Omelie 2024 di don Giorgio: DELLA INCARNAZIONE

22 dicembre 2024: DELLA INCARNAZIONE o della Divina Maternità della b. sempre Vergine Maria
Is 62,10-63,3b; Fil 4,4-9; Lc 1,26-38a
Iniziamo dal primo brano. Diciamo subito che tutto il capitolo 62, che fa parte del cosiddetto Terzo Isaia, un autore anonimo, vissuto durante la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, dopo che gli ebrei erano tornati in patria dall’esilio babilonese, è il canto dello sposo e della sposa.
Lo sposo è il Signore, mentre la sposa è Gerusalemme. Il profeta vede rifiorire la sua città e ne interpreta la sua forza e la sua bellezza come il dono di Dio. «Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio». «Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, e la tua terra Devastata, perché sarai Mia Gioia, terra Sposata. Il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo».
Nel linguaggio biblico il matrimonio è il massimo dell’accoglienza, è la garanzia di diventare preziosa agli occhi dello sposo, è la pienezza della propria vocazione di donna che è amata e desiderata.
Il brano del Vangelo di oggi inizia con un annuncio di gioia: «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».
“Entrando da lei” andrebbe tradotto: “entrando in lei, nel suo essere più profondo, che è la vera casa di ogni essere umano.
Non solo i teologi, o i supponenti esegeti, nessuno tra i maggiori pittori o scultori hanno colto l’interiorità o la spiritualità di un dialogo che si è svolto nell’intimo di Maria. Questi pittori, sempre carnali, preoccupati di mostrare il peggio di una fantasia che sa mettere nel dipinto di tutto e di più, togliendo l’essenzialità di un Mistero che sfugge ad ogni esteriorità. Basterebbero pochi tratti di un pennello intinto nel cuore trinitario, e tutto cambierebbe, ma i pittori (chiamarli artisti sarebbe una bestemmia!) sono così banali e carnali da intingere il pennello nella loro fantasia più o meno erotica.
Il Mistero divino va assolutamente rispettato secondo quel pudore del Mistico che contempla, e non pensa in proprio, e tanto meno pensa con l’intelletto spento.
Il Mistero divino, se va anche rappresentato (la gente ha bisogno di essere attratta da qualcosa di visibile), non va mai banalizzato, e allora è solo nella fede più pura che il pittore attinge il suo pennello. Se non crede, il pittore si diverta pure a rappresentare le passioni umane, in questo è molto abile nel darci corpi ben formosi, da cui sprizza ogni piacere sensoriale, e così la gente ha il suo quotidiano appagamento sensoriale.
L’angelo del Signore pronuncia subito una parola di luce: “Kaire!”, che è stata tradotta banalmente per secoli e secoli con la parola latina: “Salve”, ovvero “Ti saluto”. In greco, “kàire” significa “rallegrati, gioisci”.
Pensate a “ciao”, che è una forma di saluto comune che usiamo tutti i giorni, quasi senza accorgercene, quando ci incontriamo o ci accomiatiamo. Ma vi siete mai chiesti quale sia il suo significato originario e da dove arrivi il termine? Per rispondere dobbiamo spostarci in area veneta, in particolare nel territorio veneziano. È qui che, almeno a partire dal XV secolo (forse prima), ci si cominciò a salutare con la parola “schiavo” (s’ciavo nella pronuncia veneziana), inteso nel significato di “sono vostro schiavo” e, cioè, di “sono al vostro servizio”.
Sarebbe il colmo che l’angelo del Signore avesse detto a Maria: “Ti saluto, ciao, sono al tuo servizio”.
E allora che significa “kàire”, “gioisci”? Non credo che sia difficile cogliere che l’annuncio dell’angelo non poteva che essere un “buon” annuncio, come dice la parola “evangelo”, dal greco “eu- ànghelon”, buona notizia, e il bene emana bellezza, grazia, luce, e quindi suscita gioia.
Gioia è in quel dono di un Dio che sorprende quando promette, e le promesse sono sempre legate ai tradimenti delle sue creature. Mi vengono in mente le parole di Sant’Agostino: il peccato originale è stato una “felix culpa”, una colpa felice, perché ha fatto sì che Dio promettesse la venuta sulla terra del suo stesso Figlio. Paradossalmente possiamo dire che ogni peccato mette Dio nell’occasione di donarci ulteriore grazia, e la grazia suscita gioia, la gioia del perdono divino. Invece noi, cristiani, non facciamo che colpevolizzarci a vicenda, provocando tristezza e dolore, e la stessa istituzione ecclesiastica chiede perdono a Dio, quando lo chiede, e poi lo proibisce alle sue creature più ribelli.
La vergine Maria è chiamata “la pienezza di grazia”, perché il suo grembo era intatto da ogni peccato, anche da quello originale. Ma in un certo senso forse noi, povere creature, soggette a peccare, siamo più fortunati, in quanto Dio è sempre pronto a riversare in noi la gioia del perdono.
Ogni giorno è ricco di nuove grazie, e ad ogni grazia divina sentiamo in noi la gioia di vivere, nonostante tutti i nostri limiti e manchevolezze.

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