donne una grande quantità di coraggio. Esse dovrebbero aver fatto sacrificio della loro vita. Bisogna che esse siano pronte a trovarsi sempre nei punti più difficili, a correre lo stesso pericolo o anche maggiore dei soldati più esposti, e questo senza essere sostenute dallo spirito offensivo; piegandosi al contrario sui feriti e sui morenti. Ma se l’esperienza riuscisse, i vantaggi del successo sarebbero proporzionali a questa difficoltà.
Difficoltà che è più apparente che reale, dato il numero ristretto di queste volontarie, e soprattutto del primo nucleo, che, ancora una volta, potrebbe essere inferiore a dieci. È probabile e quasi certo che si possano trovare senza fatica dieci donne sufficientemente coraggiose. Per quelle che si unissero in seguito al nucleo primitivo, l’emulazione sarebbe uno stimolo molto forte.
Se nel corso della prima prova si constatassero in queste donne sia dei cedimenti sotto il fuoco sia un ritegno insufficiente nei rapporti con i soldati, non resterebbe che sciogliere la formazione, rimandare le donne indietro e rinunciare a questa idea. Dal momento che l’esperimento sarà stato fatto in scala ridottissima e senza pubblicità, l’inconveniente sarà nullo, a parte le perdite che potranno essersi verificate. Ma si tratterà di perdite infime, quanto al numero, rapportate alla guerra; si può dire trascurabili. Di fatto, in un’operazione di guerra la morte di due o tre esseri umani è ritenuta un inconveniente pressoché nullo.
Non c’è in generale nessuna ragione per considerare la vita di una donna, soprattutto se essa ha superato la prima giovinezza senza essere né sposa né madre, come più preziosa della vita di un uomo; a maggior ragione se accetta il rischio della morte. Sarebbe facile scartare da un simile gruppo le madri, le spose e le giovani al di sotto di una certa età.
La questione della resistenza fisica è meno importante di quanto non sembri a prima vista, anche se questa formazione è chiamata ad agire in condizioni climatiche molto rudi, perché data la natura del compito sarebbe facile assicurarle lunghi e frequenti periodi di riposo. Queste donne non dovrebbero dare prova di una resistenza continua come nel caso dei soldati. Sarebbe facile proporzionare il loro sforzo alle loro possibilità.
Il carattere motorizzato della guerra moderna sembra a prima vista un ostacolo; ma riflettendovi appare che le cose ne sono al contrario probabilmente facilitate. Quando la fanteria è mandata al fronte in camion, non dovrebbe costituire alcun inconveniente prevedere che su un camion ogni tanti un posto sia riservato a una donna. Vuol dire un fucile in meno, ma la presenza di questa donna avrebbe un’efficacia materiale e morale che farebbe senza dubbio considerare questo inconveniente come trascurabile.
Si potrebbe temere che se anche l’esperimento riuscisse con un piccolo nucleo, sarebbe impossibile allargare il reclutamento a causa della difficoltà del compito. Ma anche se tale formazione non dovesse comprendere mai altro che qualche decina di donne, ed è poco probabile, i vantaggi sarebbero tuttavia molto considerevoli.
Allo stesso modo, se dopo un certo tempo la mortalità sembrasse troppo grande per continuare l’esperimento, i vantaggi dell’esperimento compiuto sussisterebbero e supererebbero ampiamente l’inconveniente delle perdite.
Quindi le obiezioni che vengono in mente a prima vista davanti a un simile progetto si riducono a ben poca cosa, si potrebbe dire a quasi niente, dopo un attento esame. Al contrario i vantaggi sono tanto più manifesti e appaiono tanto più grandi quanto più li si esamina da vicino. Il primo, il più evidente risiede nel compito stesso che queste donne dovrebbero normalmente svolgere.
Presenti sui luoghi di maggiore pericolo, accompagnando i soldati in battaglia, cosa che barellieri, infermieri e infermiere ordinari non fanno, esse salverebbero in molti casi la vita ai soldati prestando ai caduti cure sommarie, ma immediate.
Il conforto morale che offrirebbero a tutti quelli di cui potrebbero occuparsi sarebbe anch’esso inestimabile. Consolerebbero gli agonizzanti raccogliendo le ultime parole dei morenti per le loro famiglie; diminuirebbero con la loro presenza e le loro parole le sofferenze del tempo di attesa, a volte così lungo e doloroso, tra il momento del ferimento e l’arrivo dei barellieri.
