Omelie 2012 di don Giorgio: Sesta domenica di Avvento – rito ambrosiano
Vorrei tanto che uscissimo una buona volta dalle strettoie di una religione che predica il masochismo: io mi salvo l’anima se mi mortifico nel corpo, e più mi mortifico più mi salvo. Se devo parlare di potatura, è solo in vista di un bene migliore, già in questa vita. Mi dovrei mortificare sul superfluo, sull’inutile, o su tutto ciò che mi toglie la possibilità di vivere in pienezza.
Il miglior confronto per un serio e positivo esame di coscienza non è tanto con una serie di imposizioni morali, ma con il mondo di quei Valori che appartengono all’Umanità. Quando parlo di esame di coscienza, la parola coscienza acquista il suo autentico senso in rapporto alla Coscienza universale, di cui ciascuno di noi è uno specchio vivente.
Ci sono alcune parole che usiamo anche frequentemente, ma di cui ci sfugge il senso originario. Pensate alla parola verità, alla parola bontà, alla parola bellezza. Gli antichi dicevano che il vero, il buono e il bello appartengono alla sfera dei trascendentali. Che significa? Significa che tra di loro c’è un nesso così profondo e così armonico che il vero non può fare a meno del buono e del bello, e così via. L’uno richiama l’altro. Non posso dire la verità e fare il male, non posso fare il bene distruggendo il bello.
Concretamente, chi va contro la verità, ovvero vive di bugie, di menzogne e di sotterfugi, va contro ogni principio di bene, va contro ogni bellezza o armonia dell’essere. Proviamo a chiederci fin dove amiamo dire la verità, se siamo sinceri con la Coscienza e nei nostri rapporti con gli altri.
Chi va contro il bene comune, che è il contesto del nostro singolo bene, mette a rischio la stessa verità e la stessa bellezza. Il bene comune non consiste solo nel pagare le tasse. Il bene comune è sentirci solidali nel bene e nel male.
Chi va contro la bellezza, ovvero non rispetta il creato, l’ambiente, non dà importanza anche all’arte, alla cura estetica del proprio paese, costui non è veritiero, non è credibile, non possiamo renderlo nostro modello di vita.
Ogni nostro atto, anche il più piccolo, deve rispecchiare armonicamente il vero, il buono e il bello. Avrei dovuto anche parlare di essenzialità, di gratuità, insieme alla bellezza. Ma potrete leggere alcune riflessioni sul foglio che trovate in fondo alla chiesa. Questo esame di coscienza che vi ho invitato a fare non si limita solo all’inizio di questa Messa. Dovrebbe continuare ogni giorno, soprattutto quando veniamo alla Messa festiva.
Is 62, 10-63,3b; Fil 4,4-9; Lc 1,26-38
La Sesta e ultima domenica di Avvento è detta: “Domenica dell’Incarnazione o della Divina Maternità della beata sempre Vergine Maria”. Questa festa risale alla più alta antichità cristiana (434 d.C.) e trae probabilmente origine dal dogma della “Divina maternità di Maria”, proclamato dal Concilio di Efeso del 431. Si tratta di una festività tipica della tradizione ambrosiana. Difatti, nel rito romano la solennità di Maria Santissima Madre di Dio viene celebrata il primo di gennaio, ottavo giorno del Natale.
Nel rito ambrosiano, come dice molto bene il foglietto della Messa, la liturgia della sesta domenica di Avvento viene a configurarsi come il grande portale d’ingresso della celebrazione natalizia: è un invito a contemplare con un unico sguardo di fede il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio e della Divina Maternità di Maria. Come dice l’antifona alla Comunione, si tratta di un mirabile scambio di doni: il Creatore del genere umano, nascendo dalla Vergine intatta per opera dello Spirito Santo, riceve una carne mortale e ci elargisce una vita divina.
Già qui mi verrebbe spontanea una osservazione. Maria santissima è profondamente, diciamo intrinsecamente legata al Mistero della incarnazione del Figlio Gesù. Una devozione a Maria fine a se stessa, staccata dal Mistero della nascita del Figlio di Dio, è fuorviante, errata, pericolosa. Del resto, nel brano del Vangelo di oggi Maria dice all’arcangelo Gabriele: “Ecco la serva del Signore”. Maria ci deve portare ad essere anche noi servi del Signore, e non solo devoti di lei. I santi dicevano: la devozione mariana non può essere che cristologica, il che significa: più amo Maria, più amo Gesù. Se Maria non mi fa amare di più il Vangelo, non è la vera Madre di Gesù. Ecco che cosa significa che la festa di oggi è un invito a contemplare con un unico sguardo di fede il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio e della divina maternità di Maria.
