22 settembre 2024: IV^ DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE
1Re 19,4-8; 1Cor 11,23-26; Gv 6,41-51
Il primo brano parla ancora di Elia, senz’altro un profeta tra i più interessanti e affascinanti, anche perché si presenta con diverse facce: ora duro e anche violento, ora dolcissimo, ora in crisi, amareggiato, chiedendo a Dio perfino di morire.
L’ho già detto: a me piacciono i santi così, pieni di fede e di dubbi, consci delle proprie debolezze e dei propri limiti, come san Paolo, e nella Bibbia troviamo giusti, pensate a Giobbe, che, messi alla prova da Dio, lo contestavano fino a riconoscere di non conoscerlo nel suo Mistero di Bene assoluto, ma ineffabile proprio perché Mistero ineffabile.
Elia ha capito una cosa: se compiva cose grandiose aveva il popolo dalla sua, che lo osannava in quanto taumaturgo, ma appena tornava alla vita normale allora il popolo lo abbandonava, alla ricerca degli stessi dèi che Elia combatteva.
Non solo Elia, tutti i profeti dell’Antico Testamento avevano un chiodo fisso: condannare duramente ogni idolatria, e l’idolatria è solo una immagine, perfino un oggetto materiale, di un falso dio, manipolato a piacere.
L’idolatria, anche oggi, soprattutto oggi, in un contesto materialistico in cui conta solo ciò che si vede, si tocca, offre qualche interesse, qualche vantaggio personale o di casta. L’idolatria sembra avere il sopravvento su tutto, non solo nel campo ecclesiastico, anche in quel campo della fisica di scienziati che usano solo strumenti fisici per misurare anche la bellezza della Natura. Tutto da vedere e da toccare fisicamente.
E così succedeva che anche Elia, abbandonato da quel popolo per il quale lottava per mantenerlo puro da ogni contaminazione idolatrica, andava in crisi, perché si trovava a lottare da solo con una perfida regina pagana, moglie del re d’Israele, Acab, che odiava e perciò perseguitava ogni profeta del Dio d’Israele, in particolare Elia, che tra parentesi aveva messo in ridicolo ben 450 sacerdoti di Baal, facendoli poi uccidere tutti quanti.
Di queste regine capiteranno poi nella storia della Chiesa, basterebbe pensare alla imperatrice ariana Giustina, che si mise contro il grande vescovo Ambrogio che non voleva cedere a un gruppo di fanatici ariani che pretendevano di prendersi per il loro culto la basilica Portiana (oggi, S. Vittore in Colle). Sant’Ambrogio con i fedeli milanesi si barricò nella basilica per impedire ai soldati della imperatrice di occuparla, e non valsero né esortazioni, né minacce, né arresti in massa per vincerne la resistenza. Forse non tutti ricordano che in quella occasione Ambrogio, per invitare i fedeli a pregare e a resistere il più possibile, fece cantare alcune semplici melodie, di cui egli stesso compose musica e testo, come spiega Agostino nelle Confessioni: si tratta di inni ancora famosi, rimasti nella liturgia.
Altri tempi, qualcuno dirà. Sì, altri tempi. Oggi si sta vendendo tutto, chiese, conventi e il duomo non è necessario occuparlo per difenderlo, a renderlo vuoto ci pensa lo stesso vescovo vacuo e inutile.
E la cosa allucinante è che allora i profeti andavano in crisi, mentre oggi i vescovi, o i pastori come si dice bestemmiando la figura evangelica del buon pastore, si difendono dalle crisi evadendo, andando in giro a racimolare qualche spiga secca.
Vorrei tanto sapere se il nostro vescovo di fronte a una imperatrice che gli chiedesse il Duomo, cosa farebbe? Certo, glielo concederebbe per celebrare funerali di criminali o altri.
E così a Elia non rimase che fuggire dalla perfida Gezabele intraprendendo un lungo cammino al monte Sinai, alla ricerca del vero volto di Dio, come per Mosè, poiché non capiva più il comportamento di Dio verso di lui e il suo popolo. Egli voleva scoprire le strategie di Dio, ma ricevette una esperienza, assolutamente diversa da come se la sarebbe immaginata.
È il bello della crisi che ci distacca da visuali nostre di fede in un dio sbagliato, idolatrico, su misura delle nostre cortezze intellettuali. È stata l’esperienza di tutti i santi, i martiri, i giusti: Dio non è facile da accostare. Egli si nasconde e questo provoca scoraggiamento: è la tentazione classica del profeta. Basterebbe leggere la storia anche personale di ogni profeta dell’Antico Testamento, ciascuno con la propria vicenda anche drammatica per una missione che non gli stava bene, essendo un uomo tranquillo, senza tante manie di grandezze nella testa, ma se Dio lo chiamava come rifiutare? Però stava male, dentro.
La solitudine di Elia del dover reggere la fatica di un popolo infedele lo ridusse alla prospettiva di abbandonare, di fermarsi e di dormire, stremato dal buio che aveva davanti e dentro di sé. La regina Gezabele aveva ancora almeno apparentemente vinto: Elia si ritrovò quindi solo, come più tardi Cristo; non gli rimase che rimettersi a Dio.
Ma Dio gli offrì un segno per trarlo dalla disperazione. Non abbandonò il suo profeta, così come non abbandonerà il suo Cristo. Un pane e un’acqua miracolosi ricordavano ad Elia la manna del deserto e l’acqua della roccia. Così, il memoriale della Pasqua del popolo fu il mezzo più sicuro per curare lo scoraggiamento.
Quel pane o focaccia celeste che ha nutrito Elia per avere la forza di continuare il cammino verso il monte Oreb era un richiamo diciamo profetico di quanto Cristo poi dirà: «Io sono il pane della vita…. disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Anche il secondo brano della Messa vuole essere un richiamo del pane di Vita: San Paolo narra l’istituzione dell’Eucaristia.
Vorrei concludere con queste riflessioni che ho trovato, e che mi sembrano particolarmente stimolanti: «Finché il cristiano ha la certezza di possedere la “virtù” ed è sicuro della sua “verità” in tasca, finché il papa o il vescovo o il sacerdote è sicuro di sé, del suo ruolo e della sua influenza, c’è ancora posto per Dio? Queste sicurezze e queste certezze sono troppo umane per essere segno di Dio. Quando invece tutto ciò crolla improvvisamente – e ogni vita conosce questo smarrimento -, quando le virtù che si credeva di possedere diventano, ad un tratto, peccati e viltà, quando le verità tranquillanti e i luoghi comuni e le regole di società e i diritti di casta sono ad un tratto messe in discussione, Dio può finalmente agire».
E allora vorrei aggiungere di mio: l’unica virtù che ci mette nudi davanti al primato di Dio è l’umiltà, intesa come spogliazione di quell’ego che si infiltra ovunque, soprattutto là dove anche un piccolo potere, che diventa un proprio capriccio o un proprio vedere le cose magari come se ciò fosse un volere divino, annebbia l’intelletto divino.
Rimango sempre dubbioso quando mi dicono: “Ma il papa, il vescovo, quel prete o quel frate sono umili, carichi dentro di una profonda spiritualità”. Rispondo: “Se lo fossero, certo non si comporterebbero come si stanno comportando”.
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