Si trattasse anche solo di questo, sarebbe già una ragione sufficiente per costituire questa formazione di donne. Questo solo vantaggio è già considerevole e non è controbilanciato da quasi nessun inconveniente. Ma ci sono ancora altri vantaggi legati all’esecuzione di questo progetto, che sono forse, dal punto di vista della direzione generale della guerra, di primaria importanza.
Per apprezzarli, bisogna ricordarsi a qual punto i fattori morali sono essenziali nella guerra attuale. Essi giocano un ruolo molto più importante che nella maggior parte delle guerre passate. Il fatto che Hitler sia stato il primo a capirlo è una delle cause principali del suo successo.
Hitler non ha mai perso di vista la necessità essenziale di colpire l’immaginazione di tutti; dei suoi, dei soldati nemici e degli innumerevoli spettatori del conflitto. Dei suoi, in modo da imprimere loro senza sosta un nuovo impulso in avanti. Dei nemici, in modo da suscitare tra loro la maggiore confusione possibile. Degli spettatori, in modo da sorprendere e fare impressione. Uno dei migliori strumenti a tal fine sono le formazioni speciali, quali le S.S., i gruppi di paracadutisti che per primi sono penetrati a Creta, e altri ancora.
Queste formazioni sono costituite da uomini scelti per compiti speciali, pronti non solo a rischiare la loro vita, ma a morire. È questo l’essenziale. Essi sono animati da una diversa ispirazione rispetto alla massa dell’esercito, una ispirazione che somiglia a una fede, a uno spirito religioso.
Non che l’hitlerismo meriti il nome di religione. Ma è senza dubbio un surrogato di religione, e questa è una delle cause principali della sua forza.
Questi uomini sono indifferenti alla sofferenza e alla morte per se stessi e per tutto il resto dell’umanità. La fonte del loro eroismo è un’estrema brutalità. Le formazioni che li raggruppano rispondono perfettamente bene allo spirito del regime e ai disegni del loro capo.
Noi non possiamo copiare questi metodi hitleriani. Innanzitutto perché noi lottiamo con altro spirito e altri motivi. Poi perché quando si tratta di colpire l’immaginazione ogni replica manca lo scopo. Solo ciò che è nuovo colpisce.
Ma se noi non possiamo e non dobbiamo ripetere questi metodi, dobbiamo avere degli equivalenti. È una necessità forse vitale.
Se i russi hanno fin qui retto davanti ai tedeschi meglio degli altri popoli, una delle cause è forse che essi possiedono metodi psicologici equivalenti a quelli di Hitler.
Non dobbiamo copiare neppure i russi. Dobbiamo esprimere qualcosa di nuovo. Questa capacità di espressione è per se stessa un segno di vitalità morale atto a sostenere le speranze dei popoli che contano su noi e a diminuire quelle dei nemici.
Difficilmente si può mettere in dubbio l’utilità di formazioni speciali i cui membri hanno tutti accettato di morire. Non solo si può affidare a simili formazioni compiti ai quali altre sarebbero meno adatte, ma la loro stessa esistenza è per l’esercito uno stimolo potente e una fonte d’ispirazione. A tal fine bisogna solo che lo spirito di sacrificio si esprima con gli atti e non con le parole.
Nell’epoca in cui viviamo, la propaganda è un fattore essenziale di successo. Essa ha fatto la fortuna di Hitler. Neppure i suoi nemici l’hanno trascurata.
Ma mentre si pensa molto alla propaganda nel Paese, si pensa meno alla propaganda al fronte. Essa è altrettanto importante. Ma non comporta gli stessi metodi. Nel Paese la propaganda si fa con la parola. Al fronte le parole devono essere sostituite con gli atti.