Detto questo, passiamo ai tre brani della Messa. Nel primo, tolto dalla terza parte del libro di Isaia, l’anonimo profeta riferisce le parole del Signore che invita il popolo eletto ad essere pronto per la venuta imminente del Salvatore. Il popolo viene chiamato “figlia di Sion”. In proposito, Giovanni Paolo II così commenta: «La Bibbia usa spesso l’espressione “figlia di Sion” per indicare gli abitanti della città di Gerusalemme, della quale il monte Sion costituisce la parte storicamente e religiosamente più significativa (cf. Mic 4,10-13; Sof 3,14-18; Zc 2,14; 9,9-10). Questa personalizzazione al femminile rende più agevole l’interpretazione sponsale delle relazioni d’amore tra Dio e Israele, indicato spesso con i termini dì «fidanzata» o di «sposa». La storia della salvezza è la storia dell’amore di Dio, ma spesso anche dell’infedeltà dell’essere umano. La Parola del Signore rimprovera sovente la sposa-popolo che infrange l’alleanza nuziale stabilita con Dio: “Come una donna è infedele al suo amante, così voi, casa di Israele, siete stati infedeli a me” (Ger 3,20), e invita i figli d’Israele ad accusare la loro madre: “Accusate vostra madre, accusatela, perché essa non è più mia moglie e io non sono più suo marito!” (Os 2,4). In che cosa consiste il peccato di infedeltà di cui si macchia Israele, la “sposa” di Iahvè? Esso consiste soprattutto nell’idolatria: secondo il testo sacro, per il Signore, il ricorso agli idoli da parte del popolo eletto equivale ad un adulterio».
Se noi non comprendiamo questo, ovvero che ci siamo resi schiavi di qualcosa o di qualcuno, come possiamo comprendere che abbiamo bisogno di un salvatore o di un redentore? Il Papa con chiarezza indica qual è stato il vero peccato d’Israele: l’idolatria, e ci fa capire l’idolatria è anche il peccato che rende schiavo l’uomo moderno. Come al solito, la Chiesa nella sua gerarchia predica bene, ci dice esattamente come stanno le cose, ci indica la strada giusta, e poi favorisce o permette tutta una serie di comportamenti o di pratiche religiose che ci allontanano dalla strada principale.
Come ad esempio si è sviluppata la tradizione delle confessioni natalizie o pasquali, che consistono in un elenco di peccati individuali che nulla hanno a che fare con il peccato di idolatria, che è il vero peccato, l’origine di ogni peccato? Ma che cos’è l’idolatria?
Qualche moderno quando pensa a questa parola, idolatria, pensa ancora agli idoli, agli oggetti che gli antichi popoli rozzamente adoravano come se fossero delle divinità. Ma che cosa è cambiato, oggi? Mai come oggi possiamo dirci idolatri! Tutto è idolo, dagli oggetti più banali al dio denaro. Tutto è feticcio! La parola feticcio significa foggiato, fabbricato. Feticcio è un termine che i primi viaggiatori portoghesi in Africa occidentale applicavano agli oggetti (idoli, amuleti) che, secondo le loro osservazioni, erano venerati dagli indigeni, e il termine è rimasto ancora oggi a indicare ogni oggetto inanimato, naturale o artificiale, cui viene tributato culto da popolazioni feticiste. Il dizionario dà anche un significato più ampio del termine feticcio: cosa o persona esaltata oltre misura, fatta oggetto di fanatico culto, o assunta come simbolo da gruppi sociali, correnti religiose o artistiche o letterarie.
Mancano pochi giorni al Natale cristiano. Quante volte sentiremo e noi stessi useremo la parola salvezza o salvatore! Del resto il nome Gesù significa “Dio è la salvezza”. Ma quante volte ci rendiamo conto di aver bisogno di essere salvati. Salvati da che cosa? Torna la domanda. Qual è il vero peccato che ci rende schiavi? La società sembra avere la dote di esaltare tutto, anche le cose più banali, di riempirle di qualcosa di magico, di così attraente da rimanerne soggiogate. Ad ogni Natale dovremmo sentire dentro di noi questo disagio: di essere in qualche modo vittime di esaltazioni consumistiche.