L’esistenza di formazioni speciali animate da uno spirito di sacrificio totale costituisce ad ogni istante una propaganda in atto. Simili formazioni procedono necessariamente da un’ispirazione religiosa; non nel senso dell’adesione a una Chiesa determinata, ma in un senso assai più difficile da definire, e al quale tuttavia solo questa parola è adatta. Ci sono circostanze in cui tale ispirazione costituisce un fattore di vittoria più importante degli stessi fattori militari in senso stretto. Ci si può persuadere di questo studiando i meccanismi che hanno portato alla vittoria sia Giovanna d’Arco che Cromwell. È del tutto possibile che noi ci troviamo attualmente in circostanze di questo genere. I nostri nemici sono spinti avanti da un’idolatria, un surrogato di fede religiosa. La nostra vittoria ha forse come condizione la presenza tra noi di un’ispirazione analoga, ma autentica e pura. E non solo la presenza di una simile ispirazione, ma la sua espressione attraverso simboli appropriati. Un’ispirazione agisce solo se si esprime, e questo non a parole ma con i fatti.
Le S.S. costituiscono un’espressione perfetta dell’ispirazione hitleriana. Al fronte, se si deve credere ad alcuni rapporti apparentemente imparziali, essi posseggono l’eroismo della brutalità; e lo spingono fino all’estremo limite possibile del coraggio. Noi non possiamo mostrare al mondo di valere più dei nostri nemici superando il loro grado di coraggio, perché non è possibile in termini di quantità. Ma possiamo e dobbiamo mostrare di possedere una qualità di coraggio differente, più difficile e più rara. Il loro è di una specie brutale e bassa; procede dalla volontà di potenza e di distruzione. Poiché i nostri scopi sono differenti dai loro, così il nostro coraggio procede da tutt’altra ispirazione.
Nessun simbolo può spiegare meglio la nostra ispirazione che la formazione femminile qui proposta. Il semplice persistere di un compito umanitario nel centro stesso della battaglia, nel punto culminante della ferocia, sarebbe una sfida clamorosa alla ferocia che il nemico ha scelto e che ci impone a nostra volta. La sfida colpirebbe tanto di più perché a svolgere questi compiti umanitari sarebbero delle donne e animate da una tenerezza materna. Di fatto queste donne sarebbero poche e il numero dei sodati di cui potrebbero occuparsi sarebbe proporzionalmente piccolo; ma l’efficacia morale di un simbolo è indipendente dalla quantità.
Un coraggio che non è riscaldato dalla volontà di uccidere, che nell’istante di maggiore pericolo sostiene lo spettacolo prolungato delle ferite e delle agonie, è certamente di una qualità più rara di quello delle giovani S.S. fanatizzate.
Un piccolo gruppo di donne che esercitasse giorno dopo giorno un coraggio di questo genere sarebbe uno spettacolo talmente nuovo, talmente importante e carico di un significato talmente chiaro da colpire l’immaginazione più di quanto non abbiano fatto fin qui i diversi procedimenti inventati da Hitler. Soltanto Hitler ha finora colpito l’immaginazione delle masse. Ora bisognerebbe colpire più forte di lui. Questo corpo femminile costituirebbe senza dubbio un mezzo in grado di riuscirci.
Benché composto di donne disarmate, farebbe senza dubbio impressione sui soldati nemici, nel senso che la loro presenza e la loro resistenza farebbero sentire in modo nuovo e inatteso fin dove giungono da parte nostra le risorse morali e la risolutezza.
L’esistenza di questo corpo femminile farebbe un’impressione non inferiore sul pubblico in generale, nei paesi che prendono parte alla lotta e in quelli che vi assistono. La sua portata simbolica sarebbe colta ovunque. Questo corpo da una parte e le S.S. dall’altra creerebbero con la loro contrapposizione un’immagine da preferire a qualsiasi slogan. Sarebbe la rappresentazione più clamorosa possibile delle due direzioni tra le quali l’umanità oggi deve scegliere.
Ancora più grande sarebbe senza dubbio l’impressione sui nostri soldati.
I soldati nemici hanno su di loro, dal punto di vista puramente militare, la superiorità di essere stati strappati alle loro famiglie e addestrati alla guerra da dieci anni. Essi non sono disorientati dal mutamento di atmosfera. Per così dire, non hanno mai conosciuto un’altra atmosfera. Il valore di un focolare è loro sconosciuto. Non hanno respirato mai altro che la violenza, la distruzione e la conquista. Questa guerra, per quanto dura, non è per loro uno strappo ma una continuazione e un compimento.
Essa è stata ed è uno strappo per i ragazzi francesi, inglesi, americani, che hanno sempre vissuto in un ambiente pacifico e desiderano semplicemente ritrovarlo dopo averne assicurato la sicurezza con la vittoria.
Il Paese aggressore parte sempre con un vantaggio morale considerevole, per poco che l’aggressione sia stata preparata e premeditata. I ragazzi dei nostri Paesi sono stati strappati alla loro vita vera dall’aggressione tedesca e trasportati brutalmente in un’atmosfera che non è la loro, che è quella dei loro nemici. Per difendere le loro case, devono cominciare con il lasciarle e quasi dimenticarle, a forza di vivere in luoghi in cui non c’è nulla che le ricordi.
L’atmosfera del combattimento impedisce loro di tenere presente il movente del combattimento. Per l’aggressore accade esattamente l’inverso. Non c’è dunque da stupirsi che da parte dell’aggressore ci sia più slancio.
Per questo lo slancio dell’aggressione non si scontra in generale con uno slancio di uguale intensità, a meno che quelli che si difendono si trovino in patria, presso le loro case, e quasi ridotti alla disperazione per il timore di perderle.
Non è né possibile né desiderabile trasformare i nostri soldati in giovani bruti fanatici simili ai giovani hitleriani. Ma si può portare al massimo il loro slancio rendendo le case che essi difendono il più intensamente possibile presenti al loro pensiero.
Cosa c’è di meglio a tal fine che farli accompagnare fin sotto il fuoco, fin nelle scene della più grande brutalità, da qualcosa che costituisce un’evocazione vivente delle case che hanno dovuto abbandonare, un’evocazione non commovente ma al contrario esaltante? Non ci sarebbero allora momenti in cui essi avrebbero l’impressione deprimente di una rottura del legame tra loro e tutto ciò che amano.
Questo corpo femminile costituirebbe precisamente l’evocazione concreta ed esaltante delle case lontane.
Gli antichi germani, queste popolazioni semi-nomadi che le armate romane non poterono mai sottomettere, avevano riconosciuto il carattere esaltante di una presenza femminile nel punto più duro del combattimento. Avevano l’abitudine di mettere davanti alle linee una fanciulla circondata dai migliori tra i giovani guerrieri .
Ai giorni nostri, i russi, si dice, trovano anch’essi vantaggioso consentire a delle donne di servire anche sotto il fuoco.
I membri di questo corpo femminile potrebbero all’occorrenza svolgere i servizi più diversi oltre che occuparsi dei feriti. Nei momenti più critici, in cui ufficiali e sotto-ufficiali sono sommersi dalla moltitudine di compiti da assolvere, esse diventerebbero le ausiliarie naturali per tutti i bisogni che non siano quello dell’uso stesso delle armi, per tutto ciò che concerne collegamenti, adunate, trasmissione di ordini. Ammesso che il loro sangue freddo resti intatto, il loro stesso sesso farebbe di loro in queste circostanza degli strumenti di grande efficacia.
Certo bisognerà che siano state scelte con cura. Delle donne rischiano sempre di costituire un ostacolo se non possiedono una quantità di risolutezza fredda e virile che impedisca loro di credersi importanti in ogni momento. Questa risolutezza fredda si trova raramente unita in uno stesso essere umano con la tenerezza che il conforto delle sofferenze e delle agonie esige. Ma benché sia raro, non è introvabile.
Una donna non può concepire di proporsi per la funzione che si è qui abbozzata, se essa non possiede a un tempo questa tenerezza e questa fredda risolutezza, o se è poco equilibrata. Ma in quest’ultimo caso sarebbero facilmente scartate prima di affrontare la prova del combattimento.
Per iniziare basterebbe trovare una decina di donne veramente capaci di un simile compito. Queste donne esistono di certo. È facile trovarle.
Mi sembra impossibile concepire un altro modo di utilizzare queste poche donne altrettanto efficacemente che in una simile formazione. E la nostra lotta è così dura, così vitale, che ogni essere umano vi deve essere utilizzato per quanto è possibile con il massimo di efficacia.
Traduzione di Giancarlo Gaeta
Sul Venerdì dell’11 agosto 2023
Grande donna e grande mente. Un esempio per tutti noi.