Nel secondo brano della Messa l’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi li invita alla gioia per l’avvicinarsi del Signore. Non sappiamo esattamente che cosa intendesse dire con la frase: Il Signore è vicino! Vicino a tornare di nuovo? Sappiamo una cosa, ovvero che tra i primi cristiani c’era una forte attesa del ritorno del Signore come imminente. Dopo più di due mila anni di cristianesimo, siamo ancora qui a dire: il Signore è vicino! Ogni Natale che torna diciamo che il Signore si fa ancora più vicino. Ma sappiamo che in realtà poi non è così. Il Signore ci sembra ancora tanto lontano. Basta un piccolo dramma familiare, ed è difficile dire che il Signore è vicino. La società di anno in anno non sembra uscire da una spirale di violenza e di morte. Ma san Paolo ci dice una cosa molto interessante: “Quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri”. L’apostolo sembra dirci: Dio si è fatto vicino, si è fatto uno di noi, ma siamo noi che ci allontaniamo da lui. Il problema, allora, non è Dio se è o non è vicino a noi, ma il problema siamo noi che facciamo di tutto per allontanarci da lui. Come possiamo avvicinarci a Dio? Compiendo la verità, la giustizia, la bontà, l’umanità. Questa è la strada che ci porta a Dio.
Dire verità è dire Dio, dunque il credente è colui che dice il vero. Dire giustizia è dire Dio, dunque il credente è colui che è giusto. Dire bontà è dire Dio, dunque il credente è colui che è buono, ovvero compie il bene. Dire umanità è dire Dio, dunque il credente è colui che è umano. Il credente non è tanto il religioso, quanto colui che realizza se stesso, perché Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza, ovvero assetati di verità, di giustizia, di bontà, di umanità. Il Signore è vicino nella misura in cui noi viviamo secondo il nostro essere umano. Non si tratta dunque di pratiche religiose, ma di vivere da esseri umani che cercano ogni giorno di essere veri, giusti, buoni.
Il terzo brano riporta la famosa pagina di Luca: l’arcangelo Gabriele porta il grande messaggio di Dio ad una sconosciuta ragazza di Nazaret. Se accetta, sarà la madre del Salvatore. Non è il momento di tentare una spiegazione esegetica del brano. Ogni studioso dice un po’ la sua. È evidente che ci troviamo di fronte a qualcosa di misterioso, di assolutamente fuori della nostra portata. Dio non ci chiede di capire il suo modo di agire. Sì, anche Maria ha avuto un momento di turbamento. Ma questo è umano. E questo ce la rende ancor più simpatica, senz’altro più simpatica di tanti santi che sembrano non aver mai avuto alcun dubbio su Dio. Maria però non ha preteso di capire il mistero che si stava compiendo in lei. Bisogna aver fede che aumenta di dubbio in dubbio. Bisogna pur credere al di là delle nostre miserie umane. Se i dubbi fanno parte della nostra vita, è la fede in qualcosa o in qualcuno la forza che ci spinge a continuare. Il peggior rischio che possiamo correre è quando ci lasciamo sopraffare dalle evenienze tragiche della storia. Ci sono momenti in cui perdiamo ogni fede. Non basta riprendere fiducia negli esseri umani. Bisogna credere in qualcosa di superiore. Credere che “nulla è impossibile a Dio”. E Dio tira fuori il meglio di Sé proprio quando i suoi figli ne combinano di tutti i colori. Se è vero che, come dicevo qualche domenica fa, la Storia è inarrestabile nel suo progresso umano, nella realizzazione delle sue migliori energie, è anche vero che la Storia è quella al maiuscolo. Quella di Dio. Qui non si tratta di laicità o di religiosità. Distinzione per me vuota. Dio non è né laico né religioso. È Dio, e basta. L’essere umano non è né laico né religioso. È essere umano, e basta. Ma dire essere umano è dire qualcosa di così profondo che tocca il divino. La laicità e la religiosità sono espressioni superficiali che non toccano il cuore dell’essere umano, che è per sua stessa natura sacro, che non è la stessa cosa che dire religioso.
L’idolo è quel feticcio al quale si fanno offerte per ottenerne il soccorso nel fare la propria volontà, nello sviluppare il proprio progetto.
Il vero culto è il fare la volontà di Dio.
Israele è quel popolo che SEGUE Dio, il re degli eserciti che indica la strada.
In fondo l’idolatria è il peccato di orgoglio e di disobbedienza al PROGETTO di Dio: il peccato di Lucifero, di Adamo ed Eva e di ognuno di noi.
La salvezza portata da Gesù inizia con il FIAT di Maria che ha accettato la volontà di Dio.
“Sia fatta non la Mia, ma la Tua Volontà” dice Cristo e questo è la sottomissione suprema e la salvezza massima.
Anche per noi.
Così la vedo io.
La confessione serve non solo a gettare il proprio male in Cristo, ma anche a fare una sosta nel proprio cammino e riflettere sulla propria vita e sulle proprie scelte.